Ciò che noi, nelle diverse esperienze del nostro vivere, sentiamo, potremmo riconoscerlo sentito in modo diverso, secondo diverse gradazioni e da diversi ambiti dell' interiorità. Più precisamente, ciò che sentiamo sarebbe disposto – diciamo così – su tre livelli, come tre sono i livelli di personalità umana che, lungo tempi e luoghi differenti, hanno avuto rappresentazione dentro innumerevoli culture[1]. Avremmo, così, un sentire corporale-fisico, un sentire psichico-emotivo, ed un sentire spirituale-sentimentale. Il sentire corporale-fisico può esemplificarsi da stati come la fame, la sete, la sazietà di queste… il sentire psichico-emotivo da percezioni quali la gioia o la paura, il sentire spirituale-sentimentale da condizioni interiori come la beatitudine o l' angoscia. Questo sentire, nell' articolazione sopra detta, viene a costituire una sorta di spina dorsale dell' esistere umano, che dalla sua parte "bassa", connaturata alle nostre esigenze materiali, giunge innalzandosi fino all' ambito spirituale, dove, nella maniera più propria e compiuta, si definisce effettivamente quel che noi siamo.
Ora, posto che il sentire corporale-fisico è qualcosa con cui si abbia a che fare – e che si riconosca e valuti – piuttosto comunemente e chiaramente (anche se, come dirò in seguito, questo sembra forse ormai venirci messo in discussione), potrebbe risultare interessante considerare, con una certa attenzione, la successiva forma del sentire, il sentire cioè psichico-emotivo, e come questa facoltà umana ci sia ancora, nel contesto esistenziale e culturale della nostra civiltà, più o meno disponibile.
Quando abbiamo fame, o sete, noi ci troviamo con delle percezioni assai chiare, riconoscibili; passando da questo ambito di percezioni – l' ambito corporale-fisico – all' ambito psichico-emotivo, se riscontriamo, anche qui, delle percezioni ben caratterizzate, tipiche di certe condizioni esistenziali (la paura in certi casi, la gioia per certi eventi…), ci troviamo però a sperimentare, anche, tutta una serie di aspetti dell' interiorità piuttosto vaghi, non facili da interpretare, la cui origine dal mondo concreto non è ben precisabile. Di fronte ad una certa persona, senza averla ancora conosciuta, sorge immediatamente un senso di disagio… di fronte a un' altra invece una simpatia; in un certo luogo, chissà perché, non ci piace restare: eppure, esaminatolo analiticamente, non avrebbe niente che non vada bene – stiamo invece molto volentieri in un altro luogo; di fronte a una decisione da prendere, capita che un favore verso quella certa scelta ci "venga da sé", e ne siamo quasi un po' turbati, perché i "dati di fatto" sembrerebbero orientarci in un altro modo – l' opzione della scelta "sentita" si rivela poi, molto spesso, a posteriori quella più corretta[2].
Sono probabilmente, queste percezioni emotive, abbastanza “sottili”, di una certa vaghezza, per loro natura propria; e tuttavia quell' aspetto di “stranezza”, di un po' sgradevole “sconvenienza”, con cui anche si accompagnano in noi, potremmo ritenerlo essere inerente al nostro orizzonte culturale. Il fatto è, che questo genere di percezione risulta proprio, come si diceva, del livello psichico della costituzione umana; questa percettività viene così a trovarsi – o viene considerata in tale modo nella nostra cultura – come “concorrente” rispetto a un' altra capacità psichica, che nella nostra civiltà ha però assunto il totale predominio: la funzione psichica della razionalità.
Questa funzione psichica, della razionalità, ha come carattere proprio, come modo proprio di sguardo sulle cose, il modo della concettualità, ovvero l' individuazione nella realtà – che sia realtà esteriore o interiore – di elementi determinati, enti, la cui determinazione esplicita risulta dal riferimento ad essi di una serie di altri enti (l' uomo è uomo in quanto è animale, terrestre, bipede…) Il carattere di individuazione determinata raggiunge il massimo della possibilità, raggiunge l' assolutezza, con gli enti e nelle forme logico-matematiche.
