Enrico Caprara – Una filosofia sociale del benessere

La civiltà occidentale, negli ultimi secoli, ha inseguito fortemente un’ idea: l’ idea di eguaglianza. Molti dei suoi propugnatori erano generosi e in buona fede. C’ è chi ha inseguito questa idea su scala globale, e chi l’ ha ridotta a pertinenza di gruppi umani limitati – etnie, nazioni, regioni, clan locali…

 

 Il senso pieno e forte di quell’ idea, però, non s’ è mai realizzato. Nella realtà una eguaglianza si è più che altro postulata, a fronte invece di nomenclature privilegiate; ma di più ancora, si è attestata l’ idea di una “eguaglianza all’ origine” da cui ci si può tuttavia più o meno elevare per proprio merito – il che vediamo in realtà produrre diseguaglianze crudeli.

 Il sogno parrebbe essersi infranto, cioè, contro una natura delle cose. Inaccettata per principio, la differenza tra gli uomini sembra riproporsi di fatto, nelle forme anche peggiori e più dolorose.

 Come indicavo, la nostra attuale civiltà si direbbe, riguardo all’ assetto sociale, essersi confermata nell’ idea di “eguaglianza all’ origine e diseguaglianza per meriti”. Ora, questa idea non rappresenta una prospettiva sociale neutra. Essa è conforme a una determinata tipologia di essere umano, a quello che potremmo definire il tipo d’ uomo borghese.

 Se infatti gli uomini sono differenti ciascuno dall’ altro – lo sono da un punto di vista fisico, da un punto di vista psichico, da un punto di vista spirituale – sembra però possibile riunirli in gruppi/tipologie, per simiglianza di natura fondamentale. Già la cultura dell’ antica India, per esempio, riconosceva le nature umane in differenti varna, cioè appunto “gruppi tipologici”[1]. Ed una delle tipologie umane era quella del vaisya, del produttore economico, agricoltore od artigiano.

 Intesa nella giusta modalità, questa dottrina dei varna – termine che si traduce in genere con “casta” – non ha nulla di malevolo, nessuna implicazione di prepotenza o sfruttamento; anche la tipologia umana più modesta merita rispetto, e il senso di questo diverso riconoscimento è porre ciascuno nel ruolo sociale idoneo, pertinente la sua natura, per lui soddisfacente.

 Il tipo d’ uomo vaisya, la persona versata alla produzione economica, non ha per ciò stesso nulla di disdicevole. La figura dell’ agricoltore, dell’ artigiano, svolge un prezioso ruolo sociale, e può senz’ altro risultare amabilissimo umanamente; volendoci, poi, riferire a una maggior complessità di organizzazione sociale, anche la figura di un imprenditore, di un organizzatore della produzione economica su scala più ampia, non è inevitabilmente in quel contesto una figura negativa; quando, però, il tipo d’ uomo “produttore economico” esaspera i propri caratteri – attivismo, materialità, espansività… – e pretende di porli quali virtù umane per eccellenza, allora propriamente nasce la figura del borghese, e le condizioni sociali complessive da ciò prodotte, prodotte dalla supremazia del tipo d’ uomo borghese,  paiono nient’ affatto buone.

 Il borghese ha il mito del “fare” – sempre di più… Chi più realizza è meritevole di superiorità. Le diseguaglianze originate da questa “competizione realizzativa” vengono moralmente giustificate dal fatto che, inizialmente, tutti siano alla stessa linea di partenza. Ma l’ attivismo spinto a valore supremo perde ogni remora: la cupidigia di “fare sempre di più”  per avere sempre di più, per elevarsi sempre più socialmente, finisce ad ammettere qualunque mezzo. Il “fare” diventa anzitutto un “distruggere per poter fare”. Il vincente in questa gara pragmatica è anch’ esso un perdente, sotto altri – più fondamentali – riguardi: ansietà, mancanza di senso autentico, solitudine umana…

                                                La gerarchia spirituale

 Ricapitolando: un' idea completa di eguaglianza pare non realistica; ciò che si è realizzato nella nostra civiltà è la supremazia del tipo d' uomo borghese – produttore economico degenerato in borghese; questa supremazia, per quanto riguarda il mio giudizio, non ha portato in generale beneficio.

 Dal che si potrebbe aprire una questione. Quella, cioè, di altri assetti sociali, che riescano magari meglio nel permettere il benessere di ciascuno.

