Se volessimo chiedere, a un certo tipo di persona – un tipo di persona che ancora, oggi, sembra andare per la maggiore – un commento, una spiegazione, qualche via risolutiva, alla crisi dell' esistere che sembra gravi sulla nostra civiltà, questo tipo di persona non esiterebbe la risposta: – "Il fatto è, ci sentiremmo dire molto probabilmente, che abbiamo una carenza gravissima di infrastrutture…"
Ci verrebbe argomentato che "bisogna crescere economicamente di più per avere di più", "mettere le imprese in condizione di operare meglio", "essere tutti impegnati in questo sforzo". Si tratterebbe di "aumentare la produttività". In termini concreti, si potrebbe ad esempio detassare il lavoro straordinario. Il fatto è insomma che "non si lavora abbastanza" (o d' altra parte, che "non c' è abbastanza lavoro…")
Il mito del lavoro è sempre lì pronto, con la sua proposta di dura costruzione della soddisfazione… Ma è una costruzione che sembra non completarsi mai, e l' autentica soddisfazione deve rinviarsi sempre a un ulteriore "di più", in un procedere e procedere ancora che, come nell' infinita serie numerica, potrebbe anche non avere un termine.
– Due radici per l' ideologia del Lavoro –
Ciò che oggi, nella nostra civiltà, dà luogo a questa "ideologia del Lavoro", potrebbe essere visto nei termini di due orientamenti, due culture che – seppure all' apparenza anche distanti – si compongono a costituire il contemporaneo "lavorismo". Una di queste due radici, quella magari più appariscente, è l' orientamento caratteristico del tipo d'uomo borghese, e cioè la tensione materialistico-quantitativa, per cui il beneficio all' uomo proviene dalla quantità di "cose" o "esperienze concrete" a disposizione – e dalla specie di sublimazione psicologica di queste che è il denaro. Un beneficio che può essere aumentato, sempre, mediante ulteriori quantità. Da questa prospettiva viene che il lavoro produttivo, la realizzazione di nuove disponibilità materiali – o comunque la creazione di denaro – ha in ogni caso il segno della positività.
La seconda radice di questa ideologia, probabilmente di più sottile percezione, è costituita dalla religiosità ebraico-cristiana. Specificamente, l' aspetto di questa religiosità che – insieme alla tensione materialistico-quantitativa tipicamente borghese – promuove la forma odierna di "sacralità" del Lavoro, è l' aspetto della espiazione. L' uomo, cacciato dal Paradiso Terrestre per la propria colpa, è ammonito da Dio a "guadagnarsi il pane con il sudore del volto": nella fatica, nella pena, nella coercizione ed auto-coercizione del lavoro si glorifica perciò il volere di Dio, e si guadagna il riscatto dalla propria caduta ancestrale.[1]
Che nella mentalità dei "votàti alla produzione" di oggi, nelle personalità intraprendenti ed estremamente attive, si mescolino in genere tutti e due gli atteggiamenti sopra indicati, che cioè nel borghese, razionalmente calcolatore, massimizzatore dell' attività e del profitto, si accompagni anche quella paradossale soddisfazione dovuta all' espiare mediante l' operosità, quella sotterranea convinzione che il significato pieno è assunto, dal lavoro, solo con la pena che esso produca, possiamo forse rilevarlo in un paio di situazioni del nostro vivere sociale, in cui credo sia abbastanza facilmente dato di imbattersi.
Ciò a cui, spesso, il "datore di lavoro" (o magari un superiore gerarchico) bada con attenzione, più che l' oggettiva produttività dell' impresa, è l' aspetto dei propri dipendenti. Nel senso che egli vuol tastarne lo sfinimento al termine della giornata, l' irrequietezza e la tensione che li accompagnino costantemente, la completa presa e alterazione che l' impegno professionale debba produrre. Solo così può intendersi che i dipendenti abbiano veramente lavorato.
Per altro questa prospettiva, questa specie di dannazione, il borghese, il promotore del lavoro – bisogna dargliene atto – la torce volontariamente anche verso di sè. Così, ritornando a casa la sera, egli vorrà poter proclamare con soddisfazione, davanti ai propri familiari ed ai propri arredi: – "Che giornata!… Sono distrutto…"
– Una pulsione infernale? –
Ma, a proposito della "radice religiosa" per l' ideologia del Lavoro, si potrebbe tentare, anche, un' incursione sul terreno che potremmo dire "metafisico" – terreno certo non agevole, ma che può dare, tuttavia, indicazioni importanti riguardo la concretezza delle situazioni. E considerare allora, per questa via, come all' origine prima della religiosità ebraico-cristiana, nell' episodio da cui, secondo questa concezione religiosa, deriva il mondo e tutta la realtà, vi sia già il marchio – diciamo così – di una ideologia del Lavoro.
