Alain de Benoist – Il borghese: figura e dominio

Schernito, messo alla berlina, deriso per secoli, il borghese sembra oggi non essere più messo in discussione. Rari sono quelli che lo difendono, rari quelli che lo accusano. Sia a destra che a sinistra pare che si ritenga ormai che ci sia qualcosa di fuori moda o di scontato nell'interrogarsi in modo critico sulla borghesia. Eppure, lungi dall'essere una classe in via di sparizione come imprudentemente ipotizza Adeline Daumard, la borghesia corrisponde oggigiorno più probabilmente ad una mentalità che ha invaso ogni cosa. Se ha perduto la sua visibilità, è semplicemente perché non la si può più localizzare.
 « Il borghese è letteralmente scomparso », si è potuto affermare di recente, « non esiste più, è l'Uomo in persona, e il termine viene utilizzato soltanto da alcuni dinosauri, che il ridicolo finirà per uccidere ». La parola, dunque, non avrebbe più contenuto per il fatto di averne troppo. E nondimeno, come ha notato Jacques Ellul, « Porre questa innocente domanda: "chi è il borghese?", provoca eccessi talmente vistosi nei più ragionevoli che non posso considerarla inerte o priva di pericoli ». Cerchiamo dunque di riformularla, descrivendo in primo luogo per grandi linee la storia della formazione e dell'ascesa della classe borghese.

In Francia, lo sviluppo della borghesia deve tutto alla dinastia capetingia, che si allea ad essa per liquidare l'ordine feudale. Le grandi invasioni terminano nell'XI secolo. Nel corso dei due secoli successivi si afferma il movimento comunale: i comuni, che sono associazioni di "borghesi" delle città percepiscono il sistema feudale come una minaccia ai loro interessi materiali. Un po' ovunque i borghesi, che non sono né nobili né servi ma uomini liberi, chiedono di passare sotto l'autorità del re per non essere più soggetti ai loro signori. In rivolta contro l'aristocrazia, "riconoscono" il re e "sconfessano" il signore, cioè chiedono al re di conceder loro delle « lettere di borghesia » che li affranchino dagli antichi obblighi. La monarchia capetingia, rivale dei feudatari, appoggia questo movimento e crea i « borghesi del re ». A partire dal XII secolo, essa sostiene che si potrà presentare appello davanti ai suoi tribunali contro sentenze emesse dai signori, e priva la nobiltà del diritto di esigere imposte. Parallelamente, istituisce una giurisdizione più omogenea, fondata su un diritto razionale derivato dal diritto romano, a spese del diritto consuetudinario.
La borghesia punta sullo Stato in via di formazione poiché esso è l'istituzione maggiormente in grado di favorirne l'ascesa. Inoltre, essendo più lontano, esso costituisce già un'autorità più astratta, più impersonale. Grazie ad esso i borghesi tutelano i propri interessi ottenendo franchigie commerciali e professionali. 10 Stato, dal canto suo, si aspetta dalla borghesia mezzi finanziari. Assicurandone la promozione, distrugge i legami feudali che sono di ostacolo al suo potere. Questa tendenza si accentua, singolarmente, al tempo della guerra dei Cent' Anni (1346-1452). Per partecipare alla guerra i signori devono infatti procedere ad ulteriori alienazioni di beni e di diritti sulle persone. La borghesia ne approfitta. Accanto all'economia signorile si crea pertanto un altro settore economico, affrancato dalle costrizioni feudali, che evolverà poi verso il capitalismo. Appoggiandosi alla borghesia, la monarchia capetingia crea di pari passo il regno e il mercato, e dà il via al processo di unificazione della Francia, che si concluderà sostanzialmente alla fine del XV secolo. « Senza l'aiuto che la borghesia prestò spontaneamente alla monarchia », sottolinea Pierre Lucius, « quest'ultima non sarebbe stata capace di procedere alla riunificazione delle terre che costituiscono oggi la Francia »

La borghesia punta sullo Stato
Il sistema feudale si sbriciola all'inizio del XV secolo. Nello stesso periodo l'avvento dell'artiglieria toglie alle fortificazioni la loro utilità militare. Mentre la vecchia aristocrazia terriera comincia ad impoverirsi,l'osmosi fra la borghesia e la dinastia capetingia si accentua. La monarchia recluta i suoi consiglieri nella classe borghese. Jacques Coeur diventa ministro delle finanze di Carlo VII. Nel secolo seguente, nel 1522, Francesco I istituisce la venalità degli uffici su consiglio del finanziere Paulet. Mediante pagamento di una tassa, l'ufficio diventa ereditario. « La venalità degli uffici », scrive ancora Lucius, « garantisce il trionfo della borghesia, che aveva acquisito l'agiatezza nel commercio e nell'industria. Mentre la nobiltà veniva decimata in guerra oppure, sfaccendata, deperiva a corte o nelle proprie terre, le borghesie di denaro si impadronirono dello Stato ».
