Roberto Calasso – Il tramonto dei progressisti: destra e sinistra categorie vecchie

È andata così: sfogliando un libro appena uscito da Guanda (Bruno Arpaia, Per una sinistra reazionaria), vi trovo citato un mio scritto del 1993, dal titolo «Il paese delle etichette». Non riesco a ricordarmi che cosa sia. Poi lo recupero e ricostruisco la situazione. Era il trentennale di Adelphi. Panorama voleva, per l' occasione, un' intervista su cultura di sinistra e cultura di destra. Desiderio assai diffuso, in qualsiasi circostanza, nella stampa italiana. Ma non era certo desiderio mio. Allora, con l'aiuto di Elisabetta Rasy, ci inventammo una soluzione anomala: avrei scritto alcune risposte per domande non formulate (ma facilmente deducibili e connesse con il tema). Ho riletto il testo con un vago senso di malessere, come se i quattordici anni passati nell' intervallo non avessero cambiato granché. Come se al moto turbinoso del mondo avesse corrisposto un surplace delle preoccupazioni che si ritengono d' obbligo. Eppure qualche cambiamento si lasciava notare: certi accenni poco gradevoli, che potevano avere allora un' aria metaforica, erano diventati nel frattempo piatte constatazioni. Per esempio: «Forse stiamo andando verso divisioni più semplici: turisti e terroristi». Ormai non è più il caso di dire: «stiamo andando». Perché siamo già arrivati. Ed ecco le risposte:  

1 L' Italia è un Paese dove le etichette dispongono di un elisir di lunga vita. «Cultura di destra» è soprattutto una coazione karmica, anche piuttosto squallida (più o meno lo stesso si potrebbe dire per «cultura di sinistra»). Qualcosa che rivendichi oggi una di queste due etichette dovrebbe provocare un unico riflesso: scappare il più lontano possibile. Diverso naturalmente è il caso per gli autori che vengono intruppati sotto tali etichette. E qui il discorso va messo ormai nei termini più semplici. Oggi un cervello intelligente ha bisogno di Heidegger come di Marx, di Guénon come di Simone Weil, di Schmitt come di Tocqueville. Detto questo – chiarito di chi il cervello ha bisogno e di chi no – cominciano i veri contrasti e magari i duelli mortali. Ma a questo punto nessuno si ricorderà più della «cultura di destra» e neppure di quella di sinistra.

2 Rimango quasi ammirato dinanzi alla beata improntitudine con cui oggi vedo tanti parlare di un «fronte progressista». Progressista è una parola che è difficile ormai pronunciare senza arrossire, per la totale vacuità del significato che ha assunto. L' idea di progresso è stata ridicolizzata dalla storia, oltre che dal pensiero, ma a guardarci intorno si direbbe che nulla sia avvenuto. L' unico ambito in cui la parola «progresso» ha un significato incontrovertibile è quello tecnologico. Ma sappiamo benissimo che il progresso tecnologico può convivere con qualsiasi atrocità. Lo scatto in avanti tecnologico della Germania nei primi sei anni di Hitler fu impressionante. E allora? Forse che la parola «progressista» diventa buona se la si accosta a quella parola buona che è «fronte»? Mettete insieme cinque progressisti e fatevi dare una definizione della parola: avrete cinque risposte divergenti su quasi tutto. E, nella parte invece dove le risposte convergeranno, dovrete ascoltare vague generalities, come dicono gli inglesi, o dichiarazioni di generica buona volontà da bravi ragazzi un po' tonti. In fondo, è la vecchia «Grande marcia in avanti» di cui parlava Kundera che ricomincia. C' è chi sperava di non sentirne parlare più. E invece si erano fermati soltanto per un picnic aziendale. Fra un po' canteranno anche.

3 Destra e sinistra sono categorie storiche – e fra l'altro di una storia agonizzante. Come categorie del pensiero, sono inutilizzabili – e di fatto nessuno degli autori che vengono sempre tirati in ballo (da Cioran a Guénon) ha mai sentito bisogno di farne uso nei suoi testi. Oltretutto, sarebbe ormai venuto il momento per capire non che cosa oppone, ma che cosa tiene insieme, in segreta armonia, «destra» e «sinistra». Il vero demone è quello della praxis, che appartiene a entrambe: la volontà di usare il mondo come materiale per esperimento. C' è però un errore di prospettiva: il mondo è davvero un demoniaco esperimento che si compie in ogni istante. Ma quell' esperimento non ha un soggetto – e tanto meno ha come soggetto la volontà di un Führer o di un Partito. Questa verità era implicita in tutta la storia moderna, in modo clamoroso a partire dalla Rivoluzione francese. Ma ci sono volute molte catastrofi e molte atrocità perché cominciasse a balenare anche nei fatti. Così oggi nessuno osa più richiamarsi a un Führer o a un Partito. In realtà se ne vergognano un po' tutti. Ma a mio parere non abbastanza, perché nel fondo dei loro pensieri continuano ad adorarli.

