La società dei desideri = abbondanza + influenza

Un virus si aggira per l'Europa, anzi, per il mondo intero: è pericoloso, contagioso, maligno. No, non viene dall'Asia e non ha niente a vedere con i volatili. No, non ne avete mai sentito parlare prima d'ora. Ma sarà bene che iniziate a preoccuparvene. Si tratta dell'affluenza, sindrome nata negli Stati Uniti e che, dopo aver toccato Australia, Nuova Zelanda e Gran Bretagna, continua indomita a propagarsi.

 

Questo sostiene nel suo nuovo libro lo psicologo inglese Oliver James: "Affluenza. Come avere successo e rimanere sani". Affluenza è un termine nuovo per il vocabolario inglese, che nasce dal connubio di due parole: affluence (abbondanza, opulenza) e influenza (come in italiano, influenza), e descrive, spiega James, "una malattia contagiosa che colpisce le classi medie delle società industrializzate" e che affligge il 26,4 per cento dei cittadini americani, il 23 per cento di quelli britannici e – riteniamoci fortunati, seppure sempre a rischio – l'11,5 per cento di quelli dell'Europa occidentale.

I sintomi? "Ansia, depressione, violenza e dipendenza da alcol, droghe e psicofarmaci". La causa: l'ossessione di avere sempre di più: "soldi, case, televisioni, macchine. Un seno perfetto, un pene più lungo. Ci definiamo per via di quel che guadagniamo, per come appariamo fisicamente e socialmente e questo ci rende più infelici che mai", conclude James. Supercontagio? È un virus pericoloso, che può attaccare ognuno di noi: persino chi, come Oliver James, di disturbi psicologici se ne intende, chi di fama e successo ne ha in abbondanza. Figlio d'arte (entrambi i genitori erano psicanalisti, il padre allievo addirittura di Anna Freud), ha studiato antropologia a Cambridge prima di dedicarsi alla psicologia e alla sua divulgazione. James non si fa remore ad ammettere che spesso gli stessi malesseri che affliggono i suoi pazienti – o, in questo caso, le persone intervistate nel corso dei tre anni passati allo scopo di saperne di più sull'affluenza – affliggono anche lui.

"Tre anni fa", racconta, "mandai il progetto per il mio nuovo libro a un editore, speranzoso ma quasi certo che avrei ricevuto un anticipo ingente. Si trattava, dopotutto, di un "mind tour" in Australia, Nuova Zelanda, Singapore, Shanghai, Mosca, Copenaghen e New York, il cui fine era identificare il virus che avevo scoperto. Quando l'editore mi contattò con un'offerta pari a meno della metà di quanto aveva previsto, calò su di me un'impenetrabile nuvola nera". Reazione inaspettata. "Avevo sperato", confessa James, "che la coscienza del mio valore non dipendesse dalla stupida valutazione di un editore, che ragiona in termini di puro guadagno".

Persino per Oliver, famoso, apprezzato e (ci fa capire) ben pagato, è stato difficile non farsi contagiare dal virus. Eppure, a conoscerlo sembrerebbe impossibile. È cordiale, sereno, spiritoso e ha quell'aria un po' dimessa, un po' distratta, tipica dell'intellettuale inglese. La fama e i soldi, afferma, non lo interessano e non è a questo scopo che ha scritto questo libro. E – se ci dimentichiamo per un attimo della nuvola nera che gli era temporaneamente calata addosso – non risulta difficile credergli: è con vera passione che parla dell'affluenza, di quanto sia pericolosa e di come si debba assolutamente combatterla. È con un indomito senso del dovere che si è messo in testa di trovare il modo per sconfiggerla, di scoprire i vaccini con i quali contrastarla.

Ma se questo non dovesse bastare a persuadervi che lui dell'affluenza non è (più) vittima, basterà chiedergli di rispondere alle sedici domande del questionario incluso nel libro al fine di identificare il virus. E già che ci siete, fatelo anche voi questo test, per scoprire se siete vittima o meno dell'affluenza, se siete soliti "attribuire un valore eccessivo ai soldi, ai beni materiali, alle apparenze sia sociali che fisiche, e al successo". Chiedetevi se vi sentite sempre inadeguati, se vi sembra che vi manchi sempre qualcosa. Se la risposta è sì, state attenti: potreste diventare uno dei personaggi che popolano questo libro – commoventi alcuni, terrificanti altri – e quasi tutti profondamente infelici, disperati, sofferenti e perseguitati dalla convinzione di non avere e quindi di non essere mai abbastanza.