Parallelamente, lo Stato cerca in tutte le maniere di massimizzare le entrate finanziarie e fiscali. Dal XIII secolo in poi conduce un'attività "capitalista", fondata sulla razionalizzazione e sull'intervento.ad oltranza. Colbert, discendente da varie generazioni di mercanti, dirà: « Tutti quanti, credo, si troveranno d'accordo nel riconoscere che la grandezza e la potenza di uno Stato si misurano unicamente sulla quantità di denaro che esso possiede ». A tale scopo, lo Stato sviluppa il commercio su larga scala e crea il mercato in uno spazio "defeudalizzato", già reso omogeneo dall'uniformità delle norme giuridiche. Non essendo gli scambi comunitari, non mercantili, fondati su legami di reciproca dipendenza personale, fiscalmente perseguibili, si sforza di limitarli. « Lo Stato è vitalmente interessato allo sviluppo dell'economia di mercato e alla riduzione degli scambi non mercantili », scrive Pierre Rosanvallon. « Le sue ambizioni politiche e quelle fiscali si coniugano perciò per legare la sua sorte a quella del mercato ». La formazione del mercato, resa possibile dallo smantellamento del sistema feudale, implica però la generalizzazione del sistema del valore di scambio, al cui interno l'individuo atomizzato è sempre più portato a guardare solo al proprio interesse privato. Adoperandosi ad instaurare la "libertà industriale",la monarchia attacca dunque le solidarietà organiche tradizionali. Essa esercita il suo potere sui dei sudditi, non su dei gruppi autonomi; stacca già l'individuo dai suoi simili, mettendo così in moto un processo che la Rivoluzione si limiterà a radicalizzare. Lo Stato nazionale si costruisce pertanto allo stesso ritmo del mercato, mentre la borghesia prosegue la sua ascesa. « Individualismo e statalismo marciano di pari passo », diceva Durkheim.
Numerosi autori (Pierre Rosanvallon, Louis Dumont, Marcel Gauchet) hanno posto in luce questa stretta relazione fra individualismo, Stato nazionale ed avvento del mercato. « Il mercato è in principio un modo di rappresentazione e di strutturazione dello spazio sociale », nota Rosanvallon. « Solo in seconda battuta è un meccanismo di regolamentazione decentralizzata delle attività economiche attraverso il sistema dei prezzi. Da questo punto di vista lo Stato nazionale e il mercato rimandano ad una medesima forma di socializzazione degli individui nello spazio. Essi sono pensabili unicamente nel contesto di una società atomizzata. nella quale l'individuo viene considerato autonomo. Non possono dunque esistere Stato nazionale o mercato, nel senso sia sociologico che economico di questi termini, in spazi nei quali la società si dispiega come un essere sociale globale». In questa prospettiva va situata l'azione dello Stato capetingio per dissolvere, con l'ausilio della borghesia, i rapporti sociali ereditati dalla feudalità. Lo Stato « non avrà pace fino a quando non avrà distrutto metodicamente tutte le forme intermediarie di socializzazione formatesi nel mondo feudale, le quali costituivano delle comunità naturali abbastanza importanti nella loro dimensione da essere relativamente autosufficienti: clan familiari, comunità di villaggio i (che svolgono fra i contadini il ruolo che il lignaggio ha per i nobili), confraternite, mestieri, partiti, ecc. […] Partecipando alla liberazione dell'individuo dalle sue forme precedenti di dipendenza e di solidarietà, esso sviluppa l'atomizzazione della società di cui ha bisogno per esistere ». Lo stesso genere di osservazione è formulata da Gilles Lipovetsky: « È stata l'azione congiunta dello Stato moderno e del mercato a consentire la grande frattura che ormai ci separa per sempre dalle società tradizionali, la comparsa di un tipo di società nella q~'uomo individuale si prende per fine ultimo ed esiste solamente per se stesso ». Si può dunque considerare equivalenti  i tre termini borghesia, capitalismo, modernità. Interrogarsi sulla formazione della classe borghese significa portare alla luce le radici della modernità.
