Il giorno in cui finirà il petrolio

CORK  Il petrolio, dagli 80 dollari a barile di oggi, a 100 dollari, entro Natale 2008. E per restarci. Perché ce n´è poco e ce ne sarà sempre di meno, soprattutto per l´Occidente. Il messaggio è duro, lo scenario può sembrare apocalittico, ma non è più possibile liberarsene con una scrollata di spalle. Due anni fa, quando si riunirono a Lisbona, i profeti di sventura dell´Aspo – l´associazione per lo studio del peak oil, la teoria per cui la produzione di petrolio è vicina ad un picco, dopo il quale potrà soltanto declinare – erano, soprattutto, un gruppo di geologi in pensione. A Cork, i protagonisti della conferenza dell´Aspo, questa settimana, sono stati dirigenti di società petrolifere, esperti di società di consulenza per l´industria, anche ex petrolieri come lord Ron Oxburgh, in passato presidente della Shell.

 

L´allarme lanciato a Lisbona sulla scarsità di petrolio, infatti, ha trovato riscontro, mese dopo mese, nella corsa del prezzo del greggio, triplicato negli ultimi quattro anni. E, in parallelo con l´ascesa del barile, è cresciuto il partito dei pessimisti. E´ il partito degli ottimisti – chi è convinto che il problema della scarsità non sia nell´entità delle riserve, ma nella flessione degli investimenti in esplorazione e nel montante nazionalismo dei paesi produttori – che è in ritirata, attraversato da dubbi, diserzioni e ripensamenti. Il più vistoso, quello dell´Aie, l´agenzia per l´energia dell´Ocse, l´organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati. A giugno, l´Aie ha ammesso che, nel 2012, il mondo potrebbe essere a corto di petrolio, con la domanda che supera l´offerta. Il capo dei suoi economisti, Fatih Birol, dichiarò allora a Le Monde: «Senza una crescita esponenziale della produzione irachena, nel 2015, quale che possa essere l´offerta dell´Arabia saudita, il mondo andrà a sbattere contro un muro».

La svolta nel dibattito sul petrolio c´è stata nel novembre scorso e, come capita spesso nel mondo dell´oro nero, se ne sono accorti solo gli iniziati. Una conferenza organizzata dall´associazione americana dei geologi del petrolio, a cui hanno partecipato tutti quelli che contano nel mondo del greggio: Big Oil, cioè le maggiori compagnie petrolifere mondiali (Exxon, Chevron, Bp, Shell, Total), le compagnie nazionali (i sauditi di Aramco, i messicani di Pemex, i brasiliarni di Petrobras), l´Opec. Una conferenza tecnica: niente giornalisti, niente pubblicità. Ma la domanda a cui doveva rispondere ha un impatto enorme: quanto petrolio c´è ancora da scoprire? La stima ufficiale del Servizio geologico americano è di 700 miliardi di barili (il mondo oggi ne consuma 30 miliardi l´anno) ancora nascosti sotto terra. Ma sulla base dei propri dati riservati e dei tassi di scoperta degli ultimi anni, racconta Ray Leonard, che ha partecipato alla conferenza per conto di Kuwait Energy, le aziende presenti, stavolta, hanno demolito quella stima. Il petrolio ancora da trovare non sarebbe più di 250 miliardi di barili, quanti ne sono stati scoperti negli ultimi 25 anni: meno di 10 anni di consumo ai ritmi di oggi. L´offshore brasiliano, così promettente, non nasconderebbe 39 miliardi di barili, ma solo 7. L´Arabia saudita non 36, ma 18. Del resto, nota Leonard, a parte il megagiacimento in Kazakhstan, si scoprono ormai giacimenti sempre più piccoli, mentre l´80 per cento del petrolio mondiale viene da poche decine di pozzi giganti.

