Massimo Fini – Curare le persone sane: ultima follia della medicina

E finalmente ci siamo arrivati: ad operare di cancro anche chi non ce l'ha. È la proposta dell'ottimo ministro della Sanità, Umberto Veronesi.

 

La ricerca medica ha individuato infatti due geni, Brea 1 e Brea 2 («breast cancer gene» è il loro gentile nome per esteso) che predispongono al cancro al seno con una probabilità dell'80% in più rispetto alle donne che questi geni non ce l'hanno. Veronesi propone quindi che le donne portatrici del Brea 1 e Brea 2 si sottopongano in via preventiva alla mastectomia,cioè alla asportazione della ghiandola mammaria, in pratica del seno, anche quando sono ancora sane e quella di un cancro è solo una possibilità o una probabilità. Secondo Veronesi a quest'operazione, o quantomeno alla chemioterapia, dovrebbero sottoporsi anche le bambine, sane, in età prepubere.

È questa la concezione della medicina moderna per cui non esistono più degli uomini sani. Siamo tutti dei potenziali malati, siamo tutti «a rischio». Il che è ovvio. Ma, se è per questo, siamo anche tutti dei potenziali, anzi dei sicuri, morituri. Prezzolini diceva che un uomo di cui si sa che morirà è già morto. E allora? Dovremmo impedirci di vivere perché un giorno moriremo? Non dobbiamo fumare, bere, uscire di casa (questo era un suggerimento, anni fa, di Veronesi, per non inalare smog) e, fra poco, nemmeno respirare perché questo ci logora? Vivere ci fa morire, ciò è ovvio. Ma dobbiamo per questo comportarci da malati quando siamo ancora sani? «A voler troppo proteggersi si passa la vita ad aver paura. Una preoccupazione eccessiva per la salute è già una malattia» scrive Norbert Bensaïd, medico, in quello straordinario libro che è «Le illusioni della medicina».

Bensaïd racconta la storia di M.L., un quarantenne, grassoccio, un po' iperteso, col colesterolo alto, discreto fumatore, allegro e gioviale, che arrivò un giorno da lui molto preoccupato perché i medici gli avevano detto che aveva troppi fattori «a rischio» e poteva morire d'infarto. Bensaïd cercò di fargli capire che non era il caso di drammatizzare, ma l'uomo insisteva per essere messo sotto controllo, aveva due figli piccoli, una vecchia madre, eccetera, e Bensaïd lo prese in cura, gli dettò le precauzioni necessarie, gli diede i farmaci che si prescrivono in questi casi. «Ma M.L. – racconta Bensaïd – non era più lo stesso. Era diventato triste, amaro, aggressivo, abbattuto, depresso». M.L. morì a 44 anni fulminato da un melanoma, il cancro della pelle. Scrive Bensaïd: «Io non potevo saperlo, ma gli avevo avvelenato, inutilmente, gli ultimi anni della sua vita. Lo avevo reso infelice per impedirgli di essere malato. Anzi: per prevenire, nella migliore delle ipotesi, patologie del tutto ipotetiche».

Una delle pretese della medicina moderna, ammalata, essa sì, e inebriata del proprio scientismo, è di poter controllare tutto. Ma l'uomo non può controllare tutto, non può, per la verità, controllare niente. Perché una ragazza di vent'anni, perfettamente sana, dovrebbe farsi togliere le ghiandole mammarie o sottoporsi a una chemioterapia preventiva per impedire che trent'anni dopo gli venga un cancro al seno, quando può morire a ventuno per un incidente stradale uscendo da una discoteca? O deve impedirsi anche la discoteca? E se scopriranno i geni che, con la loro mutazione, favoriscono il cancro ai testicoli o quello alle ossa, dovremo, per ciò, farci castrare o amputare in via preventiva?

L'ottimo Veronesi lamenta che molte donne rifiutano di sottoporsi ai test genetici, definiti «una grande arma per la scienza», perché non vogliono sapere se e quando e di che cosa si ammaleranno. Hanno perfettamente ragione. Perché anticipare di venti, di trenta, di quarant'anni lo stress e l'angoscia di una malattia? Questo sembra essere diventato il principale obiettivo, oltre che l'unico risultato, della cosiddetta medicina preventiva il cui sogno finale è di poterci predire alla nascita il giorno della nostra morte. L'uomo è un'animale costruito psicologicamente in modo tale che non puoi dirgli – non dovrebbe essere nemmeno lecito – che ha probabilità di ammalarsi di questo o di quello perché passerà l'intera vita, sciupandosela, a pensare a questo e a quello, ad auscultarsi, a tastarsi, a testarsi. Perché funestarsi una vita piena con questa inesausta smania di controllare, di probabilizzare, di prevedere, di prevenire?

L'uomo moderno ha sostituito il presente, il «carpe diem» oraziano che peraltro era la concezione di vita di tutte le culture preindustriali occidentali e orientali, con un tempo inesistente: il futuro. Ha sostituito la vita con la morte, col suo costante, anche se sottaciuto, presentimento. E all'origine della sua angoscia esistenziale c'è proprio questo, soprattutto questo. «Muore mille volte chi ha paura della morte» dice il saggio Epicuro. E non è certamente il caso che la medicina tecnologica e oncologica, di cui Umberto Veronesi è un degno rappresentante, aggravi la situazione allungando le sue mani sporche di affari colossali fatti sui malati, anche su chi, con suo dispetto, è ancora sano.

Da "Il Tempo" del 09/05/2001

Redazione