Marco Tarchi – Immigrazione e xenofobia: la sfida della differenza al modello occidentale

Come convivere con le differenze nello scenario planetario degli anni a venire, che l'immigrazione di massa dai paesi del Terzo Mondo verso le zone economicamente sviluppate minaccia di rendere molto più complicato socialmente e culturalmente? L'interrogativo da qualche tempo si sta facendo strada sia a livello di opinione pubblica che nell'ambito più ristretto e riflessivo della comunità scientifica; non però senza ambiguità e contraddizioni. 

Demistificare tutte le argomentazioni demagogiche – "razziste" o "antirazziste" – spese per banalizzare la portata delle sfide lanciate al modello occidentale di convivenza civile dall'avvento delle società multietniche è un compito urgente ma tutt'altro che agevole. Così come è arduo, in un'epoca in cui i codici comunicativi di massa tendono alla semplificazione e all'estrema sintesi dei messaggi, affermare in modo convincente alcuni principii positivi basilari attorno ai quali sia possibile costruire una formula di coesistenza non discriminante e non omologante fra i gruppi umani di radici etniche, culturali, linguistiche e religiose diverse che nel prossimo futuro ingombreranno gli spazi abitativi delle metropoli europee, americane, oceaniche. Quello della lotta al razzismo e alla xenofobia è infatti un terreno insidioso, dominato da pregiudizi e luoghi comuni, dove precisazioni concettuali e chiarimenti terminologici non sono mai di troppo. Ed è quindi da una esatta definizione del nesso immigrazione/razzismo che deve muovere chi intende affermare fattivamente il diritto dei popoli e delle culture ad esprimere le rispettive specificità anche nel contesto multietnico che va disegnandosi in tutto il continente, al di là della perversa dialettica che vede oggi contrapporsi in molti paesi i negatori e gli imbalsamatori delle identità collettive, i sostenitori di un universalismo omogeneizzante e i partigiani di un particolarismo sciovinista.

Che cos'è il razzismo oggi

L'identificazione del razzismo nelle sue forme storiche concrete è da sempre un esercizio difficoltoso, dal momento che il termine ha assunto significati funzionali così unilaterali e strumentali (riducendosi ad epiteto squalificativo, usato per evocare una immagine avvicinabile alla figura del Male assoluto) da renderne quasi inafferrabili i referenti strutturali. A nostro avviso, per parlare sensatamente di razzismo nel contesto dell'odierno clima politico-culturale delle società occidentali occorre riferirsi ai fenomeni di diffidenza, rifiuto e intolleranza connessi all'incontro/scontro tra popoli di diversa estrazione etnica, causato dal grande flusso migratorio degli ultimi due decenni. Un massiccio trasferimento di popolazione che sta spostando milioni di esseri umani dai paesi in via di sviluppo o sottosviluppati del cosiddetto Sud del mondo verso le aree geografiche dove è maggiormente diffuso il benessere economico: l'Europa e il continente nordamericano in primo luogo, ma anche zone sulle quali meno si appuntano, per ora, le analisi di sociologi e demografi, come l'Oceania e il Sud-Est asiatico.

Operare questa scelta non significa, naturalmente, negare valore a quegli studi che si sono sforzati di restituire coerenza scientifica e utilità analitica al concetto di razzismo, bensì chiarire che la vitalità di questo fenomeno nella dinamica politica e sociale contemporanea non fa pernio su pretese di superiorità di un gruppo razziale sugli altri, fondate su teorie biologiche o tradizioni religiosi, ma su meccanismi di rifiuto della condivisione dell'uso di porzioni del territorio abitato, di servizi sociali, di opportunità di lavoro, ecc., con individui e gruppi estranei al proprio gruppo etnico e/o nazionale. E' dunque frutto del diffondersi di una mentalità xenofoba.