Insaziabili, incontentabili, perennemente scontenti, perché c'è sempre qualcosa di nuovo da desiderare a ogni costo. Soprattutto se ce l'hanno i vicini. E dato che oggi i nostri vicini non sono più, spiega James, coloro che vivono letteralmente alla porta accanto, ma personaggi come Beckham o Tony Blair (che, grazie ai tabloid conosciamo meglio della famiglia sul nostro pianerottolo) tenere testa all'ansia è praticamente impossibile. La verità è che non sappiamo più distinguere, secondo James, tra bisogni e desideri. "Come ci ha insegnato il grande sociologo Erich Fromm, non sappiamo più distinguere tra Essere e Avere. Confondiamo quello che vogliamo con quello di cui abbiamo bisogno".

                                          Le colpe del capitalismo egoista
Il risultato? Un disastro. Guardate per esempio l'Inghilterra, dove sempre più numerosi sono gli uomini politici legati a Blair che apertamente confessano di essere depressi, alcolizzati, infelici. Non è il lavoro che li stressa, è l'affluenza. Non c'è da stupirsene, questi "Blatcherites" (i seguaci di Tony Blair e i seguaci di Mrs Tatcher) sono totalmente ossessionati dal denaro, dal potere, dalla fama: valori tipicamente americani. Il motivo? Perché il partito laburista – che, commenta James, "più che New Labour dovrebbe chiamarsi Nouveau Riche Labour" – si ispira e imita il modello economico e politico statunitense.

E se il virus può colpire chiunque, la verità è che prospera soprattutto laddove prevalgono i valori di quello che Oliver James definisce "selfish capitalism", o "capitalismo egoista": un capitalismo selvaggio, interessato solo ai guadagni, che mira a privatizzare tutto, persino i servizi pubblici, che non tassa (abbastanza) i ricchi e funziona sul presupposto che ogni umana necessità può essere risolta dal mercato. Un capitalismo che ha bisogno di cittadini sempre pronti a comprare nuovi prodotti, a sentirsi appagati solo (e solo temporaneamente) quando hanno acquistato qualcosa, magari proprio quella macchina o quel televisore o quel che sia che hanno i vicini, tanto per non essere da meno di loro.

Un capitalismo che prospera in America e che l'America sta testardamente esportando nel resto del mondo. Ma – Oliver lo sottolinea con un certo piacere – non sempre questo modello americano ha successo. "Scoprire che in Cina come a Mosca globalizzazione non vuol dire americanizzazione è un gran sollievo. Sono Paesi che hanno una loro storia, una loro cultura e sono questi i loro vaccini contro l'affluenza". E storia e cultura sono, sostiene James, i vaccini che rendono l'Italia meno vulnerabile a questo virus. "Berlusconi sarà anche il prototipo del capitalismo egoista. Ma è solo un breve episodio della vostra storia".

                                                   Cultura, non natura
Le statistiche dell'Associazione mondiale della sanità sembrano dargli ragione: le malattie mentali sono in crescita in maniera allarmante in Inghilterra, Australia e Stati Uniti, ma non altrettanto in Italia, Russia e Cina. Questo non vuol dire che all'affluenza rimarremo immuni. Il futuro è incerto e impossibile da prevedere. Uno dei nodi cruciali delle teorie di questo psicologo così tanto discusso è che gli essere umani e i malesseri psicologici che li affliggono non sono il prodotto del Dna, della biologia, ma delle famiglie e delle società in cui cresciamo.

È la cultura, non la natura, che conta. "Io sostengo che i disagi emotivi individuali vanno interpretati come risposte del tutto razionali a società malate. Cambiamo quelle società e saremo meno malati", afferma. La depressione, l'ansia e la dipendenza sono curabili, ma non con gli psicofarmaci. I vaccini sono da cercare nella storia e nell'identità di una nazione o di un individuo. È da nazioni come la Danimarca, la Russia e la Cina e dalle storie individuali dei tanti personaggi che James ha incontrato, che può venire la cura.

