Quale rapporto esiste tra scienza e democrazia, e, più in generale, tra scienza e politica? Se poniamo la domanda in sede storica, allora cogliamo subito che nell'età moderna il rapporto è stato sempre conflittuale e aspro. L'età moderna vede, come figura esemplare, Galilei. E Galilei, in qualche nota scritta solo perse stesso e in tarda età, medita sulla propria condanna e osserva come le innovazioni dovute alla scienza siano «potenti a rovinare le repubbliche e sovvertire gli stati». Coloro che s'insediano ai vertici della società, a suo avviso, temono dunque l'innovazione poiché incrina i loro poteri. Quindi agiscono come «giudici sopra gl'intelligenti», e li piegano. Il contrasto di cui parlava Galilei può tuttavia essere oggi percepito in forma opposta. Si può infatti sostenere che la figura del decisore politico in grado di piegare lo scienziato è scomparsa, e che, in realtà, la politica nulla decide in quanto è globalmente condizionata dallo strapotere della tecnoscienza.
Quest'ultima è innegabilmente diventata un potere forte, dopo i tempi galileiani, e in varie zone del pianeta si sta ulteriormente irrobustendo. S'assiste così ad una evoluzione rapida dei saperi e della tecnologia: una evoluzione imprevedibile, non guidata da un Disegno Intelligente e non valutabile come un progresso del tutto positivo e razionale. Ciò era chiaro, nei primi anni Settanta del Novecento, a Konrad Lorentz. Il quale, nella sua lezione Nobel, faceva notare come il trasferimento di informazioni tra le generazioni umane vedesse all'opera dei «processi che sono totalmente indipendenti daconsiderazioni d'ordine razionale». Una mutazione innovatrice nelle nostre teorie o nelle nostre tecniche deve insomma, per affermarsi, eliminare forme di tradizione, e suscitare di conseguenza forme conservatrici di rigetto: e il contrasto, come accade nell'evoluzione biologica, non obbedisce a logiche predefinite.
É buona cosa, allora, che si presti la dovuta attenzione a quanto sta accadendo nella rete mutevole delle correlazioni tra il sapere di base sui fenomeni naturali, la folla dilagante dei manufatti tecnologici e gli statuti stessi della politica. Non è detto a priori, infatti, che il trasformarsi rapido della rete garantisca un futuro migliore per gli umani e per il pianeta. E, nello stesso tempo, è ragionevole presumere che una più approfondita conoscenza della rete e dei suoi mutamenti attuali possa però aiutarci a collocare la scienza e la tecnica come beni pubblici in regimi democratici, senza cedere allo scetticismo di chi, dopo aver constatato il potere della tecnoscienza, vede a rischio sia la democrazia, sia la libertà.
Una forma di scetticismo mi sembra quella che Ernesto Galli Della Loggia ha esposto commentando, sul Corriere della Sera, il nuovo libro di Schiavone, Storia e destino, che è appena uscito da Einaudi. Nel commento si legge che la democrazia deve controllare il potere economico o quello delle maggioranze, e che, di conseguenza, le regole democratiche debbono rifarsi a valori non negoziabili con tali poteri: ma quali valori potranno mai tenere a bada il dominio tecnico-scientifico"? Questo potere è ormai "immane", visto che siamo alle porte di una società in cui l'uomo sarà addirittura "padrone della propria forma biologica", grazie a una scienza che installa se stessa come dominio sia sulla natura, sia sul controllo evolutivo della specie e della stessa mente umana. Vi è dunque, a parere di Galli Della Loggia, un conflitto insanabile tra scienza e democrazia, in quanto la prima non è un sapere puro a disposizione dell'umanità, ma è un intreccio indomabile di interessi economici i cui promotori – gli scienziati – non accettano alcuna forma di controllo esterno. Stiamo allora per dover scegliere tra il sapere e la libertà.
Non penso che il bivio sia così drastico: l'evoluzione della scienza è talmente rapida e planetaria che la libertà e la democrazia già sarebbero dei residui fossili. Siamo invece nelle condizioni di ripensare l'intera questione con l'obiettivo di ricollocare le «conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici», come sostiene Luciano Gallino nel suo volume che Einaudi ha distribuito in aprile con il titolo Tecnologia e democrazia. Il programma di analisi suggerito da Gallino richiede una chiave di lettura che è quanto mai diversa da quelle di tipo tradizionale, e che è formata da due parti interconnesse. La prima dice che, di fronte agli sviluppi della tecnologia e del sapere scientifico, dobbiamo ammettere che «non abbiamo mai saputo che cosa stessimo facendo, a noi stessi, alle generazioni future e all'intero pianeta», e che, dati i successi causati da tali sviluppi in talune aree del pianeta, siamo comunque stimolati a «insistere con maggior vigore in quel che, senza saperlo, stiamo facendo».