Che le migrazioni intercontinentali ed interculturali, nelle proporzioni attuali, rappresentino un serio banco di prova per la tenuta dell'ordine sociale in Occidente, è fuor di dubbio. Prova ne sia il fatto che attorno alla crucialità della posta in gioco va crescendo una consapevolezza che travalica la sfera dei commenti dettati da pregiudizi o reazioni emotive e si manifesta tanto nel campo "conservatore" quanto in quello "progressista". Un eminente studioso dei problemi sociali come Luciano Cavalli, ad esempio, deplorando "il permanere dei veli ideologici" che impedirebbero di percepirne il significato di "ulteriore colpo demolitore" della nazione intesa "come comunità di stirpe, cultura, storia e destino", in un suo saggio recente ha attaccato frontalmente l'immigrazione extracomunitaria di massa in termini di sorprendente durezza. "Se l'immigrazione si sviluppa, per il tacito consenso della classe politica, nelle dimensioni ritenute probabili dagli esperti", ha scritto il sociologo dell'Università di Firenze, "al di là della crescita certa di malessere, scontento e conflitto (…) c'è il pericolo di quella che possiamo chiamare la saturazione migratoria. L'invasione dall'altra sponda e dall'Est, se praticamente incontrollata, scardinerebbe economia, società, ordine pubblico, cultura (…), dunque la civiltà che ci siamo costruiti nel corso dei secoli, che dà una sua peculiarità al nostro popolo e a tutti i nostri rapporti interpersonali, che è parte di ciascuno di noi, elemento della nostra più intima essenza personale". Su un altro versante, preoccupazioni analoghe sono state espresse da Mario G. Losano in un allarmato intervento su "MicroMega", certamente riduttivo nell'equazione fra immigrazione e pericolo di diffusione del fondamentalismo islamico ma comunque indicativo dello stato d'animo con cui una certa parte della sinistra ha accolto l'irruzione sulla scena sociale di una dimensione di conflitto non prevista dai suoi classici schemi interpretativi.

C'è chi ritiene che queste inattese reazioni portino alla luce un rimosso xenofobico che, complici gli impulsi egoistici della psicologia consumistica dominante nelle società occidentali, ha prosperato nel cuore delle culture democratiche: ma ci pare una lettura semplicistica, anche se non completamente destituita di fondamento. Noi diremmo invece che molti comportamenti e prese di posizione assunti di fronte alla questione migratoria illustrano piuttosto il riallineamento, la riclassificazione delle culture politiche che si accompagna alla nascita di un nuovo cleavage, di una nuova frattura fondamentale all'interno di un determinato contesto sociale. Constatazione che a sua volta ci porta a chiederci se non sia il caso, alla luce di questa revisione di paradigmi, di riconsiderare il ruolo che tali culture esercitano effettivamente nei confronti della questione della convivenza tra le razze. E a mettere in discussione le etichette di razzismo e antirazzismo che un po' troppo frettolosamente vengono assegnate alle parti in causa dalla vulgata massmediale.

Tre atteggiamenti di fronte all'immigrazione

Per verificare la plausibilità di questa ipotesi, partiamo dagli atteggiamenti attualmente riscontrabili nell'ambito delle elaborazioni politico-culturali in materia di immigrazione. Volendo costruirne schematicamente una tipologia, ci sembra di poterli ridurre a tre:

a) L'esaltazione senza riserve della positività dell'incontro fra immigrati e popolazione di accoglienza, per i suoi caratteri di potenziale arricchimento, reciproco o meno. E' la posizione che si esprime, nelle sue punte più estreme, in un elogio della commistione e del meticciato (quello che André Béjin chiama "panmixismo utopico") i cui fondamenti ideologici risiedono nei postulati del cosmopolitismo e dell'individualismo.

b) Il rifiuto del contatto e dello scambio, basato su due rappresentazioni assai diverse, anche se spesso strategicamente convergenti, dell'Altro, dell'Alieno, ora visto come inferiore e sottoposto a comportamenti di sopraffazione e di dominio (è il caso delle forme di razzismo consapevole e dichiarato esibite dagli skinheads e da altri gruppuscoli consimili), ora visto come il diverso, lo sconosciuto che incute timore ed apprensione, e fatto oggetto di discriminazioni dettate dal senso di insicurezza (questa è l'immagine prevalente, come dimostrano numerose ricerche e sondaggi, fra gli elettori dei maggiori partiti xenofobi, a partire dal Front National francese). Un amalgama dei due atteggiamenti è riconoscibile nel modello dell'apartheid sudafricano.

c) L'accettazione pragmatica del fenomeno, che senza scadere in contrapposti eccessi di giudizio etico, mira a controllarne la portata e ad organizzarne le forme. E' la posizione che si esprime nella convinzione che una parte del flusso migratorio di questi ultimi venticinque anni si debba considerare definitiva, come è accaduto fra Ottocento e primi decenni del Novecento con i numerosi gruppi etnici europei sparsisi attraverso il Vecchio continente, le Americhe e l'Australia, ma che nel contempo esista in ogni società una soglia di integrazione degli allogeni che, se varcata, induce turbative e disagi non controllabili. L'espressione che definisce la convenzione alla base di questo atteggiamento può essere presa a prestito da un articolo di Marcel Gauchet: gli immigrati degli ultimi decenni "sono qua e ci resteranno".

