Queste lagne sulla Cina che invadendo i mercati europei e italiani con prodotti a basso prezzo perché può pagare un pugno di riso i propri la voratori che non hanno tutele, né sindacali, né previdenziali, né assicurative, sono indecenti.
È da decenni che le imprese occidentali dislocano le produzioni nei Paesi del Terzo Mondo proprio perché pagano con un pugno di riso, o equivalenti, lavoratori che non hanno tutele, né sindacali, previdenziali, assicurative, e adesso che la Cina e altri Paesi ci rendono la pariglia facciamo gli scandalizzati e improvvisamente gli imprenditori italiani ed europei riscoprono il valore dei sindacati purché abbiano il muso giallo.
Del resto il Parlamento europeo non ha fatto in tempo a votare una risoluzione che, dal 2008, vieta di superare il limite del le 48 ore di lavoro settimanali che subito si sono levati alti la i da parte degli imprenditori (vedi il polemico titolo de "Il Giornale" di ieri "La Ue vieta agli europei di lavorare di più") che gridano che si vuol intaccare la fondamentale libertà di lavorare quanto si vuole – la libertà di Stakanov – e chiedono che il limite sia spostato almeno a 65 ore. E prima o poi ci si arriverà. È una conseguenza inevitabile del la globalizzazione esattamente come lo è l'assalto del le cavallette cinesi. Perché l'Europa possa competere con la Cina, Giappone, Stati Uniti è necessario che i suoi cittadini la vorino di più. In Germania, oltre ad allungare l'orario di lavoro stanno già provvedendo a smantella re il cosiddetto "modello renano", vale a dire il welfare assicurato a tutti, orgoglio del modello di sviluppo tedesco.
A questo punto però si pongono, anzi si ripropongono, alcune domande cui la globalizzazione, vale a dire la spietata competizione mondiali fra Stati che ha le sue origini lontane nella Rivoluzione industriale ma che arriva oggi alla sua maturazione planetaria, ha perlomeno il pregio di ridare dignità senza che vengano subito sbertucciate come reazionarie, antimoderne, antiprogressiste, irrazionali, come capitò al mio "La Ragione aveva Torto?" del 1985, che aveva osato formulare: è l'economia al servizio del l'uomo, o noi al suo? Il meccanismo produzione-consumo serve a noi o è diventato autoreferenziale e marcia ormai per conto suo? L'obiettivo è un'astratta "Ricchezza del le Nazioni", per dirla con Adam Smith, o lo star bene dei suoi abitanti?
Prendiamo l'Italia. Non c'è dubbio che oggi sia complessivamente assai più ricca di quella , poniamo, degli anni '60 (e non potrebbe essere diversamente: il Pil e la produzione non han fatto che aumentare) ma noi italiani presi singolarmente siamo più poveri o quando va bene, abbiamo mantenuto le posizioni di allora. Tutta una serie di gadget tecnologici, una volta quasi inarrivabili, sono oggi alla portata di chiunque, ma i beni essenziali, casa, cibo, vestiti, costano molto di più di allora.
Come mai? Il fatto è che mentre l'Italia corre, e corrono, si affannano e la vorano i suoi abitanti, corrono anche gli altri Paesi; corriamo tutti ma proprio per questo è come se stessimo fermi, come se fossimo su un tapis-roulant imboccato a rovescio. Ma se ci fermassimo, retrocederemo a condizioni di sottosviluppo inaccettabili. E allora ci si deve chiedere se la competizione economica, questo mito del la Modernità che a destra come a sinistra ha santificato il lavoro che nei tempi andati era considerato, come dice San Paolo, uno "spiacevole sudore della fronte", sia il modo migliore per affrontare la vita e se abbia un senso o perlomeno un senso umano. Vale la pena ricordare che sono esistite società, e anche piuttosto prospere, come quella dell'Europa preindustriale, che non erano regolate dal principio della competizione ma da quello della cooperazione. Se si rileggono gli statuti del le corporazioni artigiane si vede che ponevano infiniti limiti alla concorrenza considerata spregevole, che era proibito distogliere il cliente dalla bottega del vicino e persino farsi pubblicità.
A ognuno doveva essere assicurato un posto, sia pur piccolo, al sole, senza che fosse costretto, a differenza di oggi, a inseguire incessantemente un futuro orgiastico che pare sempre lì lì per essere colto, e invece arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità del l'orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di raggiungerlo.
13/05/2005