Un' assolutezza – quella razionale – che significa in particolar modo compiuta oggettività, universalità. Ciò che infatti denota caratteristicamente l' ambito della razionalità, è l' attitudine propria alla esteriorizzazione rispetto al soggetto: un soggetto che si produca, relativamente ad un certo fatto o questione, una rappresentazione razionale, potrà efficacemente manifestarla agli altri soggetti; tra questi soggetti vi potrà essere, su quel piano, un preciso confronto; d' altra parte, la natura della razionalità è tale – specialmente nella sua compiutezza logico-matematica – che una certa costruzione razionale, proveniente da un certo o da certi soggetti, potrà essere esattamente “trasferita”, indotta a essere fatta propria assolutamente presso altri soggetti “riceventi”.
La razionalità insomma possiede, come nostra facoltà psichica, una valenza innegabilmente positiva: essa ci permette un certo tipo di analisi del mondo, molto utile in tutta una serie di situazioni; ci permette una estrinsecazione compiuta di nostre conoscenze, di questioni, di valutazioni. La razionalità è però anche portatrice di pericolo, minaccia, quando, per la sua indubbia potenza, tenda ad annichilire altre facoltà psichiche, le quali sono pure assolutamente necessarie; la razionalità viene a costituire una minaccia quando, per il suo carattere di facilità ad “oggettivarsi”, possa determinare una prevaricazione dall' esterno sulla valutazione propria della persona.
In effetti, questi pericoli e minacce paiono concretizzarsi nella nostra attuale civiltà. L' aspetto razionale sembra aver privato, per esempio, l' uomo del suo controllo ed uso della emotività. Ciò potrebbe risultare una causa – e non proprio secondaria – della crisi esistenziale contemporanea. Proverei ad esaminare la questione – della prepotenza razionale sull' emotività – con riguardo al rapporto fra l' essere umano e i due aspetti, le due categorie del reale che, tradizionalmente, sono viste come il fondamento e il riassunto della realtà stessa: lo Spazio ed il Tempo.
Con lo Spazio ed il Tempo, l' uomo d' oggi sembra aver perduto la capacità di relazione emotiva; via via espandendosi la sfera d' influenza della razionalità, con il venir indotto nell' uomo sempre più l' aspetto razionale, logico-matematico, lo Spazio ed il Tempo perdono il loro carattere qualitativo, e rimangono intessuti di una costituzione meramente quantitativa.
Lo Spazio era anticamente qualitativo. Solo certi luoghi si ritenevano adatti per l' edificazione religiosa; il semplice sostare in determinati luoghi veniva ritenuto apportatore di un determinato beneficio; solo un certo luogo recava in sè la potenzialità suprema di essere il "centro del mondo"… Queste distinzioni non dipendevano semplicemente dalla "geofisicità" dei luoghi (clima, vegetazione…) – geofisicità che fornisce ovviamente ai luoghi un certo tipo di caratterizzazione.
