Massimo Fini – Lo sfogo per l’aggressività

Da varie parti si chiede insistentemente di estromettere dagli stadi i tifosi che, con slogan, cori e striscioni truculenti, spesso di ispirazione nazi, inneggiano alla violenza. Io credo invece che bisognerebbe concentrarveli. Prima e unica fra tutte le culture, la nostra ha infatti la pretesa di eliminare completamente l'aggressività e la violenza dal proprio orizzonte.

 

È un errore fatale, tipico di una società totalizzante quale, al di là delle apparenze, è quella uscita dall'illuminismo, ammalata di assolutismo perfezionista. Tutte le culture cosiddette primitive sapevano benissimo che il problema della violenza non è quello di sopprimerla in toto, cosa impossibile, oltre che pericolosa, perché l'aggressività, come ci insegna l'etologia, è una parte imprescindibile della vitalità, ma di incanalarla, di ritualizzarla, in modo da ricondurla sotto una soglia di tollerabilità. Proprio per questo le società antiche elaborarono gli istituti della festa orgiastica, del potlach, del capro espiatorio, della guerra ritualizzata che davano uno sfogo, controllato, alla violenza. Presso gli Ashanti, tribù bellicosissima e quindi costantemente a rischio di disgregazione, era d'uso che, una settimana all'anno, ognuno potesse insultare chiunque altro, compreso il re. Del resto il Carnevale ha avuto (e in alcune realtà ancora ha, si pensi per esempio al Brasile) questa funzione catartica e liberatoria.

Lo Stato moderno ha monopolizzato la violenza, espropriandone il singolo. Però per un certo periodo lo Stato ha dato uno sfogo legittimante alla violenza dei singoli attraverso il nazionalismo e la guerra. Oggi, in epoca atomica, la guerra è diventata il tabù dei tabù. L'aggressività e la violenza individuali non trovano quindi più uno sfogo legittimo nè all'esterno, nè all'interno della società. Il risultato di questo «verbot» assoluto alla violenza è stato uno straordinario accumulo di aggressività insoddisfatta e quindi la crescita della più violenta società che si sia mai data: la nostra.

Infatti la violenza, tabuizzata ed espulsa da tutte le parti, ritorna sulla società, come criminalità capillare e diffusa, o sull'individuo che, non potendo scaricarla in alcun modo all'esterno, la introietta nelle forme autodistruttive della droga, del suicidio, della nevrosi, delle malattie psicosomatiche. Cosa dovrebbe fare allora una società intelligente? Dovrebbe, esattamente come gli antichi, cercare di canalizzare la violenza verso forme il più possibile innocue, anche se non innocenti, senza pretendere di eliminarla del tutto. Ovviamente la sensibilità moderna non può accettare certi collaudati istituti di un tempo, come la guerra ritualizzata (ma pur sempre guerra), oppure, come il capro espiatorio dove uno solo ci lascia la pelle per la buona pace di tutti.

Ma anche la società di oggi ha i suoi strumenti e i suoi luoghi adatti alla bisogna. Uno di questi, e forse il principale, è appunto lo stadio. AI contrario di ciò che scrive quella compunta suorina di Giulio Anselmi (Corriere della Sera, 28/11) ) lo stadio deve essere proprio una «zona franca», come lui la chiama (un cerchio magico direi io), dove sono ammissibili violenze verbali, addobbi guerreschi, atteggiamenti truculenti che altrove non potrebbero essere tollerati. Del resto la verbalizzazione e la ostentazione della violenza non debbono essere prese sempre alla lettera come se dovessero automaticamente tradursi in pratica. Quando la folla degli stadi grida al calciatore avversario, a terra per un fallo, «devi morire», non è che lo pensi. Tanto è vero che nelle rare occasioni in cui lo spettro della morte vera si è affacciato sui campi, come nel caso di Renato Curi o di Lionello Manfredonia, gli stadi sono ammutoliti.

Lasciateli sfogare. Lo stadio è fatto anche per questo. Sequestrategli le mazze e i coltelli, ma non impeditegli di entrare a inalberare gli striscioni più infami, a urlare i loro pessimi cori e anche, «cum judicio», a scazzottarsi. Altrimenti quella violenza cacciata dalla finestra degli stadi rientrerà, moltiplicata e molto più pericolosa, per la porta della società.

Da "L'Europeo" del 11/12/1992

Redazione