Il Dio ebraico è infatti un Dio "attivistico". Si mostra così all' inizio dei testi sacri ebraico-cristiani. Lì sta un Dio che – si potrebbe leggere – è quasi annoiato dalla quiete dell' essere, non sa rimanere "con le mani in mano" e allora crea.
Questa è comunque, appunto, la prospettiva di una certa religiosità – e della civiltà che quella prospettiva religiosa ha assunto, come uno dei propri elementi fondamentali. Esplorando – come si diceva – il terreno metafisico-religioso, si trovano anche istanze assai differenti. Per esempio, le dottrine religiose dualistiche di origine iranica (Mazdeismo, Zoroastrismo, Mithraismo, Mandeismo, Manicheismo) vedono la questione in termini opposti. Nella dottrina manichea, leggiamo come l' origine del Mondo sia dovuta ad un tentativo di espansione, di attacco da parte dei demoni – cioè del principio metafisico inferiore, coeterno e del tutto distinto da quello superiore – verso Dio. Solo a quel punto Dio, che se ne stava invece nella beatitudine inoperosa, dovette provvedere una risposta bloccando l' attacco, fermando l'espansività materialistica demonica con la presenza dell' uomo e con l' ordine del Cosmo, il quale risulta così un "territorio di mezzo" tra i due princìpi metafisici.
Secondo questa concezione – e qui sta l' importante per il nostro discorso – si ha dunque un principio metafisico superiore, divino, benefico, caratterizzato dalla permanenza in quiete, ed un principio metafisico inferiore, demoniaco, malefico, caratterizzato dalla irrequietezza e dalla intraprendenza.[2]
Provando ad accettare questa prospettiva, allora, quel che è stato indicato come "manìa dell' operosità", la tensione ad essere comunque attivi, si potrebbe anche definire come "ossessione dell' operosità" – nel significato proprio del termine "ossessione" che è quello di "invasamento da parte del demonio".
Del resto, una relazione "attivismo/demonismo" non è riscontrabile soltanto nelle forme religiose sopra indicate (ed in numerose altre sapienze) ma si rileva molto bene anche nella nostra cultura – in generale, ma anche in aspetti propriamente religiosi, determinando così, si potrebbe dire, una certa contradditorietà, che lascio comunque a quei rappresentanti religiosi affrontare…
Vediamo, per esempio, che nel nostro linguaggio un termine come "pandemonio", il quale indica originariamente un luogo di demoni, ha preso il significato, comunemente, dell' agitazione e confusione parossistica. E dicendo "avere una fretta del diavolo" si capisce bene cosa intendiamo… Quando un esorcista (figura istituzionale del Cattolicesimo) riesce a "stanare" un demone da un essere umano, il demone si manifesta producendo, nell' indemoniato, una mobilità esasperata ed incontenibile. Le "bolge" infernali di cui scrive Dante – e pure questo termine entra nel linguaggio comune – sono luoghi ove regna tutt' altro che la quiete…
– L' attivismo come "fuga da sè" –
Potremmo dunque vedere, come detto, l' odierna "ideologia del Lavoro" doppiamente originata e caratterizzata, cioè anzitutto dalla tendenza utilitaristica tipica della cultura borghese, ma anche dalla necessità di espiazione che si ritrova nella religiosità ebraico-cristiana. Sono, questi, degli aspetti sostanzialmente non celati, che si mostrano in modo esplicito nella nostra realtà. Si potrebbe però considerare, a questo punto, un altro carattere, una valenza che quell' ideologia sembra possedere, ma che sussiste invece piuttosto nascostamente e non dichiarata: la manìa lavorativa come "fuga da sè".
C' è un termine anglo-sassone, il cui conio è piuttosto recente, assai significativo al proposito, e cioè il termine workaholic. Questo termine si compone dalle parole work ("lavoro") e alcoholic ("alcolico", ma anche "alcolizzato"); il significato del termine potrebbe esprimersi come "alcolizzato di lavoro".
E' un termine che in effetti esprime, con molta efficacia, la condizione in cui viene a trovarsi un certo numero – e si direbbe piuttosto consistente – di persone nella nostra civiltà. Ed un po' a tutti i livelli sociali.
Ciò che accade a queste persone, io lo spiegherei così. Quella componente profonda, nucleare, spirituale dell' essere umano – la quale da nessuno, e in nessun modo, può essere mai del tutto bandita dentro sè – non può che esprimere del disagio per certe situazioni, certe forme di conduzione dell' esistenza, in cui facilmente oggi ci si viene a trovare, per pseudo-scelta o per sostanziale imposizione. Questo "disagio della modernità" lo si può affrontare o fuggire. Per certi versi può apparire più facile fuggirlo.