Definire queste tre posizioni idealtipiche e dichiarare di aderire alla terza di esse non significa esaurire le possibilità di opzione che si aprono di fronte ai cittadini dell'Europa del terzo millennio. Perché, come vedremo, prendere atto del peso storico di un fenomeno non significa abbandonarlo a meccanismi inerziali, ed è opportuno sottolineare la marcata diversità degli scenari che potrebbero aprirsi a seconda del prevalere dell'una o dell'altra visione dei criteri di coesistenza fra i diversi gruppi chiamati a popolare, per un periodo di tempo di cui è impossibile prevedere la durata, il territorio dei paesi economicamente più sviluppati.

Contro le prime due interpretazioni del fenomeno migratorio cui abbiamo fatto cenno militano, al di là di ogni sentimento individuale, varie considerazioni oggettive. Su quella che Gauchet ha efficacemente definito "la demagogia dei buoni sentimenti, la fantasmagoria egualitario-differenzialista" degli apologeti delle supposte virtù intrinseche della società multirazziale, tipicamente incarnata in un movimento come SOS-Racisme, ha già scritto pagine di corrosivo realismo André Béjin nel saggio citato. La maggiore pecca di questo irrealistico approccio è il suo esasperato individualismo, il sottofondo antropologico radical-liberale che non si limita a riproporre l'inefficace metafora del buon selvaggio ma vi unisce un assoluto disprezzo verso l'identità, la quale non solo viene spogliata del suo carico di senso – indispensabile per affrontare le insidie di società sempre più frammentate e complesse come quelle odierne – ma assume addirittura connotati negativi e limitanti. L'uomo ideale dei demagoghi panmixisti è, come ha scritto Béjin, l'"individuo amnesiaco, intercambiabile ed incapace di prolungare in qualche modo la propria esistenza oltre la morte", al quale si contrappongono tutti quegli uomini reali, in carne, ossa e spirito, che "non si rassegnano ad essere soltanto degli individui" e, ancorando la propria coscienza personale e di specie al dato etnoculturale ed "investendo in esso il loro bisogno di solidarietà", sentono che attraverso i geni, attraverso la cultura, un po' di loro stessi potrà essere trasmesso alle generazioni future", perpetuando il concetto di civiltà. Anche nella versione moderata, questo atteggiamento cosmopolita rivela peraltro tutti i suoi limiti. Chi sostiene la tesi del "mutuo arricchimento" ricordando che l'intero corso storico dell'umanità è stato costellato di incontri/scontri fra popolazioni etnicamente e culturalmente lontane fra loro, che pure hanno finito con l'integrarsi e interagire (è la tesi di quanti enfatizzano il carattere composito delle odierne nazioni europee), o falsa i termini della comparazione, dimenticando che oggi a migrare non sono interi popoli ma singoli individui (le cui potenzialità di "contaminazione attiva" sono minime), oppure coltiva una visione idilliaca e utopica della storia, che lo porta a trascurare i pesanti costi umani di quei contatti, che, tradotti sulla scala delle odierne potenzialità tecnologiche anche in materia di strumenti di difesa e offesa, diventerebbero spaventosi.