Ma già sin dal XV secolo, di fatto, il denaro inizia a svolgere un ruolo essenziale. Erasmo (« Pecuniae obediunt omnia ») lo deplorerà, così come farà Hans Sachs «Gelt is auff erden der irdisch gott»). L'intera società feudale era ordinata sulla base della nozione di bene comune: i corpi e le corporazioni dovevano assumere il solenne impegno di sottomettersi alle sue esigenze. Il diritto di proprietà era riconosciuto non come un diritto in sé o come un diritto assoluto, ma per ragioni pratiche e contingenti (essendo le ricchezze gestite meglio da singoli che da collettività). Il calcolo economico non è dunque altro che un meno peggio. D'altro canto non si mira all'esattezza: « Quella che i conti debbano essere necessariamente esatti è un'idea specificamente moderna » (Sombart). Il denaro, in definitiva, esiste solo per essere speso: « Usus pecuniae est in emissione ipsius » (Tommaso d'Aquino).
« Il perseguimento del guadagno per il guadagno, illucrum in infinitum, la speculazione e il maneggio del denaro sono condannati come una passione [ vergognosa. Il Medioevo era severo verso l'acquisto e la rivendita con guadagno di una cosa il cui valore d'uso non è stato aumentato dal lavoro. Gli pareva che in tal caso il beneficio non fosse giustificato da alcun servizio reso dal venditore all'acquirente. In virtù del medesimo principio la Chiesa condannava il prestito ad interesse » A mano a mano che la borghesia si afferma, si assiste a questo riguardo ad un autentico rovesciamento di valori. Ormai la stima numerica è fondamentale. L'avidità di guadagno si trasforma in una virtù. Nel suo trattato di Oeconomie politique, dedicato a Luigi XIII, Antoine de Montchrestien proclama che l'arricchimento è un fine in sé: « La fortuna dell'uomo consiste principalmente nella ricchezza ».
L'attività economica cambia allora natura. Da empirica quale era, diventa razionalista. Doveva soddisfare gli scopi umani; adesso tocca all'uomo piegarsi alle sue leggi. Era essenzialmente un'economia della domanda e dell'uso; si trasforma in economia dell'offerta e dello scambio. Inoltre, più il mercato si estende, più si fa sentire la necessità degli intermediari, e più si accresce il ruolo del mercante, vale a dire di quell'elemento della classe economica che si interessa prima di tutto all'aspetto quantitativo della produzione. Come scrive Werner Sombart, « il commercio orientò, o almeno abituò a poco a poco lo spirito umano a orientarsi verso il giudizio quantitativo. […] per il mercante scompaiono presto dal mondo dei beni l'importanza e la valutazione della qualità, soprattutto perché egli non ha nessun rapporto organico coi beni che commercia […] Il mercante […] rimane di fronte all'oggetto del suo commercio in un rapporto puramente esteriore […] in esso non vede che un valore di scambio. E qui sta la seconda ragione, la ragione positiva della valutazione puramente quantitativa che egli ne dà: il valore di scambio è una quantità, e il mercante si interessa soltanto della quantità ».