Vediamo, in maniera un poco più approfondita, la questione relativamente al Tempo. Un esempio eccezionalmente chiaro, io ritengo, di cosa sia tempo qualitativo rispetto a tempo quantitativo, lo potremmo vedere nella "costituzione" delle ore. Oggi, la giornata rimane costantemente, lungo l' anno, suddivisa in ventiquattro parti uguali, le ventiquattro ore. Ma non è sempre stato così. Nell' antichità greco-romana, per esempio, si aveva infatti che il giorno, cioè il periodo dall' alba al tramonto, restava sempre suddiviso in dodici ore, ed allo stesso modo era sempre di dodici ore la notte, il periodo che va dal tramonto all' alba. Questo implica che un' ora non abbia costantemente una uguale durata. Anche la medesima ora, poniamo la quarta ora del giorno, se misurata oggettivamente, sarà in quel modo più lunga d' estate, quando è maggiore la durata dall' alba al tramonto, che d' inverno. Ma ciò, appunto, con riguardo alla sua misura oggettiva. Con riguardo, invece, ad una nostra propria percezione del tempo, potremmo valutare che quanto viviamo in una “ora oggettiva” invernale ci necessiterà, per essere vissuto, di una durata oggettiva maggiore d' estate; le differenti condizioni dell' ambiente – aspetto della natura, clima… – ma anche differenze meno evidenti da cogliere, e forse impossibili da cogliere intellettualmente, producono infatti un differente ritmo al nostro vivere. L' appiattimento razionalistico viene a disconoscere questo ritmo “naturale”, emotivamente percepito, e ad imporre un ritmo meramente quantitativo; che in fatti di questo ordine stia una delle cause, e non di poco conto, della crisi umana contemporanea, io credo sia piuttosto probabile.
E come, la mentalità razionalistico-quantitativa, ritiene di poter disconoscere la “durata qualitativa” delle ore, allo stesso modo ritiene sia possibile trattare indistintamente la loro “posizione qualitativa”. E' ciò che vediamo con l' istituzione, oramai da un paio di decenni, del regime di cosiddetta “ora legale”.
Questo regime consiste, come sappiamo, nel fatto che ad un certo punto dell' anno (attualmente l' ultima domenica di marzo) l' ora ufficiale della giornata si sposta indietro di sessanta minuti. Ora, per questa via si determina, intanto, un mutamento assai pesante nell' abitudinarietà, poiché ciò che si era abituati a fare in un certo punto della giornata, lo si farà poi in un altro punto effettivamente, il quale solo nominalmente mantiene la stessa indicazione oraria; ed è una considerazione che vale a prescindere dall' attribuzione di “importanza emotiva” ai particolari momenti della giornata – importanza emotiva che io considero tuttavia realistica, e meritevole di qualche riflessione.
Una prospettiva di tempo qualitativo comporta, infatti, che i diversi momenti della giornata forniscano differenti opportunità all' esistere umano – e ciò non semplicemente in relazione a ovvi aspetti fisici (minore o maggiore luce, calore…) ma con riguardo a condizioni e possibilità psichico-emotive. Bene, anche in questo senso, il regime di ora legale viene a costituire una confusione ed una perdita. Perchè se il sistema delle ore “a durata standard” in generale già non lascia molti riferimenti qualitativi, almeno però un momento assai particolare del giorno vi rimane ben indicato. L' ora “dodici” della giornata – indicante nel sistema moderno il raggiungimento della prima metà – viene a coincidere infatti con il “mezzogiorno”, cioè con quel momento, qualitativamente fondamentale, in cui il sole è alto alla metà del suo percorso. Con l' ora legale, alle “dodici” non è in realtà mezzogiorno: per cui noi sentiamo risuonare le campane, ultimo riverbero di importanza e rispetto per il momento, quando tuttavia non è quel momento, perchè il sole non è alla sua culminazione in cielo; ed anche quel residuo di affinità fra “emotività personale” ed “emotività ambientale”, che l' uomo contemporaneo potrebbe miracolosamente aver mantenuto, si contribuisce a guastare da questo riordinamento razionalistico[3].