Se in Russia l'affluenza non attecchisce, se lì le donne non sono depresse e incredibilmente belle e affascinanti è proprio perché sono immuni ai valori del modello americano; sono l'esatto contrario delle donne di Sex and the City, tutte minigonne e vestiti aderenti: oggetti sessuali per il piacere maschile. Se in Danimarca a essere ansiosi e infelici sono in pochi è perché è una società caratterizzata da un "capitalismo non egoista", da una redistribuzione del reddito più giusta, da servizi sociali encomiabili e da una maggiore eguaglianza tra uomini e donne.

                                          Soddisfare bisogni più che desideri
Se all'affluenza vogliamo sfuggire dobbiamo imparare a comprare meno, a guardare meno televisione, a non leggere i tabloid, a non pensare troppo ai soldi, a non paragonarci ai nostri vicini, a passare più tempo con i nostri figli, a non indossare vestiti attillati, a lasciar perdere il lifting, a vivere in case più piccole e a essere riconoscenti per quello che abbiamo. È una visione radicale – così ama definirla lo stesso James, il cui motto è "Soddisfare i propri bisogni, non i propri desideri; Essere, Non Avere; cooperare e non solo competere". Altri l'hanno definita "maschilista, sciovinista, faziosa, dogmatica".

La si potrebbe anche definire nostalgica: per un mondo che non esiste più, per quegli anni del dopoguerra quando in Inghilterra il cibo era razionato, le mamme non lavoravano e si occupavano a tempo pieno di casa e famiglia, quando i signori ostentavano la loro ricchezza proprio indossando abiti lisi e mostrando un certo disprezzo per i soldi e per i Nouveau Riche – e a questa nostalgia, a questo snobismo Oliver James (che a quell'epoca non era ancora nato) non è certo immune. O magari è una visione puritana la sua: così profondamente puritana da farmi temere che sarebbe bastato poco (una gonna troppo corta, l'ammissione del fatto che mentre intervistavo lui i miei figli erano, ahimè, all'asilo) per ritrovarmi incisa sul petto una lettera scarlatta. Sì, proprio quella lettera, la A. A per affluenza.

                                   ALTRE REGOLE PER SCOPRIRE IL BUONUMORE
1 – La maggior parte degli studi ha provato che, oltre un certo livello, la disponibilità economica non incide sulla felicità. Ed Diener dell'università dell'Illinois ha confrontato il grado di serenità dei 400 americani più ricchi della classifica stilata da Forbes con quella di un campione di Masai, una tribù indigena dell'Africa orientale: il loro stato di soddisfazione è risultato simile. Un altro esempio? I giapponesi hanno raggiunto un livello di benessere sicuramente maggiore rispetto a quello che avevano negli anni Cinquanta, ma la percentuale di coloro che ammettono di sentirsi "molto felici" rimane la stessa.
2 – Lavorare molto incide sul livello di stress. In più gli straordinari possono alzare la pressione. Questo non significa che bisogna mollare il lavoro: la disoccupazione prolungata porta a un profondo sconforto che dura anche quando si riconquista il posto. Anche la professione conta. In Inghilterra, i lavoratori più felici sarebbero i parrucchieri, i più depressi gli avvocati.
3 – La fede aiuta. Chi crede in Dio è più felice di un ateo. Il motivo? Il forte senso di appartenenza a una comunità e la possibilità di dare senso all'esistenza. Qualcosa di simile – sostengono gli esperti – a quello che succede a chi coltiva un hobby. Un'ora di aerobica tre volte alla settimana avrebbe un forte effetto antidepressivo perché contribuisce a rimuovere le tossine e a aumentare la circolazione del sangue e la vitalità.
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 – Sposatevi. Lo sostengono le ricerche: i mariti e le mogli sono più felici dei single, dei divorziati o dei vedovi. Tra i molti studi ce n'è uno statunitense. Su un campione di 35 mila americani, il 40 per cento si definisce "molto felice" contro il 24 per cento di chi è solo. Non solo: il matrimonio aumenterebbe di sette anni la vita di un uomo e di quattro quella di una donna.
5 – Non sempre chi ha di fronte a sé molte strade vive bene. Lo sostiene un libro, Il paradosso della scelta, di Barry Scharz: avere troppa scelta paralizza e confonde chi deve decidere.

Da "La Repubblica delle donne" marzo 2007

Redazione