Ci sono, però, 1.200 miliardi di barili di riserve già note nel mondo. Se il tasso di recupero dai pozzi in attività aumentasse (oggi è del 35 per cento), queste riserve si amplierebbero. Di quasi 500 miliardi di barili, riferisce Leonard. Fra nuove scoperte e maggiore sfruttamento, insomma, il patrimonio petrolifero del mondo potrebbe aumentare di 7-800 miliardi di barili. Ma a quali costi? Investire in esplorazione costa oggi il doppio di pochi anni fa. Spremere di più i pozzi esistenti moltiplica anche di 5 volte i costi del primo round di estrazione: il greggio saudita, oggi il più economico al mondo da estrarre, arriverebbe ad un prezzo, a bocca di pozzo, di 25 dollari a barile. Per l´offshore, si passerebbe da 20 a 90 dollari al barile. Inutile, infine, contare troppo sul petrolio non convenzionale, come le sabbie bituminose del Canada. Il greggio che si recupera è il 10 per cento di quello disponibile e la produzione complessiva non sarà molto maggiore di 4 milioni di barili al giorno.

Tutti insieme – nuove scoperte, maggiore sfruttamento, oli pesanti – non riusciranno, insomma, secondo Leonard, a spostare in avanti la data del picco nella produzione di petrolio, dopo la quale l´offerta inizierà a ridursi, quale che sia la domanda. Ma addolciranno la curva dell´inevitabile, mantenendo la produzione quasi costante ancora per anni. Rispetto all´immagine di un mondo che fa a pugni per spartirsi petrolio sempre più scarso (gli esperti francesi dell´Ifp calcolano una produzione di 50 milioni di barili al giorno, meno di due terzi di quella attuale, nel 2050), l´idea di un dolce declino può sembrare una buona notizia.

Ma lo è solo in parte. Quanto è alto, infatti, questo tetto a cui si fermerebbe la produzione mondiale? La risposta è che è troppo basso. L´Aie calcola che, nel 2025, il mondo consumerà 116 milioni di barili di greggio al giorno. Ma, secondo Mike Rogers, di PfcEnergy, una delle maggiori società mondiali di consulenza nel settore energia, la produzione globale toccherà un picco massimo di 95-100 milioni di barili al giorno intorno al 2020. La chiave per arrivare a questa cifra sta nel fatto che, quando da un pozzo si è estratto metà del petrolio disponibile, il ritmo di produzione cala vistosamente: tirare fuori l´altra metà è assai più lungo e costoso. Fuori dall´Opec, gli altri paesi produttori hanno già raggiunto questo limite e sono, infatti, in declino. La Russia e l´Asia centrale ci sono vicine: Rogers calcola che la loro produzione comincerà a diminuire nel 2015. L´Opec ha sinora esaurito il 40 per cento delle sue riserve e, siccome la produzione continua a superare le scoperte di nuovi giacimenti, il petrolio disponibile si riduce dell´1 per cento l´anno. Fra 10-12 anni, anche l´Opec avrà ampiamente superato la soglia del 50 per cento, la produzione comincerà a declinare e il mondo dovrà cavarsela con 100 milioni di barili al giorno: 40 dall´Opec, 60 dagli altri paesi.

Se 100 milioni di barili di greggio non bastano e non si può premere più a fondo sull´acceleratore dell´offerta, non resta che guardare all´altro lato dell´equazione. Spostare il piede e pigiare il pedale del freno della domanda. Ma nessuno, finché il petrolio resterà il re dei combustibili, ritiene che sia possibile frenare la corsa dei consumi. L´esplosione della domanda, negli ultimi anni, è il risultato del boom di paesi come la Cina e l´India, diventati il polmone industriale dell´economia globale, affamato di energia, come sempre è l´industria. Soprattutto il miracolo economico di quei paesi ha innescato una corsa dei consumi, verso modelli occidentali, che solo un cataclisma politico potrebbe frenare. Un americano consuma oggi, in media, l´equivalente di 26 barili di greggio l´anno. Un europeo 16, come un sudcoreano. Un thailandese 5. Un cinese 2. Secondo l´Aie, nel 2025 i consumi pro capite cinesi avranno raggiunto il livello thailandese, più che raddoppiando. Ma, secondo Herman Franssen, un altro consulente internazionale, anche questa è una previsione ottimistica e il ruggito dei consumatori cinesi si farà sentire molto prima e molto più forte. Il grosso del consumo di petrolio, nota Franssen, è dentro i serbatoi delle auto: in Cina, oggi, ci sono 20 milioni di macchine. Nel 2025 saranno diventate 250-300 milioni, 15 volte più di ora.