Quanto invece all'atteggiamento di ripulsa – la "chimera del rifiuto", per attenerci al gergo di Gauchet -, nella versione più dichiaratamente razzista esso rivela tutta la sua assurdità ed inaccettabilità da un punto di vista differenzialista, poiché non solo, gerarchizzando le razze, ne prospetta la commensurabilità, ma nel contempo propone in genere come punto di riferimento positivo un ibrido etnico, biologico e culturale (la "razza bianca") che contrasta con qualsiasi mitologia della purezza del sangue o delle eredità ancestrali. Nelle versioni più pragmatiche e becere – tipiche della xenofobia populista – predomina invece ad occhio nudo una marcata incertezza (o carenza) di identità di chi se ne fa assertore. Da un lato infatti il timore di veder contaminata la propria cultura dal contatto con chi ne esibisce una diversa aleggia solo in chi non si sente saldo nelle coordinate di riferimento e copre con minacce e violenza la fragilità della sua costituzione psichica. Dall'altro è palese che questi pretesi difensori della purezza della loro cultura nazionale sono del tutto ignari – cioè ignoranti – del peso dei fattori che quella cultura effettivamente e silenziosamente snaturano, giorno per giorno, attraverso l'azione di mode e stili comportamentali d'importazione di cui essi sono fra i primi seguaci (il rilievo si attaglia particolarmente agli skinheads). Diverso sarebbe il discorso da farsi riguardo alla xenofobia spicciola, alimentata in parte da pregiudizi, in parte da disagi reali, e tipica di fasce sociali indebolite e/o marginali, in cui un autore come Gauchet, osservando il travaso di voti fra partiti di sinistra e Front National in Francia, arriva a vedere una sorta di reincarnazione contemporanea della lotta di classe. Ma a collocare questo argomento al di fuori della portata delle nostre riflessioni basta la constatazione che comportamenti di questo genere, nella misura in cui esprimono insicurezza piuttosto che sensazioni di superiorità, difficilmente possono essere considerati forieri di razzismo in senso proprio.

Differenzialismo o assimilazionismo

Molto più interessante è scandagliare la terza opzione. Essa si fonda su un'argomentazione estremamente semplice: che lo si voglia o meno, che la si consideri una potenziale tragedia o una occasione di arricchimento, oppure, come a noi pare più logico, un fenomeno oscillante nell'ampio spazio situato fra questi due estremi, la multirazzialità è una realtà ormai inscritta nel futuro delle società industrialmente avanzate. Esorcizzarla con il ricorso a fantasmi apocalittici o ad utopismi irenistici è inutile. Occorre invece organizzarla e indirizzarla, poiché essa non è governata da alcuna logica di predeterminazione verso una direzione definita e può essere pensata in forme molto diverse. Come una società omogenea e monoculturale, come è nelle aspirazioni degli intellettuali assimilazionisti: una società in cui agli immigrati verrebbe chiesto, in cambio del diritto ad usufruire di una frazione di benessere, di rinunciare alla propria identità e di assumere le vesti di occidentali di seconda scelta. Oppure come una società differenziata e multiculturale, retta da una dinamica di scambi e interazioni ma fondata sul riconoscimento del diritto alla specificità di ogni gruppo etnoculturale, in un contesto che si potrebbe definire quasi di una società di comunità, al plurale. In entrambi i casi, ostacoli e difficoltà nella convivenza quotidiana certamente non mancherebbero, come sempre accade quando ad entrare in contatto sono individui o agglomerati diversi per tradizioni, mentalità, costumi, credo religioso; ma è destino delle società complesse e pluralistiche cercare, e trovare, forme adeguate a lenire, se non a cancellare, i disagi di questi incontri/scontri. Quel che appare sin da oggi certo è che i paesi sviluppati dovranno necessariamente scegliere fra questi contrapposti modelli di sviluppo, salvo soccombere, in caso contrario, ad un'inevitabile crescita di microconflittualità anarchica ed anomica.

Fra i sostenitori delle due prospettive in contrasto la polemica è aperta, ed ha assunto talvolta toni esasperati. In particolare, come ha ben rilevato Alain de Benoist, la critica condotta sul versante universalista è trascesa in qualche caso in un vero e proprio processo alle intenzioni. L'accusa rivolta da Pierre-André Taguieff ad un presunto "razzismo differenzialista" appartiene a questo genere. Lo studioso francese indica, con questa espressione, un discorso che si incentra sui temi della differenza e dell'identità e che, a suo avviso, si coagulerebbe intorno as un "integralismo della differenza", che verrebbe eretto ad assoluto. Questo curioso razzismo eterofilico, che "si avanza sotto le vesti dell'antirazzismo intelligente e sincero", avrebbe come logico sbocco l'incomunicabilità delle culture e la generalizzazione dell'apartheid.