 Il termine benessere, intanto, necessita di venir precisato. Oggi si parla di benessere in un senso molto oggettivo, sottratto all' autenticità della valutazione personale. Conformemente all' ideologia dominante, utilitaristica, si avrebbe maggior benessere in presenza di maggior quantità materiale.

 Il significato che a mio parere, invece, si debba dare al termine benessere, è quello di positività puramente interiore, di serenità e pacificazione autenticamente profonda.

 Riprendiamo a questo punto una considerazione: gli esseri umani, nella effettiva realtà, sono diversi tra loro. Sono diversi, evidentemente, dal punto di vista fisico; sono diversi poi nelle possibilità di memoria, razionalità, volontà, immaginazione… – cioè dal punto di vista psichico; sono diversi anche dal punto di vista spirituale.

 Io intendo lo Spirito, anzitutto, come il proprio sentire profondo. Questa possibilità di sentimento non è la medesima per tutti. Nelle diverse persone si riconoscono diversi gradi della raffinatezza, della ampiezza e precisione nella percettività sentimentale. Ciò implica differenti possibilità di corretta valutazione delle cose, e differenti capacità di scelta proficua.

 La diversità, bisognerà dirlo chiaramente, non si può che vederla in certi casi come superiorità-inferiorità. Inutile nascondere la realtà con una mascheratura di falsa ideologia – sia pur originata da intenzioni ottime – forzandosi ad affermare che "non c' è superiorità e inferiorità, ma solo diversità". Se io affermassi che Diego Maradona non era superiore a me nel gioco del calcio, ma che solo "giocavamo al calcio diversamente", farei credo ridere.

 La considerazione della superiorità-inferiorità, inevitabilmente realistica, non è però necessariamente negativa. Neanche se prospettata al livello umano complessivo. Non deve per forza voler dire sopraffazione. La presenza di superiorità ed inferiorità può anche essere volta in positivo per ciascuno.

 Dicevo, allora, che negli esseri umani possiamo cogliere, molto evidentemente, diversi gradi di capacità fisiche. Minore o maggiore forza muscolare, resistenza, agilità… Certo anche le possibilità psichiche possiamo distinguerle maggiori o minori: memoria, immaginazione, volontà, razionalità… si hanno in più o in meno nelle diverse persone.

 Ciò che sia l’ ambito spirituale, è meno facile da riconoscersi e rappresentarsi, ed è quindi meno facile stabilire, in questo senso, una differente caratura delle persone. Ma proprio l’ aspetto spirituale è il fondamento e l’ essenza della natura umana. E’ il sentire profondo che attribuisce senso alle cose e situazioni del Mondo, che può valutare, distinguere ciò che va-bene e ciò che non-va-bene. La maggior capacità, raffinatezza sentimentale, è quel che determina in senso più proprio la maggiore o minore caratura di una persona.

 Una certa superiorità o inferiorità può dunque riscontrarsi a diversi livelli. Ma capacità fisiche o psichiche anche eccezionali, che certo possono sussistere, non potranno mai essere risolutive, condurre di per sè a un vero compimento umano. Con una grande forza muscolare, o con grandi capacità razionali, si potrà andare in mille direzioni diverse. E’ solo il dato dello Spirito che può riconoscere ed orientare al Bene. Il quale consiste nel Bene proprio e degli altri allo stesso tempo, poichè, al livello di autentica percezione spirituale, il benessere di chi sta intorno si riflette in benessere proprio.

 E’ perciò da questo punto di vista – spirituale – che le persone possono riconoscersi come “superiori” nel senso complessivo e più proprio. Una superiorità che, per quanto appena detto, non costituisce uno stimolo alla sopraffazione, ma invece una garanzia contro le sopraffazioni. Sono le persone di questa tipologia che dovrebbero trovarsi alla guida della collettività.

 Nella nostra civiltà, ora, un altro tipo d’ uomo ha come detto preso il sopravvento – il borghese. Questo tipo d’ uomo denota, spesso, eccellenti funzionalità psichiche: razionalità, volontà… Ma è carente nell’ aspetto spirituale, e si fa trascinare così dalle sue stesse capacità lungo una via malefica, per sè stesso e per tutti.

