Non inciampa nella polverosa antinomia creazione/evoluzione. Non gioisce della comune ascendenza genetica dell’uomo con il gibbone. Massimo Piattelli Palmarini non fa dell’evoluzione un feticcio. Nel suo articolo di domenica sul Corriere della Sera, lo studioso della scienza ha rotto un muro ideologico.
Quello che rende impossibile occuparsi di Darwin senza ideologia o infingimenti scientisti, in particolare, sulla tribuna di un giornale ossequioso verso la scienza come il Corriere della Sera. Piattelli Palmarini ha criticato la concezione neodarwinista dell’evoluzione che “sfodera il revolver” non appena qualcuno si permette di dubitare non tanto del meccanismo evolutivo, un’idea che il professore difende e rivendica, ma dell’autosufficienza della selezione naturale, l’autentico paradigma dell’evoluzionismo moderno. I neodarwinisti “si sentono investiti da un ruolo assoluto: quello di proteggere la razionalità scientifica”. Quei neodarwinisti che pretendono di dimostrare che la coscienza è un fenomeno biologico, al pari del battito cardiaco, come il cloruro di cesio.
E’ successo nel caso di un articolo pubblicato sulla patinata e progressista London Review of Books. Il filosofo della mente e allievo di Noam Chomsky, Jerry Fodor, ha scritto un lungo saggio per rivendicare l’eredità di Gould e di Richard Lewontin, i due scienziati che per primi mossero un radicale attacco al neodarwinismo e al suo corrispettivo culturale, il “determinismo biologico”. Nel saggio Fodor spiega che un conto è la teoria evolutiva, altra cosa è la selezione naturale, che secondo lo studioso americano è del tutto priva di fondamento. “Perché i porci non hanno le ali” è il provocatorio titolo di Fodor. “Integralmente ateo e integralmente razionalista”, come lo definisce Piattelli-Palmarini, con il quale sta scrivendo un nuovo libro, Fodor sostiene che la teoria di Darwin deve essere divisa in due parti: la filogenia e la selezione naturale. “La filogenia può essere vera anche se l’adattazionismo non lo è. La selezione naturale non ha senso”.
Fodor è stato subissato da centinaia di lettere di insulti per essere stato così poco “darwiniano”. Secondo Piattelli Palmarini “Fodor, da filosofo della mente, mostra che il neodarwinismo ortodosso è minato dall’interno, da nozioni che, per funzionare come si vorrebbe, presuppongono ciò che pretendono di spiegare”. Il darwinismo non sa rispondere alla domanda sul perché un dato organo o tratto sarebbero stati selezionati.
La cultura genocentrica e selettiva non chiarisce il problema morfogenetico (perché una mosca non è un cavallo?). Citando la tesi di un “dialogo tra i tessuti viventi”, usata da Marc Kirschner, a capo del dipartimento di Biologia dei sistemi a Harvard, Piattelli Palmarini esclude “la possibilità, per il gioco cieco della natura, di selezionare e affinare separatamente ogni organo, tratto, meccanismo, e per noi di spiegare la loro forma e funzione uno ad uno, attraverso trasparenti storielle di adattamento progressivo”. Non siamo così distanti dal “disegno intelligente”, per cui gli organismi viventi mostrerebbero strutture necessarie alla vita così complesse che non possono essere il risultato della mutazione genetica casuale, come vuole il neodarwinismo.
Certe caratteristiche della cellula o dell’occhio non possono essersi sviluppate gradualmente, non esiste una ragione naturale per le componenti singole senza considerare tutto l’insieme, già formato e non prodotto dal caso. Piattelli Palmarini celebra poi “il ritorno massiccio delle leggi della forma, cioè di fattori di ottimizzazione globale, comuni a specie diversissime e dovuti alla fisica più che alla biologia”. Un mese fa avevamo pubblicato una lunga conferenza del cardinale Christoph Schönborn, che nel 2005 riaprì il dibattito sull’evoluzione sul New York Times, conferenza in cui spiegava che “per superare la visione materialistica dell’evoluzionismo, occorre pertanto recuperare alla scienza innanzi tutto il concetto di forma o struttura (nel senso aristotelico o goethiano)”. Secondo Piattelli Palmarini la ricerca biochimica può prescindere, a livello metodologico, dalla questione della forma, la struttura, ma se non vuole diventare una scienza cieca, la biochimica non può prescindere dalla fisica, dal chiedersi che cosa renda la pianta, che cosa renda il cane ciò che essi sono. Piattelli Palmarini cita il caso dei “centomila chilometri di vene, arterie e capillari che ciascuno dei nostri corpi contiene”. Tre scienziati del Santa Fe Institute hanno dimostrato che questa perfetta rete minimizza i costi di trasporto e ottimizza gli scambi. E’ anche la tesi di “The edge of evolution”, l’ultimo saggio di Michael Behe, il biochimico americano autore di “Darwin’s Black Box”, dove lanciò il famoso argomento della “complessità irriducibile” degli organismi biologici. Il libro è pieno di esempi della complessità, dalla cellula all’occhio umano, passando per il cilium, il flagellum batteriale e il sistema della coagulazione del sangue. Secondo Behe “l’evoluzione da un comune antenato, attraverso i cambiamenti di Dna, è ben dimostrata. Il più grande contributo di Darwin alla scienza fu di elaborare un meccanismo per la spiegazione della vita. Ma se il discendente comune è fondato, la sua spiegazione è triviale”.
“Queste soluzioni ottimali del mondo biologico non sono certo state selezionate darwinianamente a partire da tentativi a casaccio” conclude il professor Piattelli Palmarini. “Non ci sono state decine di milioni di generazioni di macachi il cui cervello ha tentato a casaccio tutte le soluzioni possibili”.
Piattelli Palmarini è uno dei critici più noti dell’origine evoluzionista attribuita al linguaggio umano, la teoria secondo la quale “parlare aiuta possentemente a comunicare, a raccontare ai figli le promesse e le minacce del mondo, a progettare insieme la caccia, a ricordarsi delle lezioni del passato. Ciò aumenta la probabilità di sopravvivere e di riprodursi. Quindi la selezione naturale ha favorito lo sviluppo del linguaggio nella nostra specie”. Piattelli Palmarini smentisce questo luogo comune duro a morire insieme al linguista americano Noam Chomsky. Denunciando quelle che chiama le “falle in quella navicella ingenuamente darwiniana”, pensando che “la vera novità evolutiva, il passaggio a specie genuinamente diverse, non avviene sempre e necessariamente (con buona pace di Darwin) per piccoli cambiamenti, con continuità”, il cognitivista italiano ritiene che il linguaggio sia “esclusivo appannaggio della nostra specie, presumibilmente evolutasi non a partire dai grugniti primordiali e dai gesti a piene braccia”. Storiche le sue frecciate sul Corriere della Sera contro “l’adattazionismo ingenuo, l’ostinazione, assai diffusa anche tra illustri scienziati e filosofi, a voler spiegare ogni tratto di ogni organismo, uomo compreso, con il vantaggio che tale tratto apporta o ha apportato nel passato ai fini della sopravvivenza”.
06/11/2007 – Il Foglio