Contrariamente a quanto questa interpretazione lascia supporre, l'atteggiamento differenzialista, che afferma la possibilità e la necessità di una convivenza fra diversi coscienti della propria rispettiva specificità, si esprime come una forma esplicita e meditata di antirazzismo.

La difesa delle identità collettive, sia in ciò che esse hanno di immutabile sia nelle loro componenti transitorie, dipende, nella visuale differenzialista, dalla convinzione che mantenere tali elementi distintivi sia condizione essenziale del dialogo e dello scambio fra popoli ed individui di diversa origine etnica e/o culturale. Replica Alain de Benoist a Taguieff: "Il dialogo con l'Altro implica che ci sia un Altro, altrimenti lo scambio avviene continuamente fra entità identiche e si riduce ad un monologo a due voci. Inoltre, affermare che ogni popolo ha un diritto imperscrittibile ad avere una propria sede non implica che in quella sede ci si debba rinchiudere e non vi si possa ricevere nessuno. Ritenere preferibile (ed inevitabile) l'esistenza di frontiere non significa che non si abbia il diritto o l'intenzione di valicarle in determinate occasioni (…) La differenza è un concetto astratto, ma è un concetto che rimanda a realtà umane estremamente concrete: l'Altro nella sua personalità carnale e spirituale, come portatore di ciò che lo rende specifico nella sua presenza nel mondo". E ancora, in un'ulteriore difesa dalle manipolazioni e dai travisamenti delle posizioni dell'antirazzismo differenzialista: "Chi ha mai scritto che non esiste alcuna possibilità di comunicazione fra tutti gli uomini? Chi ha mai detto o scritto, richiamandosi ad una prospettiva differenzialista, che "irriducibili, incomparabili e inassimilabili, i tipi umani che differiscono non possono comunicare fra di loro, né in fatto né in diritto", come afferma Taguieff? (.,..) Tutti sanno che non esiste la differenza presa a sé stante. Per definizione, si è diversi solo in rapporto all'Altro. La differenza si presenta quindi come un dato relativo per eccellenza, che implica la somiglianza come quadro di fondo in cui inserirsi. (…) Il differenzialismo rifiuta per principio la considerazione inegualitaria delle culture, opponendosi su questo punto al razzismo e all'etnocentrismo, che manifestano una propensione irresistibile a classificare le razze, le etnie o i popoli in una prospettiva gerarchica, secondo criteri che rinviano immancabilmente alla specifica appartenenza di chi li enuncia".

In questa prospettiva la differenza non viene dunque interpretata come una diversità di valore, che richiamerebbe una gerarchia. Chiarire gli aspetti tragici del fenomeno migratorio, e porre la coscienza vissuta dell'identità come unico strumento per attenuarli, non significa d'altronde in alcuna misura abbandonarsi a tentazioni razziste. A meno di non voler accusare di razzismo anche l'Unesco, che in numerosi inserti pubblicitari comparsi sulla stampa italiana ha enfatizzato i suoi programmi di aiuto allo sviluppo dei paesi africani proprio facendo ricorso all'argomento dello sradicamento, del disagio e delle umiliazioni a cui deve sottostare chi, strappato alla cultura e all'ambiente d'origine dalla miseria, intraprende la via, spesso senza ritorno, dell'espatrio. Nel contesto del fenomeno migratorio, la consapevolezza della differenza ed il suo riconoscimento esercitano un'azione positiva in una duplice direzione: consentendo a chi si trova a dover vivere in un contesto civile per molti versi estraneo di mantenere un solido referente identitario e allontanandolo da quelle forme di anomia e di perdita di senso del proprio essere che creano una disponibilità psicologica all'infrazione delle norme e all'aggressività.

Della personalità carnale e spirituale dell'Altro – in questo caso l'immigrato – non sembra invece tenere il dovuto conto quella corrente assimilazionista, apparentemente maggioritaria sia nella sinistra socialdemocratica che nella destra liberale, che nella peggiore delle sue versioni riduce le sfide dell'immigrazione ad una questione di utilità reciproche di ordine economico-materiale e ragiona esclusivamente in termini di quote e compatibilità produttive, e nel migliore dei casi accetta l'accoglienza degli immigrati in nome di sentimenti umanitari ma adotta come criterio di compatibilità l'occidentalizzazione di fatto dei nuovi ospiti. Questa corrente di pensiero, che spesso copre con un velo di ipocrisia la dura realtà del confronto fra culture autoctone e allogene parlando eufemisticamente di "scambio di popolazioni", accetta a cuor leggero l'idea di una società multirazziale, di cui vede i margini di utilità economica – manodopera a buon mercato e di pretese, anche abitative, per adesso modeste -, ma ne rifiuta ogni declinazione in termini multiculturali, sperando di ripetere l'esperienza di centrifugazione/assimilazione riuscita, in condizioni ben diverse, nell'Europa del secondo dopoguerra con le popolazioni di origine contadina affluite nelle città industriali.