L’influenza della Riforma
La Riforma segna una svolta di primaria importanza. Mentre Lutero combatte con forza il nascente capitalismo, Calvino si sforza viceversa di conciliarlo con la morale cristiana. I puritani d'Inghilterra e d'Olanda, e poi d'America, vedranno nell'abbondanza di profitti un segno dell'elezione divina. Le Tesi di Max Weber a questo riguardo sono ben note, ma richiedono qualche sfumatura. Anche la Chiesa cattolica infatti, malgrado il suo rifiuto di attribuire al denaro un valore a sé stante, ha contribuito allo sviluppo del capitalismo borghese. Da un Iato essa sviluppa l'idea di un valore-lavoro (l'uomo : sulla terra per lavorare, e per lavorare sempre di più): denunciando l'« inattività » (otium), garantisce la non-inattività, cioè il neg-otium, il "negozio". Dall'altro, tutta la sua morale si fonda sull'idea di una razionalizzazione dei comportamenti: negli atti umani è peccato tutto ciò che è in contrasto con l'ordine della ragione. Per cui Tommaso d'Aquino condanna, contemporaneamente all'otiositas, qualunque cosa abbia a che vedere con l'« eccesso » o con la passione. « Se vogliamo determinare l'importanza della religione cattolica per la formazione dello spirito capitalistico », scrive Sombart, « dobbiamo renderci chiaramente conto che già da questa idea fondamentale di razionalizzare la vita doveva nascere un postulato essenziale del pensiero capitalistico, il quale, lo sappiamo, è anch'esso razionale e diretto a un fine preciso. L'idea del guadagno e il razionalismo economico non significano in fondo altro che l'applicazione all'economia delle norme di vita della religione. Perché il capitalismo potesse svilupparsi era prima necessario spezzare le ossa dell'uomo impulsivo e sostituire alla schietta vita originaria un particolare meccanismo psichico razionalmente congegnato; bisognava prima rovesciare tutti i valori e tutte le idee. L' homo capitalisticus è una costruzione artificiale, ben congegnata, uscita alla fine da questo rovesciamento ». In questo nuovo clima la rappresentazione medievale del mondo va in frantumi. Il cartesianismo, che succede al nominalismo, introduce un rapporto con le cose sensibili completamente diverso. Lo spirito e la materia si separano, e lo stesso avviene per divino e mondo, pensiero e azione. Il fondamento della realtà diventa discontinuo. Il mondo, ormai "disincantato", si trasforma in un oggetto di cui ci si può impadronire con l'attività ragionata. È ridotto ad una cosa riempita di cose, tutte valutabili e calcolabili. Cose che hanno un prezzo, ovvero un valore di scambio, che tiene conto dell'offerta e della domanda determinate dalla rarità.
Un tempo, la personalità si formava sulla base dell'appartenenza: puntando all'eccellenza, l'individuo cercava di dare lustro e di proseguire ciò che l'aveva preceduto. Una parte del suo modo di vedere ritornava dunque all'origine. Il novum assume ormai un valore in sé. Lo spirito di iniziativa, sviluppandosi, esige un orientamento verso il futuro (concezione di un piano), e nel con tempo un certo grado di libertà rispetto ai vincoli del momento. L'attività economica stessa è peraltro supposta illimitata: ogni economia capitalistica deve operare al di là dei bisogni e suscitarne di continuo di nuovi. Bisogna dunque cambiare il mondo creandovi sempre qualcosa di nuovo. L' ottimo si riduce allora al massimo e il meglio si confonde con il più. Ossessione del lavoro, del cambiamento, del movimento. Bisogna trasformare il mondo attraverso il fare finanziario, industriale o tecnico. Già da quest'epoca, scrive Jacques Ellul, « ciò che caratterizza la borghesia, ben più della proprietà privata, è l'enorme sconvolgimento ch'essa impone alla società. E il fatto di mettere all'opera un intero mondo. E il succedersi delle rivoluzioni per giungere ad imporre o a mettere a punto un regime politico ideale. È la rimessa in discussione delle strutture economiche e, in un tempo incredibilmente breve, la creazione di nuove strutture; è la conquista della intera terra ». Nel XVII e nel XVIII secolo, il borghese inventa l'idea secondo cui si è sulla terra per essere « felici »; e questa idea ben presto sembrerà la più naturale del mondo. Lo sviluppo delle industrie e delle tecniche fa supporre che la felicità sia a portata di mano e che, per raggiungerla, sia sufficiente sopprimere gli ultimi ostacoli ereditati dal passato. Quanto alla felicità, essa viene concepita prima di tutto come un benessere materiale (comfort e sicurezza) dipendente dalle condizioni esteriori, sulle quali, appunto, si può agire. Si sarà dunque più felici quando la società sarà « migliore ». L'ideologia della felicità fa dunque il paio con quella del progresso, che le offre una giustificazione.
