Sembra ormai chiaro che oggi viviamo nell'epoca della sesta estinzione delle specie. Quotidianamente, infatti, si registra la scomparsa di un numero di specie (tra vegetali e animali) che va da cinquanta a duecento, un dato drammatico superiore da mille a trentamila volte quello dell'ecatombe delle ere geologiche passate. Come scrive Jean-Paul Besset: "Dopo l'era dei ghiacci polari, non c'e' mai stato un ritmo di estinzione paragonabile a quello attuale". Durante la quinta estinzione, avvenuta nell'era del Cretaceo 65 milioni di anni fa, si e' prodotta la fine dei dinosauri e di altri animali di grosse dimensioni, probabilmente a causa dell'impatto della Terra con un asteroide, ma questi mutamenti sono avvenuti in un arco di tempo ben piu' lungo rispetto a quello delle catastrofi attuali. Oggi, inoltre, a differenza delle epoche precedenti, l'uomo e' direttamente responsabile della "deplezione" in corso della materia vivente e potrebbe addirittura esserne vittima.
Dopo decenni di frenetico spreco, siamo entrati in una zona di turbolenza, in senso proprio e figurato. L'accelerazione delle catastrofi naturali – siccita', inondazioni, cicloni – e' gia' in atto. Ai cambiamenti climatici si aggiungono le guerre del petrolio (alle quali seguiranno quelle dell'acqua) e probabili pandemie, e si prevedono addirittura catastrofi di tipo biogenetico. Ormai e' noto a tutti che stiamo andando verso il collasso definitivo. Restano da calcolare solo la velocita' con cui stiamo precipitando nel baratro e il momento dello schianto. Secondo Peter Barrett, direttore del Centro di ricerca sull'Antartico all'universita' neozelandese di Victoria, "proseguire con questa dinamica di crescita ci mettera' di fronte alla prospettiva di una scomparsa della civilta' cosi' come la conosciamo, non fra milioni di anni o qualche millennio, ma entro la fine di questo secolo".
E' noto inoltre che la causa di tutto cio' sono i nostri stili di vita fondati su una crescita economica illimitata. Parlare di "decrescita" significa dunque lanciare una sfida, azzardare una provocazione: all'interno del nostro immaginario dominato dalla religione della crescita e dell'economia, asserire la necessita' della decrescita risulta letteralmente blasfemo e chi sostiene simili posizioni e' quantomeno considerato iconoclasta, ma la realta' e' che viviamo semplicemente in una condizione del tutto schizofrenica. Il presidente francese Chirac, per esempio, ha dichiarato alla Conferenza dell'Onu sull'ambiente di Johannesburg (2002): "La casa brucia e noi intanto guardiamo da un'altra parte". Inoltre, ha affermato che i nostri stili di vita sono insostenibili, dal momento che gli europei consumano l'equivalente di tre pianeti. Parole sante. Purtroppo, mentre pronunciava questi discorsi, i suoi uomini, dietro suo mandato, lavoravano all'Unione europea affinche' il Gaucho e il Paraquat, terribili pesticidi che uccidono le api, provocano il cancro negli uomini e li rendono sterili, non fossero iscritti nell'elenco dei prodotti proibiti. Inoltre, Chirac, Blair e Schroeder si sono adoperati per ridurre drasticamente l'impatto della direttiva Reach (Registration Evalutation and Authorisation of Chemicals).
E' inutile stilare la lista delle catastrofi ecologiche gia' in atto o preannunciate, lo scenario e' fin troppo noto, il problema e' che non riusciamo ad afferrarne la portata: la catastrofe e' inimmaginabile fino a quando non si e' realmente prodotta. Siamo anche perfettamente consapevoli di cio' che sarebbe necessario fare, ovvero cambiare orientamento, ma in pratica non facciamo nulla. "Guardiamo altrove", e intanto la casa continua a bruciare. A nostra discolpa e' possibile affermare che i grandi uomini della politica e dell'economia lavorano per lasciarci in questo immobilismo – per esempio il World Business Council for Sustainable Development (Wbcsd), il gruppo di industriali desiderosi di preservare i loro profitti e il pianeta, ha al proprio interno i principali inquinatori del pianeta ed e' stato definito da un ex ministro francese dell'Ambiente "un club di criminali in giacca e cravatta". Sono proprio loro a continuare a gettare benzina (proveniente dagli ultimi barili di petrolio) sul fuoco e intanto continuano a dire a gran voce che questo e' l'unico modo per spegnerlo. Si continua a mantenere i medesimi orientamenti, addirittura perseguendoli con maggior forza, al punto che e' lecito riformulare la domanda posta gia' nel 1987 dal sociologo Jacques Godbout all'interno di un libro premonitore e poco noto: "La crescita e' davvero l'unica via d'uscita alla crisi della crescita?".