Ho cercato, dunque, di evidenziare una importanza benefica dell' aspetto umano psichico-emotivo, oggi trascurato nella nostra civiltà in favore dell' aspetto psichico-razionale. Bisogna però badare bene a che questa posizione non si estremizzi. Come – e lo si è già detto – la funzionalità psichico-razionale ha una sua indubbia valenza positiva, così l' aspetto umano dell' emotività può condurre dei pericoli, delle tendenze, delle brame, delle alterazioni, delle debolezze, che siano portatrici di malessere. Perciò è il caso di ribadire quanto espresso all' inizio: la costituzione umana, come vista in molte culture e sapienze, è tripartita ordinatamente in spirito, anima, corpo; ciò che debba stare alla radice umana non è il sentire psichico-emotivo, ma il sentire spirituale-sentimentale; la corretta prospettiva degli elementi umani, il fondamento di sé dato dallo spirito, realizza un autocontrollo che permette di “vivere” ed “utilizzare” le proprie facoltà – una molto importante delle quali è l' emotività – in maniera positiva e benefica.
Anche la cultura contemporanea, in effetti, parrebbe sostenere l’ opportunità di un autocontrollo. Si tratta però di una forma dell’ “autocontrollo” paradossale ed aberrante. Non, cioè, autocontrollo come assunzione del livello di coscienza più profondo, spirituale, da cui gli altri componenti la personalità umana restino orientati; ma invece, un autocontrollo che consista nell’ annichilimento di ogni sentire, e che lasci sussistere solo la concettualità e il ragionamento; e questa prevaricazione si rivolge sia verso il sentire spirituale-sentimentale, sia verso il sentire psichico-emotivo, sia, addirittura – il che potrebbe considerarsi una specie di barzelletta, ma non lo è – verso il sentire corporale-fisico.
Quanto a quest’ ultimo paradosso, mi capitò, non molto tempo fa, di ascoltare la seguente notizia: nell’ ambito di una certa attività produttiva – mi sembra di ricordare fosse un allevamento di animali – i lavoranti cominciarono a un certo punto ad accusare dei malori. L’ azienda fece dei controlli, e rilevò effettivamente qualche condizione produttiva anomala – a cui venne posto rimedio, ripristinando quello che si riteneva l’ ambiente normale ed igienico. Se non che, i lavoratori continuavano a star male. Dovettero intervenire, così, le autorità sanitarie pubbliche, che fecero esami al personale e in tutto lo stabilimento: nessun valore risultava oltre la “soglia di normalità”.
La conclusione fu – come spiegava, con una certa nonchalance, il giornalista da cui sentii la notizia – che i malori, ancora reclamati dagli addetti di quell’ impresa, dovevano ritenersi un fatto di “suggestione”. La scientifica oggettività, evidentemente, dei risultati di quei controlli era fuor d' ogni dubbio: ai lavoratori non restava, come risoluzione più saggia, che mettere a tacere dentro sé quella “irrazionale idea” di star poco bene…
[1] L' idea di costituzione umana tripartita è riscontrabile, per esempio – in forme che presentano anche delle differenziazioni – nella scuola filosofica induista del Samkhya , nella produzione letteraria greco-alessandrina del Corpus Hermeticum, nella figura proto-cristiana di Origene, nel pensiero medievale di Ugo di San Vittore, nelle dottrine alchimistiche del Rinascimento, nelle dottrine otto-novecentesche della Teosofia e dell' Antroposofia.
[2] Anche nell' ambito delle percezioni corporali-fisiche, se ne possono riscontrare in effetti di più o meno evidenti: se per esempio la fame è una percezione che distinguiamo e identifichiamo chiaramente, più difficile da riconoscere è l' appetito di un certo alimento piuttosto che di un altro; pure queste percezioni corporali-fisiche sono, tuttavia, senza dubbio ben presenti nell' essere umano, e fondamentali per il benessere a quel livello: quando ci sia la opportuna nitidezza interiore si possono senz' altro cogliere – nitidezza interiore che all' uomo contemporaneo, preso sempre da una quantità di processi razionali, coscienti o subcoscienti, sostanzialmente manca.
[3] A testimonianza della considerazione di un tempo qualitativo nella cultura greco-romana, e specificamente greca, si può considerare l' idea e la figura mitologica di Kairos, ovvero il tempo opportuno, il tempo adeguato per un avvenimento.