Il progresso è quindi in primo luogo sviluppo economico continuo, con tutto ciò che si ritiene esso porti con sé. Lo sviluppo non è più una maturazione che tende alla pienezza, né l'adempimento di una norma o di una finalità. È una addizione indefinita di quantità finite. Lo sviluppo punta a « raggiungere uno stato che è definito esclusivamente dalla capacità di raggiungere nuovi stati » (Cornélius Castoriadis). La borghesia, in altri termini, reintegra l'infinito nel mondo: il meglio di ieri non è che un meno nei confronti del più che verrà. Ma nel contempo, collocando l'infinito nel mondo materiale, la borghesia si trincera in una chiusura spirituale. Come ha assai efficacemente notato Nikolai Berdjaev, « Il borghese, nel senso metafisico del termine, è un uomo che crede soltanto al mondo delle cose visibili e palpabili ed aspira ad occupare in tale mondo un posto sicuro e stabile […] Egli non si rende minimamente conto della vanità, della nullità dei beni di questo mondo. Prende sul serio esclusivamente la potenza economica […]
Il borghese vive nel finito, teme i prolungamenti nell'infinito. In fatto di infinito, riconosce solo quello dello sviluppo economico […] Riconosce l'infinitezza dell'accrescimento del benessere, non vede limiti all'organizzazione della vita, ma tutto ciò lo imprigiona sempre più nel finito ». Per cui, in conclusione, « È il borghese a creare il regno delle cose, ma sono le cose a governarlo e dominarlo ». In un mondo trasformato in oggetto, anche l'uomo diventa una cosa.

Quando la monarchia diventa inutile
Per un lungo periodo la borghesia ha tratto vantaggio dall'alleanza con la monarchia. La storia di questa alleanza non è stata tuttavia esente da tensioni. C'è voluto poco perché alla classe borghese non bastasse più il favore che le dimostrava lo Stato e cercasse di assumerne il controllo, come accadde al tempo dell'insurrezione di Étienne Marcel (1358) e sotto Luigi XI, poi sotto Francesco I e Luigi XIV. Ma a quell'epoca la borghesia non disponeva ancora di tutti i mezzi necessari alla sua ambizione. Soltanto nel XVIII secolo essa acquisì la forza necessaria ad impadronirsi della sovranità. Si possono così distinguere tre momenti nei suoi rapporti con lo Stato. In un primo tempo la borghesia sale all'interno del potere politico, che la favorisce e che è l'unico a possedere lo strumento amministrativo indispensabile alla costruzione del mercato. In un secondo tempo, grazie alle posizioni conquistate, essa crea un potere proprio, un potere economico di tipo privato. In un ultimo tempo intima al potere politico di assoggettarsi ai suoi fini. A partire dal 1750 la classe borghese, ricca, potente, conquistata alle idee dei Lumi, non ha più bisogno del re, che è di ostacolo ai suoi progetti. Dal suo canto, la monarchia si è instradata verso l'assolutismo. La borghesia, che ha già preso il potere in Inghilterra nel 1688 , se ne impadronisce in Francia nel 1789. La Rivoluzione vede un completo ribaltamento.
Così come ha saputo sbarazzarsi della monarchia quando non ne ha più avuto bisogno, una volta rovesciato l'assolutismo la borghesia tenterà di sbarazzarsi del popolo. A tale scopo, essa inventa il concetto politico di « nazione », entità astratta che permette di confiscare al popolo quella sovranità che pure gli era stata solennemente attribuita. In teoria il popolo è « sovrano ». In pratica la sovranità appartiene esclusivamente alla nazione, che si ritiene rappresenti il popolo ma si esprime soltanto sulla base del suo statuto giuridico costituzionale. E dal momento che la Costituzione riserva il diritto di voto agli elettori « attivi », cioè economicamente dotati, e soltanto l'assemblea è investita del potere di volere e legiferare in nome della nazione, sono in realtà rappresentanti della borghesia a decidere, giacché il suffragio censitario permette di ridurre l'elettorato alla porzione congrua ».