                                                      Quale democrazia

 L’ inseguita idea di eguaglianza, dunque, non s’ è mai propriamente realizzata. Essa pare scontrarsi con la realtà delle cose, delle nature umane. Tuttavia, proprio quella prospettiva sociale da me considerata, che si fonderebbe su di un riconoscimento delle differenze, può realizzare un certo senso di eguaglianza.

 Eguaglianza non delle attitudini, della personalità, del ruolo sociale, ma eguaglianza della dignità nella differenza. Ciò che potremmo dire forse meglio equità. Diritto di ciascuno ad essere ciò che veramente è; finalità dell’ organizzazione sociale al porre ciascuno nel posto adeguato, consono alla sua specifica natura.

 In questa luce, allora, potrebbe rivedersi meglio anche un altro termine, che esprime una delle categorie sociali e politiche fondamentali: il termine democrazia.

 Il concetto di Democrazia può intendersi con una varietà di contenuti. Oggi sembrerebbe venir posto, a fondamento delle possibili accezioni, un significato del termine che – secondo il mio parere – riesce in verità non proficuo e fuorviante: Democrazia cioè come assunzione delle decisioni, concernenti l’ ambito sociale, secondo la maggioranza delle volontà.

 Un modo di caratterizzare la Democrazia che parrebbe, formalmente, ineccepibile. Non tiene conto però di determinati fatti: la debolezza intrinseca di molti, le capacità subdole di alcuni…

 Direi proprio che, oggi, lo si possa ormai ben vedere. La volontà dei molti è tecnicamente manipolabile da pochi che vogliano profittarne. I molti, formalmente, è indubbio che possano esprimere una volontà. Ma il contesto è organizzato in maniera da condurli a scegliere contro sè stessi, a scegliere il proprio male.

 Si potrebbe auspicare, io credo allora, una certa idea di Democrazia contro questa idea formalistica. L’ idea profonda di Democrazia si ritrova, a mio parere, nella sua opposizione ad un’ altra idea, quella di Totalitarismo. Per Totalitarismo io intendo “la superiorità del Tutto rispetto alla Parte”. E’ l’ idea che attribuisce la vera soggettività a una totalizzazione – Clan, Etnia, Nazione, Umanità, Natura, Creazione Divina… – e non alla persona. Il Bene della persona sarebbe, in ultima analisi, insignificante rispetto al Bene della Totalità, al suo mantenersi o progredire.

 All’ opposizione di questa idea io eleverei un’ idea di Democrazia. Democrazia come fondamentalità del soggetto. Democrazia come organizzazione sociale il cui scopo è mettere ciascuno in una condizione sociale per lui benefica, prima che “utile” alla Totalità.

 Questa visione della Democrazia non risulterebbe, così, legata a forme egualitaristiche di espressione della volontà sociale. Come dicevo, il nostro tempo pare mostrarci bene che istituzioni politiche originate da “libere espressioni della volontà di ciascuno” risultino poi tali da porre ciascuno in una situazione sociale, per lui stesso, malefica.

 Vi sarebbe Democrazia, invece, anche là dove si è posta a guida della collettività una élite spirituale, se questa élite intende l’ organizzazione sociale finalizzata unicamente al benessere di ciascuno, e se ciascuno può liberamente e autenticamente riscontrare questo suo beneficio.

 E’ questa un’ idea, d’ altra parte, che si può andare a riprendere da molto lontano. Guardiamo ancora alle dottrine sociali dell’ antica India. Quella che viene proposta è un’ organizzazione della socialità “a priori”, dove la persona è collocata in base alla sua natura propria (si faccia attenzione: non alla sua “nascita”) in uno dei quattro varna – “casta”, tipologia umana: da quello più modesto (ma non carente in dignità) degli  shudra (i produttori economici esecutivi) a quello più elevato dei brahmana (i “sacerdoti”), che costituiscono l’ élite spirituale, e perciò la guida della collettività.

 Dentro questa visione sociale sta in verità un profondo rispetto per la persona. Ciascuno è posto nel ruolo sociale in base alla sua specifica natura (swadharma). E’ posto nel ruolo sociale in cui possa dirsi “realizzato”. Contrariamente a ciò che accade oggi, quando il ruolo sociale che si viene chiamati a svolgere è, anzitutto, quello richiesto dalle necessità della Produzione, ed i ruoli sociali gratificanti sono pochi, e per arrivare ad occuparne uno bisognerà combattere selvaggiamente a spese dei propri simili.