Esistono, lo sappiamo, una serie di presunte "vie di fuga". Uno dei trucchi adottabili, è quello di spostare l' attenzione dal sentimento più interiore – spiacevole, disturbante – alla "positività del vivere", alle attività, agli impegni, agli obiettivi da perseguire e alle tecniche adeguate per raggiungerli, cercando di obliare così la condizione interiore più profonda. Ma questo oblio non può rappresentare, ovviamente, una soluzione. Affogato oggi nella tensione lavorativa, il disagio si ripresenterà puntualmente domani, caricato di una intensità e di una pena ancora maggiore.
– Il lavoro giocoso –
Sarebbe ingenuo, per altro, non riconoscere che il "lavoro" ha pure una valenza ed un suo significato. Nel lavoro può riconoscersi certamente una necessità ed anche una positività. Per ciò che è, infatti, il modo di essere effettivo e proprio dell' uomo, non gli sarebbe sufficiente la pura "naturalità", ma si impongono come necessarie delle realizzazioni nel mondo; e d' altra parte all' uomo, al "composto uomo" di cui parla il Taoismo, oltre che l' aspetto spirituale – a cui si può ritenere propria l' assoluta stasi – pertiene anche l' aspetto psichico e quello corporale, che con il loro esserci reclamano invece un utilizzo. Il giusto impegno fisico è dunque portatore di benessere corporale, e analogamente il giusto impegno di facoltà come l' immaginazione, la memoria, la razionalità, il linguaggio, è portatore di una soddisfazione psichica. Questa gratificazione, fisica e psichica, derivante da un certo nostro impegno, è da noi oggi sperimentata nell' ambito di quel che chiamiamo "gioco". Che noi vediamo, tuttavia, completamente separato da ciò che chiamiamo "lavoro". Ma si può ritenere che non necessariamente debba essere così, che non sempre e in ogni forma di civiltà sia stato così.
Certe testimonianze del passato, certe forme di civiltà attuali quanto marginali – ma, anzitutto, la nostra capacità di sentimento ed immaginazione – potrebbero farci considerare i due aspetti, di necessaria realizzazione e di gratificante impegno, armonizzabili almeno per certa parte in una "umanità integrale", nel condurre una modalità esistenziale di "lavoro giocoso".
(Se questo non potrebbe escludere, evidentemente, del tutto la fatica, e il dover sopportare la fatica e la contrarietà – ciò che è insito nel mondo e nel trovarsi dell' uomo nel mondo – riporterebbe tuttavia queste negatività all' ambito di un sereno e nobile "dover accettare", eliminando, almeno, quell' autolesionistica organizzazione delle esistenze che produce, nell' uomo contemporaneo, il penoso sentimento di assurdità e mancanza di significato.)
– Un esistere disintegrato –
La cultura della nostra civiltà realizza invece una totale separazione fra lavoro e svago: più che mirare, cioè, per quanto possibile, all' armonia di una attività che risulti, ad un tempo, fornitrice delle utilità necessarie e soddisfacente, essa frantuma l' esistere, e dà luogo, anzichè ad una condizione tendenzialmente unitaria di serena laboriosità, ad una contrapposizione fra "spasimo lavorativo" e "godimento vacanziero"; situazioni entrambe, in definitiva, "a dismisura d' uomo", per cui il lavoratore contemporaneo, oramai, sopporta il proprio impegno solo lusingandosi con la prossima vacanza – salvo magari poi, una volta in vacanza, e passata la prima alterazione euforica, ritrovarsi così vuoto dentro, sperso e privo di riferimenti, da desiderare il ritorno alla condizione di ingranaggio nella macchina produttiva (e consumativa), condizione che se non altro gli impone costantemente un ritmo, e gli fornisce uno (pseudo) senso dell' esistere costituito da una serie di incombenze.
[1] L' aspetto religioso dell' espiazione – e la sua relazione con la questione dell' operosità – è probabilmente da riferire, nell' ambito della religiosità ebraico-cristiana, in particolar modo al Cattolicesimo.
Nel contesto invece di un' altra forma dell' ebraismo-cristianesimo, il Puritanesimo, come ha notoriamente espresso Max Weber ci sarebbe da rilevare, magari in aggiunta, il rapporto fra riuscita lavorativa e conferma a sè stessi della propria Elezione, cioè della propria salvezza concessa da Dio a priori. Ma questo lo si potrebbe forse intendere più nel senso di una "ideologia del Successo" che di una "ideologia del Lavoro".
[2] Per un approfondimento sulla dottrina manichea e le sue fonti, si può vedere ad esempio il capitolo sul Manicheismo ne "Lo Gnosticismo" di Hans Jonas.