Il secolo borghese
Nel XIX secolo il borghese si definisce sia per lo status che per il rango, il patrimonio e le relazioni. È « colui che ha un salotto » (Seignobos), « colui che ha delle riserve » (Andrà Siegfried), o addirittura « colui che possiede un pianoforte ». Che appartenga alla piccola, alla media o all' alta borghesia, alla borghesia di affari o alla borghesia d'impresa, alla borghesia redditiera o alla borghesia « intellettuale e liberale », sia le abitudini che le scelte matrimoniali attestano la sua deferenza verso l'apparire, le convenzioni e l'ordine costituito. È l'epoca di quel « cristianesimo borghese » contro il quale si scateneranno Bloy, Péguy e Bernanos, e che conduce Proudhon ad accusare la Chiesa di aver « fatto da serva alla borghesia più crassamente conservatrice ». È altresì l'epoca in cui il "progresso" trionfa sotto forma di ideologia scientista: il borghese crede alla scienza così come crede alla ferrovia, all'omnibus e all'illuminazione a gas. Ma è soprattutto l'epoca del borghese grottesco, schernito dai romantici, dagli artisti, dalla bohème e dai rapins. È vero che la tradizione del borghese ridicolo, cornuto, credulone e barbogio, risale a Molière se non addirittura aifabliaux medievali, ma adesso essa raggiunge il suo massimo fulgore. I personaggi di Perrichon, Fenouillard, Bouvard e Pécuchet, Monsieur Poirier, Prud'homme, César Birotteau succedono del tutto naturalmente al Bourgeois gentilhomme e al Bonhom! me Chrysale. Ispirano il romanzo popolare e la commedia da boulevard (Labiche, Clément Vautel, Jules Sandeau, Ernile Augier). Eccitano la verve di Baudelaire o di Balzac, il tratto di Daumier e dei caricaturisti de « L' Assietite au beurre ». Flaubert lancia la sua celebre apostrofe: « chiamo borghese I tutto ciò che pensa bassamente ».
Accusato di avere tutti i difetti, il borghese assomiglia a Proteo. Gli si rimprovera il culto del denaro, il gusto della sicurezza, lo spirito reazionario, il conformismo intellettuale, la mancanza di gusto. Lo si dice filisteo, egoista, mediocre. Lo si rappresenta nei panni di sfruttatore del popolo, di parvenu senza distinzione, di notabile satollo, di cretino soddisfatto. Critiche così contraddittorie possono alimentare la caricatura, ma si chiariscono quando vengono messi in luce i differenti ambienti da cui provengono, e soprattutto gli idealtipi ai quali il modello del borghese è contrapposto. La borghesia è disprezzata dalla destra antiliberale, spesso per ragioni estetiche e in nome di valori aristocratici (l'universo del borghese è laido e pretenzioso, i suoi valori sono mediocri), mentre la sinistra s'indigna contro di essa in nome di valori morali e "popolari" (rappresenta i « privilegiati »).
L'atteggiamento di Marx è ambiguo. Da un lato condanna la borghesia con frasi rimaste famose. Dall'altro ne canta le virtù rivoluzionarie e le indirizza lodi perché essa ha sviluppato le forze produttive. Nei fatti, Marx non esplicita mai quella che chiama la «classe borghese », se non per dire che detiene il capitale. Sulle sue origini è praticamente muto. Non si accorge che il borghese è innanzitutto l'uomo economico; e, nella misura in cui anch'egli accorda all'economia un'importanza determinante, critica sempre la borghesia in una prospettiva che sente costantemente propria: l'economicismo gli impedisce di svolgere una critica radicale dei valori borghesi. Ci si accorge d'altronde facilmente che quei valori lo affascinano. Dopotutto la borghesia non è forse stata la prima a cambiare il mondo, invece di limitarsi a interpretarlo? Marx vuole metter fine allo sfruttamento di cui la borghesia è responsabile, non ai valori borghesi: per molti versi, la società senza classi è la borghesia alla portata di tutti.