 Certo, questi riferimenti al passato valgono essenzialmente nel campo delle idee. Queste benefiche teorie sociali sono attestate dalla letteratura. Nella realtà del mondo antico, indiano e non, possono indubbiamente ritrovarsi strutturazioni sociali “a priori” di moralità assai meno elevata, ed anche biecamente sfruttative. Per altro, non è facile dire quale sia stata la realtà di società antiche, magari antiche di millenni[2]. Ad ogni modo, resta inalterata la validità, l’ orientamento benefico di idee espresse in antiche dottrine.

 Guardando poi a tempi più recenti, bisognerà dirlo, abbiamo modo di constatare una realizzazione non positiva – o almeno, non del tutto positiva – dell’ idea di organizzazione sociale “a priori”. Nel Medioevo europeo due “caste” sono al vertice della collettività umana – in una modalità per altro anche conflittuale. La casta nobiliare e quella sacerdotale. Ma questi gruppi sociali mostrano, nella specifica realizzazione storica – medievale europea – dei gravi fraintendimenti quanto alla visione del mondo e della gerarchia sociale.

 Per ciò che riguarda la casta nobiliare, l’ errore di fondo fu “l’ appartenenza per nascita”. Al gruppo umano che dev’ essere una guida per la collettività, si accederebbe cioè per parentela e non per propria qualità intrinseca. Questo viene a determinare, da una parte, il fondarsi di una condizione di puro e semplice privilegio; da un’ altra parte, la turbolenza sociale di quegli elementi che, avendo qualità intrinseca elevata, non sono però posti al grado che gli compete.

 La casta sacerdotale sconta invece, nel Medioevo europeo, una visione del mondo sbagliata e dannosa. E cioè la visione religiosa strettamente monistica, propria dell’ Ebraismo-Cristianesimo[3]. Secondo questa visione, ogni aspetto del mondo dovrebbe intendersi come totale e compiuto adeguamento alla volontà di Dio, unico principio metafisico. Dovrebbe cioè attuarsi un “piano” compiutamente già precisato; un piano che ha nella casta sacerdotale il suo esecutore supremo fra gli uomini; una situazione dunque dove il Bene è definito a priori, e non deve essere sentito e riscontrato dalla persona, alla quale non resta perciò che adeguarsi al “piano” e conformarsi alle direttive della casta – o in questo caso pseudo-casta sacerdotale.

 Pseudo-casta sacerdotale: per il fatto che essa si pone in una prospettiva di Autoritarismo e non invece di Autorità. La sua pseudo-guida della collettività viene infatti a consistere in una mera imposizione, nella sottomissione delle spiritualità individuali a un ordine oggettivamente dato.

 Una prospettiva cioè di Totalitarismo. Autoritarismo e Totalitarismo che, per altro, il mondo contemporaneo realizza quanto ed anche più del mondo medievale – almeno nei termini sostanziali se non in quelli formali.

 Dal dogmatismo religioso a quello scientifico, ciò che si è attuato e si attua è l’ espropriazione del diritto, della capacità di sentire il proprio benessere, di giudicare il Bene ed il Male nella profondità e autenticità del  proprio Spirito.         

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[1] Per la precisione quattro: quello dei brahmana, degli kshatriya, dei vaisya, degli shudra.
[2] Si riteneva per esempio, sino a non molto tempo fa, che le grandi piramidi d’ Egitto fossero state edificate da uomini schiavizzati al lavoro. Diverse produzioni cinematografiche li hanno rappresentati così, obbligati dalla frusta e morenti come mosche durante l’ opera. Recenti scavi archeologici, e studi, hanno scoperto una situazione ben diversa: quella di persone che giungevano volontariamente sul posto, realizzavano con soddisfazione il proprio impegno e ricevevano un ottimo trattamento.
[3] Bisogna credo sottolineare come questa sia la visione propria dell’ Ebraismo-Cristianesimo: è infatti la visione che risale alla religiosità ebraica, la quale rimane inglobata nell’ Ebraismo-Cristianesimo tramite l’ Antico Testamento; una visione che può considerarsi sostanzialmente estranea, invece, a un Cristianesimo compiutamente derivato dalla figura di Gesù il Cristo – forma religiosa questa che si potrebbe definire Puro Cristianesimo.

09/07/2008  

Redazione