I pericoli dell'omogeneizzazione

Nelle versioni meno aride, questo atteggiamento è sorretto da una concezione giacobina del rapporto fra popolazioni, in cui affiora una vena sottile ma tenace di razzismo. Il diverso è in questo caso ritenuto assimilabile perché inferiore, portatore di forme di acculturazione sostanzialmente primitive, che possono essere emancipate a contatto con la concezione occidentale dello sviluppo e del progresso. Ciò fa dell'immigrato un ostaggio degli usi e delle concezioni ideologiche dei paesi di accoglienza. Per usare le parole di Alessandro Dal Lago, sedicente antirazzista, "gli immigrati devono essere soggetti in tutto e per tutto ai sistemi giuridici delle nazioni ospiti", sottintendendo che devono adeguarsi anche alla filosofia che spunta dietro quel sistema di norme. Il concetto di identità, naturalmente, subisce in questo quadro un intenso stiramento: prima si trasforma, con una mutilazione dei suoi aspetti meno secolarizzati, in nazionalità, quindi in cittadinanza in senso politico, poi in cittadinanza nel più blando senso giuridico-territoriale, ridotto a pura fruizione di diritti formali. In altre parole, incapace di ricevere e comprendere comportamenti "alieni", la società retta da principii assimilazionisti si limita a reprimerli e vietarli. Operazione alla quale sarebbe difficile obiettare se si limitasse a perseguire fatti giudicati illeciti dalle norme penali, ma che diventa assurda quando pretende di ergere a giudice una non codificata coscienza laica, come nel caso della nota "guerra del chador" che si trascina da anni in Francia e sta estendendosi ad altri paesi.

Pur con tutti gli interrogativi che si accompagnano ad una sua traduzione concreta sul piano delle prescrizioni normative, la visione differenzialista sembra dunque l'unica in grado di guidare senza rischi di catastrofe il processo di fondazione di una civiltà plurietnica. Lungi dall'istituzionalizzare le diversità o dal mummificare le identità facendone delle essenze assolute e atemporali, e dunque dal mirare a segregarne i portatori in una situazione di incomunicabilità, l'antirazzismo differenzialista si presenta come l'unico argine a quel progetto di assimilazione generalizzata che, al di là delle palesi difficoltà di attuazione pratica, ci prospetta un inquietante futuro di omogeneizzazione planetaria dominato da un modello di civiltà unico e unidimensionale. Se dietro tale modello si cela, come abbiamo motivo di credere, la convinzione che nei paesi economicamente avanzati esista una sola civiltà possibile – quella dell'Occidente americanomorfo -, i cui caratteri distintivi vengono ammantati delle prerogative dell'universalità, è davvero grande, come ha scritto ancora Alain de Benoist, il rischio "di tornare ad una nuova forma di razzismo, consistente o nel ritenere superiori le culture e le società che hanno (perlomeno in teoria) "il senso dell'universale più delle altre", o nell'attribuire all'uomo un'essenza particolare e nel fare di tale essenza il modello di ciò che universalmente deve essere considerato umano, respingendo tutto quello che non corrisponde al modello proposto".

Contro un simile rischio non è sufficiente premunirsi restando in allarme. Occorre reagire positivamente, portando al centro del dibattito intellettuale l'idea di una coesistenza delle specificità, che è l'unico ragionevole punto di mediazione fra la disordinata insorgenza degli egoismi individuali, tribali o nazionali e il panorama avvilente di una società globale dove lo scambio fra aggregati umani, perdendo i residui connotati simbolici, culturali e religiosi, sia ridotto a mera competizione fra risorse materiali e fra opposte aspettative di potere.

Da www.diorama.it (già in "Democrazia e diritto" 1/1994)

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