Marx inoltre non abbandona mai la prospettiva individualistica, come hanno evidenziato, fra gli altri, Louis Dumont e Michel Henry. Il concetto di interesse generale in lui è costruito solo per addizione degli interessi individuali, e persino la nozione di interesse di classe è introvabile nella sua opera. Denuncia la finzione dell'individuo isolato, sulla quale si fondano le teorie del contratto e nella quale vede a giusto titolo una rappresentazione tipica di una determinata situazione storica; nondimeno parteggia per un individuo « integrale », che nella società senza classi potrà finalmente « riappropriarsi del suo essere ». Tutta la sua teoria della lotta di classe ha senso soltanto nel quadro di una rappresentazione individualistica della società.

Gli equivoci del fascismo
Non meno equivoci saranno i fascismi. Ostili al liberalismo, non volendo essere in teoria « né a destra né a sinistra », essi nella maggior parte dei casi si limiteranno a radicalizzare una clientela "nazionale" in parte acquisita ai valori liberali e borghesi. Il fatto che una larga parte del loro elettorato sia costituita da classi medie impaurite dalla crisi e minacciate dalla modernizzazione contribuirà alloro imborghesimento. Perlopiù essi si prenderanno la briga di distinguere il « capitalismo industriale e produttivo » dal « capitalismo speculativo e finanziario », limitandosi a denunciare i « grossi », i rappresentanti delle « dinastie borghesi », senza prendersela con il capitalismo in quanto tale. Faranno professione di fede in quell'ordine morale a cui è attaccata quella « piccola borghesia » che Péguy descriveva come « la più sfortunata fra tutte le classi sociali ». René Johannet, autore di un celebre Éloge du bourgeois français, aveva simpatia per il fascismo mussoliniano. E quando si rilegge oggi il Manifeste de la jeune droite pubblicato da Drieu La Rochelle nella « Revue hebdomadaire » del 16 gennaio 1926, ci si stupisce nel vederlo proclamare con fierezza che quella giovane destra si vuole « borghese »: «Essa pone francamente come principio il fatto che i suoi capi sono dei borghesi e che i borghesi quelli che lo diventano o che lo restano da una generazione all' altra, con il lavoro e i talenti devono saper conservare l'autorità insieme con la responsabilità »! I fascismi-movimenti, ed ancor più i fascisti-regimi, fanno inoltre ampie concessioni al nazionalismo.
Ovverossia, come scrive Emmanuel Mounier, « combattono all'interno delle loro frontiere un individualismo che sostengono ferocemente su scala nazionale ». E la borghesia non si è mai sottratta al compito di difendere la nazione, la patria o l'ordine costituito ogniqualvolta pensava di difendere, così facendo, i suoi interessi.
In definitiva, è senz' altro fra i « non-conformisti degli anni Trenta » che troviamo, nel XX secolo, la critica più radicale della borghesia e dei valori borghesi. E prima di loro in Charles Péguy, per il quale il mondo moderno soffre prima di tutto « del sabotaggio borghese e capitalistico »: « Non si esagererà mai nel dirlo. Tutto il male è venuto dalla borghesia. Tutta l'aberrazione. Tutto il crimine. È stata la borghesia capitalista ad infettare il popolo. E lo ha appunto infettato di spirito borghese e capitalista […] Non si esagererà mai nel dirlo, è stata la borghesia ad iniziare a sabotare, e tutto il sabotaggio è nato nella borghesia. Dato che la borghesia si è messa a trattare come un valore di borsa il lavoro dell'uomo, il lavoratore si è messo a sua volta a trattare come un valore di borsa il proprio lavoro. Dato che la borghesia si è messa a fare continuamente speculazioni borsistiche sul lavoro dell'uomo, anche il lavoratore, per imitazione, per collusione e contrasto, e si potrebbe quasi dire per intesa, si è messo a fare continue speculazioni borsistiche sul proprio lavoro ». Non si potrebbe dir meglio.
Lo spirito borghese La borghesia è sempre stata analizzata nel contempo come classe e come rappresentante di una mentalità specifica, di un tipo umano che fa riferimento ad un certo nume

Redazione