Secondo l'amministratore delegato del nostro villaggio globale, George W. Bush, la risposta e' ovviamente affermativa. Il 14 febbraio 2002, a Silver Spring, davanti all'Amministrazione americana della meteorologia, ha infatti dichiarato che "la crescita e' la chiave del progresso dell'ambiente, poiche' fornisce le risorse che permettono di investire nelle tecnologie pulite; rappresenta dunque la soluzione e non il problema". Non e' da meno Chirac quando, in occasione del discorso di auguri alla nazione per il 2006, ha scandito in modo quasi incantatorio: "Crescita! Crescita! Crescita!". Simili orientamenti si conformano alla piu' stretta ortodossia economica. Secondo l'economista Wilfred Beckerman, "e' evidente che, per quanto la crescita economica sia, abitualmente e in un primo tempo, causa di degrado ambientale, in fin dei conti, per la maggior parte dei paesi, il modo migliore – e probabilmente l'unico – per avere condizioni ambientali decenti e' arricchirsi". Questa posizione "filocrescita" e' ampiamente condivisa. Sulla stampa, l'annuncio della ripresa americana o cinese e' sempre dato con toni trionfalistici. I piani di rilancio (franco-tedeschi, italiani o europei) si fondano sempre tutti su grandi opere (infrastrutture e trasporti), che non possono che deteriorare ulteriormente le condizioni, in particolare quelle climatiche. A fronte di questa situazione, il silenzio della sinistra, di socialisti, comunisti, verdi, dell'estrema sinistra e addirittura dei movimenti "altermondialisti", lascia interdetti. A sinistra la crescita e', infatti, considerata come fonte di soluzione della questione sociale, poiche' crea posti di lavoro e ne favorirebbe una ripartizione piu' equa.
Jean Gadrey sintetizza bene questa posizione: "Se e' vero che la crescita non puo' risolvere tutti i problemi, e' giustamente considerata da molti come chiave in grado di creare margini di manovra e di migliorare alcune dimensioni della vita quotidiana, dell'impiego ecc… Tuttavia, cosi' facendo, si elude la questione del suo contenuto qualitativo (chi si e' migliorato?), o della sua ripartizione (la 'condivisione del valore aggiunto'), e soprattutto si eludono alcune questioni relative alla sua reale entita' che, se dovessero essere rese note, rischierebbero di indebolire la 'religione' dei tassi di crescita". Solo qualche rara voce (Jean-Marie Haribey, Alain Lipietz e i responsabili di Attac) esce dal coro e sostiene una "decelerazione della crescita". Anche se si tratta di una posizione che, pur partendo da buone intenzioni, si rivela in fin dei conti inefficace, poiche' ci priva nel contempo dei benefici della crescita e dei vantaggi della decrescita. Michel Serres paragona l'ecologia riformista "a una nave che si dirige alla velocita' di 25 nodi verso una parete rocciosa e sulla quale si scagliera' inevitabilmente, mentre sul ponte di comando il capitano ordina di diminuire la velocita' di un decimo, ma non di invertire la rotta". Decelerare significa esattamente questo.Nel 2004, il giornalista del settimanale francese "Politis" specializzato nelle questioni riguardanti l'ecologia e' stato costretto alle dimissioni dopo aver messo in luce in un suo articolo la debolezza dell'opposizione su questi temi. Il dibattito che ne e' scaturito ha rivelato tutto il disagio della sinistra. Il nodo della questione, scrive un lettore della rivista, sta certamente "nella capacita' di sfidare una sorta di pensiero unico, condiviso da quasi tutta la classe politica francese, secondo cui la nostra felicita' deve passare per un aumento della crescita, della produttivita', del potere d'acquisto e dunque per un aumento dei consumi". Come ha osservato Herve' Kempf a proposito di questo caso: "La sinistra e' davvero disposta a proclamare la necessita' di ridurre il consumo materiale, cardine dell'ecologismo?".