C´è una medicina, però, dicono le leggi dell´economia, che abbassa la temperatura della domanda: l´aumento dei prezzi. Anno dopo anno, i modelli econometrici delle organizzazioni internazionali incorporano un rallentamento della domanda di petrolio in funzione dell´aumento dei prezzi. Invece, il prezzo del barile è triplicato, ma la domanda di petrolio non mostra segni di stanchezza. Le leggi dell´economia non funzionano più? Non è così, risponde Jeff Rubin, capo economista della maggiore banca canadese, la Cibc. Le leggi dell´economia funzionano, e la domanda rallenta, dove, però, i prezzi aumentano davvero. Nel 2006, in seguito al rincaro alla pompa, la domanda di greggio nei paesi industrializzati è diminuita, per la prima volta da 25 anni. Ma, fuori dall´Ocse, è cresciuta. Negli ultimi anni, la domanda di greggio dei paesi Ocse è salita in media dello 0,5 per cento.

Fuori dall´Ocse del 4 per cento. «Abbiamo di fronte – dice Rubin – due mondi completamente differenti». Da una parte, i paesi industrializzati dove, per quanto appesantiti dalle tasse, i prezzi dei prodotti petroliferi si muovono in sintonia con i prezzi della materia prima. Dall´altra, una serie di paesi in cui la benzina è fortemente sussidiata e il prezzo alla pompa non risente delle oscillazioni del mercato e dove, dunque, la medicina non agisce. Questi paesi sono una quota crescente dei consumi globali e, a sorpresa, sono anche i paesi produttori. Se si mettono insieme i paesi del Golfo Persico e gli altri componenti dell´Opec, più la Russia e il Messico, cioè i maggiori produttori di greggio, si scopre che, dopo gli Stati Uniti, il maggior consumatore di petrolio al mondo è questo inedito aggregato.Questa Opec allargata inghiotte oltre 12 milioni di barili al giorno, contro i 7 della Cina. Ma i loro consumatori, grazie ai sussidi governativi che abbattono il costo alla pompa, non avvertono il morso dei prezzi internazionali crescenti. «Ecco perché – dice Rubin – 80 dollari al barile non frenano la domanda globale».

I dati di Rubin proiettano un´ombra ancora più inquietante. Perché questo boom di consumi si riflette sulle esportazioni e questo rischia di rendere ancora più avvelenati gli scenari del futuro del greggio. Negli equilibri di oggi, l´importanza cruciale dell´Arabia saudita non è dovuta a quanto greggio produce, ma a quanto ne esporta. Anche gli Usa sono grandi produttori, solo che consumano più di quanto producano. I sauditi, invece, lo esportano. Il Medio Oriente rappresenta meno di un terzo della produzione mondiale di greggio, ma quasi la metà di quello che arriva sul mercato internazionale, attraverso le esportazioni. Per questo il Golfo Persico viene chiamato la vena giugulare dell´energia mondiale. Che succede se questa vena si inaridisce?

Secondo Rubin, sta per succedere. Fra il 2006 e il 2010, i paesi dell´Opec aumenteranno la produzione di greggio di 500 mila barili al giorno, ma i consumi interni di 1,5 milioni. Le esportazioni scenderanno di 1 milione di barili al giorno. Aggiungiamo la Russia, dove consumi interni e produzione, nell´ultimo anno, si sono pareggiati e il Messico, che ridurrà le sue esportazioni di 1,5 milioni di barili. La somma è facile. Anzi, la sottrazione.Nel momento in cui il mondo è sempre più assetato di petrolio e la produzione di greggio fuori dall´Opec perde colpi, sul mercato internazionale arriveranno 2,5 milioni di barili al giorno in meno, tanti quanti, oggi, ne esporta un grande del petrolio come l´Iran.

Maurizio Ricci  – La Repubblica, Giovedì, 20 Settembre 2007

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