È accettabile questo argomento? Direi di sì. La storia della scienza e della tecnica mostra come la maggior parte delle innovazioni e delle scoperte sia emersa in forme indipendenti dai progetti, dalle aspettative o dalle previsioni degli innovatori, degli scopritori e degli attori politici. Ha ragione Gallino: non dobbiamo sottovalutare la "smisurata ignoranza" che sempre caratterizza i nostri tentativi di cogliere le conseguenze dello sviluppo scientifico e tecnologico. Stando cosìle cose, come impostare un progetto di democrazia che «sappia meglio sfruttare ai propri fini diversi aspetti della tecnologia»?
Ebbene, la seconda chiave di lettura delle pagine di Gallino entra proprio nel merito di questo problema, seguendo una linea argomentativa quanto mai originale e centrata sulla figura del "decisore tecnologico". Qui il mondo della tecnologia è rappresentato con una modalità neodarwiniana, ovvero come una popolazione di strutture materiali e non materiali che deriva dall'uso razionale di conoscenze scientifiche di base, e che punta alla soluzione di problemi pratici: un concetto di popolazione che viene esplicitamente pensato «in maniera omologa alla teoria dell'evoluzione dei sistemi viventi per selezione naturale». Da questo punto di vista, allora, ciò che di solito chiamiamo "tecnologia" diventa un elemento essenziale dell'evoluzione della nostra specie, una sorta di anello per la «coevoluzione di biologia e cultura». Secondo Gallino, infatti, «nell'evoluzione della nostra specie interagiscono tre ordini di popolazioni: organismi umani, sistemi tecnologici e sistemi socioculturali».
La nostra storia diventa, nelle righe di Gallino, il risultato mutevole di un circuito del tipo seguente. Gli esseri umani – organismi del primo ordine – usano in forme selettive gli organismi di secondo ordine – strumenti tecnologici – per riprodurre se stessi e quegli organismi di terzo ordine che sono i sistemi socioculturali. In accordo con la teoria dell'evoluzione, quindi, il circuito «non è stato finora il prodotto di un disegno intenzionale», e «non sussistono segni che lo stia diventando». Esso funziona per la sopravvivenza e la riproduzione, e, come accade in una cornice darwiniana, la nostra specie ne ricava sia i vantaggi, sia i rischi. Ed entrambi sono condizionati da una "smisurata ignoranza" di quale sarà l'evoluzione futura. Sappiamo soltanto che quest'ultima sarà il risultato imprevedibile e non intenzionale delle scelte che stiamo ora facendo: «Il rapporto tra tecnologia e società transita per stati di equilibrio intermittente, dall'esito ignoto, tra popolazioni umane e metaumane, irraggiantisi sul pianeta come espressione della coevoluzione di biologia e cultura». Ecco, a questo punto, la questione centrale. La coevoluzione di biologia e cultura diventa sempre più complicata in quanto osserviamo vere e proprie forme di «emancipazione di nuove popolazioni di sistemi tecnologici». Per i soggetti politici, di conseguenza, sorgono gravi difficoltà, dovute all'azione stessa della tecnologia sui sistemi socioculturali che danno forma all'intero campo dell'agire politico.
Che fare, allora? La risposta di Gallino suggerisce un accrescimento delle conoscenze relative ai possibili orientamenti della ricerca scientifica e tecnologica, con la speranza di approdare, sia pure in tempi non brevi, ad una scienza intesa come bene pubblico globale. Ci rendiamo conto di vivere nelle trame di un progresso sulle cui direttrici di sviluppo non sappiamo incidere in modo saggio e realistico. Ma sappiamo anche che possiamo investire fondi e risorse umane nella ricerca delle leggi che regolano i rapporti tra tecnologia, cultura e politica. Detto in modo scarno: invece di subire un progresso a rischio, dobbiamo agire per capirne l'architettura e modificarla in modo da ottenere un sapere che sia davvero un bene pubblico globale. Senza cedere le armi della ragione a sistemi politici – laici o religiosi – che si autolegittimano vantandosi di possedere regole e valori insindacabili e non negoziabili. Dobbiamo evitare questo esito, se non altro, perché la storia stessa ci insegna che quei sistemi politici hanno sempre manipolato la scienza riducendola a merce, negandole contenuti culturali veri e propri, e generando disastri e tragedie.
30/07/2007 – La Repubblica