A rigor del vero e' necessario ammettere che, da non molto, in Francia, il tema della decrescita e' oggetto di dibattito all'interno dei verdi, della Confèderation paysanne, del movimento altermondialista, ma anche in alcuni settori dell'opinione pubblica, soprattutto grazie al giornale "La Decroissance" promosso dall'associazione Casseurs de pub. Tuttavia, molti hanno preso posizioni aprioristicamente a favore o contro, senza preoccuparsi di informarsi ulteriormente e deformando, se necessario, le rare analisi proposte. Poiche' sono stato spesso chiamato in causa come "teorico della decrescita" (anche da "Le Monde diplomatique"), mi pare opportuno dissipare alcuni malintesi e chiarire in modo preciso i termini della questione. La mia posizione e' esattamente questa: dal momento che un cambiamento radicale e' una necessita' assoluta, la scelta di una societa' della decrescita rappresenta una sfida che vale la pena di cogliere per evitare una brutale e drammatica catastrofe. Questo e' il tema del libro.
Il termine "decrescita" in realta' e' stato introdotto solo di recente all'interno del dibattito economico, politico e sociale, nonostante le idee sulle quali si fonda abbiano una storia molto lunga. Senza dover risalire alle utopie del primo socialismo, ne' alla tradizione anarchica rinnovata dal situazionismo, il progetto di una societa' paragonabile a quella che intendo per societa' della decrescita era gia' stato formulato alla fine degli anni Sessanta da teorici come Ivan Illich, Andre' Gorz, Francois Partant e Cornelius Castoriadis. Il fallimento dello sviluppo nel Sud del pianeta e la perdita di punti di riferimento nel Nord hanno portato molti analisti a mettere in discussione la societa' dei consumi, il sistema di rappresentazione che la sottende, il progresso, la scienza, la tecnica. A questo si e' aggiunta la presa di coscienza della crisi dell'ambiente.
L'idea di decrescita nasce dunque sia dalla consapevolezza della crisi ecologica sia dalla critica della tecnica e dello sviluppo. Fino a qualche anno fa, tuttavia, il termine "decrescita" non figurava in alcun dizionario che trattasse di economia e societa', mentre si potevano trovare alcuni concetti simili, come "crescita zero", "sviluppo sostenibile" e naturalmente "stato stazionario". Nondimeno, l'espressione "decrescita" ha gia' una storia relativamente complessa ed e' ricca di significati sul piano politico ed economico. E' tuttavia necessario chiarirne il significato.
Alcuni analisti malevoli sostengono che si tratta di un concetto vecchio per poter cosi' liquidare piu' facilmente le proposte sovversive avanzate dagli attuali "obiettori della crescita". Francois Vatin, per esempio, sostiene che gia' Adam Smith aveva proposto una teoria della decrescita nei capitoli 7 e 9 de La ricchezza della nazioni in cui evoca un ciclo di vita delle societa' "che le fa passare dalla crescita accelerata (il caso delle colonie dell'America del Nord) alla decrescita (il caso del Bengala) attraverso uno stato stazionario (il caso della Cina)". In realta', Vatin confonde il concetto di regressione con quello di decrescita. Nella mia accezione, decrescita non identifica ne' lo stato stazionario dei classici dell'economia, ne' una forma di regressione, di recessione o di "crescita negativa", e neppure la crescita zero – benche' alcuni aspetti della decrescita si ritrovino in quest'ultimo concetto.
