Massimo Fini – Il mondo dell’editoria

Intervistato da «Panorama» lo scrittore e consulente di case editrici Giuseppe Pontiggia invita gli aspiranti scrittori a lasciar perdere: ce ne sono troppi, tutti vogliono pubblicare, ma che fregola è mai questa, il libro va smitizzato, si scrive in eccesso. A parte il fatto che queste prediche ci arrivano mentre lo stesso Panorama ci informa che questo scrittore sta pubblicando il suo ultimo romanzo per cui Pontiggia assomiglia un po' a Guido Ceronetti che per dire che «La carta è stanca» di essere scribacchiata ne ha riempito settecento pagine.

 

 L' arroganza dell' editoria italiana, e della società letteraria che con essa si intreccia, ha raggiunto ormai vette di assoluta impudenza: da una parte infatti essa pubblica le cose più infami. dai libri di Arbore, di Pazzaglia, di Frassica alla «Lettera di un padre alla figlia che si droga» (c'è anche un seguito: «Lettera di una padre a Francesca che non si droga più») alle più immani sciocchezze purché firmate da un nome, a qualsiasi titolo, famoso (e si sa che oggi, per ottenere la fama, basta fare una comparsata alla Tv), dall'altra si permette di irridere alla speranza, incoraggiata proprio da questo bassissimo livello («se scrivono loro perché non io?»), di giovani autori di vedersi pubblicati. Insomma, prima si fomenta il fenomeno della dequalificazione del libro e di esso ci si avvantaggia poi si chiudono violentemente le porte ai nuovi venuti.

Si dice che i manoscritti che arrivano alle case editrici fanno schifo. Può darsi, è probabile, ma è anche vero che se oggi rinascesse Dostoevskij nessun direttore editoriale o dirigente di casa editrice o consulente lo noterebbe, a meno che non facesse anche la ballerina di fila alla Tv. Perché questi qui, i manoscritti non li leggono, perché fanno il loro lavoro senza amore, senza partecipazione, senza pathos, perché è molto più facile puntare sul nome conosciuto che sfibrarsi a leggere centinaia di manoscritti, robaccia sì, nella stragrande maggioranza, nella quale però scovare il talento o l'inizio di un talento, che dovrebbe essere il loro mestiere. Questi qui han da pensare ai loro piccoli giochi di potere, alle loro camarille, ai loro intrallazzi, allo scambio di favori e non possono perdere tempo a curarsi dei giovani.

E pensare che molti degli attuali funzionari di casa editrice, che sono anche tutti scrittori, devono la loro esistenza alla curiosità, all'amore spesso, che i loro predecessori han portato al lavoro dei giovani. Vittorini, per esempio. Vittorini non aveva paura di sfibrarsi alla ricerca di talenti, non lesinava la sua attenzione, non aveva paura di perdere tempo con i giovani. Poteva sbagliare certo, ma per eccesso, mai per difetto. E così, prima di lui, Malaparte che, fra gli altri, scoprì proprio Vittorini.

Perché un tempo la gente di lettere e di cultura si cercava, si fiutava e non aveva timore di spendere a favore degli altri, ad incoraggiare qualcuno invece di mortificarlo come si fa oggi. Bisogna anche avere il coraggio di scafare fra le cose brutte, fra i talenti ancora incerti, come facevan quelli, perché nessuno, a parte casi rarissimi, nasce scrittore. Ma oggi, come ha detto bene Grazia Cherchi, «il vecchio adagio che lo scrittore lo si vede al secondo romanzo, risulta impossibile da verificare, dato che non esce il primo». Questi qui i giovani, a meno che non discendano da nobili lombi, li stoppano. Perché sono dei ragionieri, dei funzionari, degli avari di sé, degli uomini con così poco talento che, se appena ne intravedono uno, se ne impauriscono immediatamente e ne temono la concorrenza.

A proposito di talenti leggo che in un recente convegno, tenuto a La Spezia, giornalisti e scrittori, dalla Aspesi a Petacco a Soldati a Bocca, si sono profusi in lodi sperticate e postume di Giancarlo Fusco. Tutti, in quell'occasione, si sono dichiarati amici carissimi del morto. Peccato che quelle stesse lodi ed attenzioni gli autorevoli convenuti non le abbiano riservate a Giancarlo Fusco quando era vivo e non abbiano usato la propria autorevolezza per farlo collaborare ai loro giornali. Perché Fusco ha passato i suoi lunghissimi ultimi anni dimenticato ed ignorato da quasi tutti, riducendosi a scrivere per Kent, per Playmen, per Playboy, e solo negli ultimissimi tempi trovando un ingaggio al Giorno di Guglielmo Zucconi.

Perche la verità è che gli uomini come Giancarlo Fusco, irregolari, amanti dell'alcol, irrequieti, trasandati, persi, quando son vivi fan paura, li si ritiene sconvenienti e nessuno si sognerebbe, per esempio, di presentarli al proprio direttore. I Fusco, quando son vivi, li si ghettizza. li si tiene al margine o, nella migliore delle ipotesi, li si guarda con una pena mista di disprezzo perché non conoscono le regole del vivere. Degli uomini come Fusco si preferisce appropriarsene da morti. Non per simpatia. Ma per farsi belli, senza pena e senza rischio, delle loro imprese. Ed anche questo è un esempio della meschinità e dell'avarizia dei tempi.

Da "La Domenica del Corriere" del 18/01/1986

Redazione