In linea con i pubblicitari, i media chiamano ormai "concept" qualsiasi progetto alla base del lancio di un nuovo prodotto, anche di tipo culturale, e non stupisce dunque il fatto che mi sia stato chiesto quali siano i contenuti del "nuovo concept" decrescita. A costo di far dispiacere qualcuno, dichiaro subito che decrescita non e' un concetto, almeno non nel senso tradizionale del termine, e' improprio parlare di "teoria della decrescita", come gli economisti hanno fatto per le teorie della crescita, e soprattutto che decrescita non identifica un modello pronto per l'uso.
Decrescita non e' il termine simmetrico di crescita, ma e' uno slogan politico con implicazioni teoriche, e' un "termine esplosivo", dice Paul Aries, che cerca di interrompere la cantilena dei drogati del produttivismo. Decrescita e' una parola d'ordine che significa abbandonare radicalmente l'obiettivo della crescita per la crescita, un obiettivo il cui motore non e' altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l'ambiente. A rigor del vero, piu' che di "de-crescita", bisognerebbe parlare di "a-crescita", utilizzando la stessa radice di "a-teismo", poiche' si tratta di abbandonare la fede e la religione della crescita, del progresso e dello sviluppo. Decrescita e' semplicemente uno slogan che raccoglie gruppi e individui che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo e interessati a individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica del doposviluppo. Decrescita e' dunque una proposta per restituire spazio alla creativita' e alla fecondita' di un sistema di rappresentazioni dominato dal totalitarismo dell'economicismo, dello sviluppo e del progresso.
I limiti della crescita sono definiti, nel contempo, sia dalla quantita' disponibile di risorse naturali non rinnovabili sia dalla velocita' di rigenerazione della biosfera per le risorse rinnovabili. Storicamente, nella maggior parte delle societa', queste risorse erano considerate essenzialmente beni comuni (commons) che, nella maggioranza dei casi, non appartenevano a nessun singolo individuo. Ciascuno poteva goderne nei limiti delle regole d'uso della comunita'. La stessa cosa avveniva per le risorse rinnovabili: l'aria, l'acqua, la fauna e la flora selvatiche, i pesci degli oceani e dei fiumi, e, con alcune restrizioni, i pascoli, gli alberi secchi o il legno marcio e i pezzi di legna. L'uso delle risorse non rinnovabili, i minerali del sottosuolo (tra cui l'olio di terra, il petrolio), era governato da regimi di regolamentazione posti sotto il controllo del principe o dello stato affinche' vi si attingesse con criteri consoni alla loro esauribilita'. Piu' generalmente, l'assenza di sistematica mercificazione dei beni naturali e la consuetudine limitavano l'uso di queste risorse a livelli accettabili. La rapacita' dell'economia moderna e la scomparsa dei vincoli comunitari, quelli che Orwell chiama "decenza comune", hanno trasformato l'uso di queste risorse in saccheggio sistematico.
In definitiva, si prescinde dall'ambiente, lo si pone al di fuori della sfera degli scambi mercantili e nessun dispositivo si oppone alla sua distruzione. Ma in realta', la concorrenza e il mercato, che ci forniscono il cibo alle migliori condizioni, hanno effetti disastrosi sulla biosfera. Nulla interviene a limitare il saccheggio delle risorse naturali, la cui gratuita' permette di abbassare i costi. L'ordine naturale non e', infatti, in grado di opporsi a queste dinamiche, per esempio non e' riuscito a salvare le Isole Mauritius o le balene blu della Terra del Fuoco e solo l'incredibile fecondita' naturale dei merluzzi potra' forse risparmiare loro la sorte a cui vanno incontro le balene. Anche se non possiamo esserne certi, poiche' l'inquinamento degli oceani rappresenta un grave pericolo per questa leggendaria fecondita'. Il saccheggio dei fondali marini e delle risorse alieutiche sembra irreversibile. La dilapidazione di minerali prosegue in modo irresponsabile. I cercatori d'oro individuali, come i garimpeiros d'Amazzonia, o le grandi societa' australiane in Nuova Guinea non arretrano di fronte a nulla per procurarsi l'oggetto della loro cupidigia. Peraltro, nel nostro sistema, ogni capitalista, come ogni homo oeconomicus, e' una sorta di cercatore d'oro.
Gli indiani della British Columbia, costa occidentale del Canada (i kwakiutl, haida, tsimshian, tlingt ecc.), hanno invece dato un buon esempio di rapporti armoniosi tra uomo e biosfera. Secondo una leggenda, i salmoni erano esseri umani come loro che vivevano in tribu' in fondo al mare, dove avevano le tende, e d'inverno decidevano di sacrificarsi per i loro fratelli che abitavano sulla terraferma, allora diventavano salmoni e si dirigevano verso le foci dei fiumi. Nella stagione in cui risalivano il fiume, gli indiani accoglievano il primo salmone come un ospite importante e lo mangiavano durante una cerimonia. Il suo sacrificio era tuttavia considerato un prestito provvisorio e ne riportavano in mare lo scheletro e i resti permettendo cosi' la rinascita dell'ospite precedentemente mangiato. In questo modo si perpetuava l'armoniosa convivenza tra salmoni e uomini. Con l'arrivo dell'uomo bianco e l'insediamento a ogni estuario di industrie conserviere si e' realizzata una corsa al profitto che ha portato una drastica diminuzione di salmoni. Secondo gli indiani, i salmoni sono scomparsi perche' i bianchi non hanno rispettato il rituale… E non si puo' dare loro torto. La relazione di queste tribu' con la natura, come quella della maggior parte delle societa' tradizionali, si fonda sull'armonioso inserimento dell'uomo nel cosmo. In Siberia, si muore nella foresta per restituire agli animali cio' che si e' preso da loro. Queste concezioni implicano rapporti di reciprocita' tra gli uomini e il resto dell'universo: gli uomini sono pronti a darsi a Gaia (personificazione mitologica della Terra), come Gaia si e' data a loro. Eliminando la capacita' di rigenerazione della natura, riducendo le risorse naturali a una materia prima da sfruttare invece di attingerne, la modernita' ha eliminato questo rapporto di reciprocita'.
La condizione della nostra sopravvivenza sta certamente nella ricostruzione di un rapporto armonioso con la natura, sulle orme di una concezione prearistotelica della relazione uomo-natura. MacMillan, economista americano del XXI secolo impegnato nella salvaguardia dei condor, sosteneva: "Dobbiamo salvare i condor, non tanto perche' abbiamo bisogno dei condor, ma soprattutto perche', per poterli salvare dobbiamo sviluppare quelle qualita' umane di cui avremo bisogno per salvare noi stessi". All'interno della protezione dell'ambiente, Jean-Marie Pelt introduce i concetti di gratuita' e di bellezza. Il problema reale e' che si continua a parlare di ecologia, sono state adottate importanti misure di protezione, ma continuiamo a non invertire radicalmente la rotta. Nonostante l'ottimismo del filosofo francese Michel Serres, gli alberi dotati della capacita' di giudizio non devono nascondere la foresta minacciata. La giurisprudenza americana piu' recente va nel senso di un rafforzamento dell'appropriazione giuridica dei processi naturali da parte dell'uomo sempre piu' spinta. A questo si aggiunge che, per abitudine o incoscienza, le istituzioni tendono a incoraggiare ogni forma di inquinamento (pesticidi, concimi chimici) con esenzioni fiscali e continuano a finanziare progetti che distruggono la biosfera dei paesi del Sud con il pretesto della lotta contro la poverta'.
Si e' addirittura arrivati a pensare che l'unico rimedio alla tragedia della scomparsa di numerosi beni comuni fosse la loro completa eliminazione. Secondo i convinti sostenitori della deregulation, solo l'interesse privato e la rapacita' degli individui potrebbero limitare la sua dismisura! Bisognerebbe privatizzare l'acqua e l'aria (ma anche i pesci degli oceani e i batteri delle foreste tropicali) per salvarle dai predatori. » quanto fanno le societa' transnazionali, con il sostegno degli stati nazionali e delle istituzioni internazionali, contro le quali le popolazioni insorgono in tutto il pianeta. La gestione dei limiti della crescita e' diventata una questione intellettuale e politica. La ricerca teorica sulla decrescita si colloca all'interno di un movimento piu' ampio di riflessione sulla bioeconomia, sul doposviluppo e sull'a-crescita…