4 In trent' anni – e in circa mille libri – una casa editrice disegna, che lo voglia o no, un paesaggio mentale. In questo paesaggio, per Adelphi sono essenziali Heidegger come Wittgenstein, Schmitt come Herzen, Guénon come Valéry, Benn come Marina Cvetaeva, Cioran come Kraus. È proprio la loro compresenza ad accendere quelle scintille che permettono di capire un po' di più. Il pubblico invisibile dei lettori italiani (pubblico eccellente, tengo a ripeterlo) ha dato prova di capire tutto questo senza bisogno che la casa editrice dovesse ricorrere a iniziative pedagogiche, che personalmente aborro. È stata l' evidenza stessa a decidere. Se si vuol capire che cos' è un simbolo, meglio leggere Guénon o Coomaraswamy che uno zelante semiologo o un baronale «pensatore debole». Se si vuol capire che cos' è il terrorismo, meglio leggere il Trattato del ribelle di Jünger che andare a un convegno dell' Istituto Gramsci. E così via.

5 La cultura italiana dominante – in un periodo che potremmo situare fra il 1950 e la fine degli anni Settanta – è stata innanzitutto una forma di quello che chiamerei sovietismo. Alto sovietismo, senz'altro. E magari civettuolamente dedito ad allevarsi le eresie all' interno, perché si sa che l' eretico è più chic dell' ortodosso. Ma sovietismo era. E mi piacerebbe che questa parola fosse percepita con adeguato senso di ripugnanza. È facile desumere da tutto ciò come larga parte del meglio che il nostro secolo ha dato sia stata accuratamente esclusa, per molti anni, dalle liste di libri che era opportuno pubblicare. Questo, in un certo senso, ha reso più facile il compito per Adelphi, permettendoci di agire in felice solitudine. Mentre oggi siamo circondati da nugoli di imitatori, nei quali talvolta si riconoscono i tratti di certi avversari di allora.

6 La forma politica più alta che l' Occidente ha inventato è la democrazia formale. (Quella sostanziale mi sembra invece una delle trappole più detestabili). Solo che oggi la democrazia formale fa già una enorme fatica ad applicarsi nei Paesi che l' hanno inventata. In tutto il resto del mondo farebbe ancora più fatica – e in certi luoghi non sarebbe neppure capita nel suo funzionamento. Così avviene semplicemente perché il mondo è oggi una macchina vertiginosa, al cui interno è facilissimo barare (nel senso di: eludere le regole) e dove si è sviluppato un contrasto esplosivo fra l' universalità dei procedimenti (la tecnica, che è planetaria) e la particolarità e specificità irriducibili che abitano la mente dei singoli sparsi nelle varie parti del mondo. Gli aeroporti funzionano nello stesso modo ovunque, ma i portatori di carte d' imbarco spesso hanno molto poco da dirsi – e quel poco può anche non essere particolarmente gentile. Comunque consoliamoci. Forse stiamo andando verso divisioni più semplici: turisti e terroristi C' è poi un punto delicato: la democrazia formale è una serie di regole, una procedura. Perciò tendenzialmente vuota di sostanza. Non basta a farci capire che cosa sono alcuni elementi fondamentali in qualsiasi regime politico, come l' autorità, la legittimità, la sovranità. Ora, si dà il caso che su questi temi alcune delle analisi essenziali siano state condotte da autori usualmente classificati come «di destra»: da Joseph de Maistre al Nomos della terra di Schmitt passando magari per Dumézil e Guénon. Dobbiamo continuare a ignorarli, per la solita bigotteria progressista?

7 Temo che quello che accade passi da molti anni, in vasta parte, molto sopra la testa di quelli che tentano di darne ragione. La storia è sfuggita di mano, forse definitivamente. (E forse non è neppure un gran male). L' ultimo libro che per me parli della società circostante in modo adeguato è Minima moralia di Adorno. Ed è un libro del 1951. Stando così le cose, il meglio che si possa fare è «sprofondare nei testi». Il mondo ormai si lascia capire soltanto se lo si aggira. Ma quei testi dovranno essere molti e disparati. Proviamo per esempio ad aprire un testo che i nostri giovani benintenzionati non credo frequentino più molto: i Grundrisse di Marx. Forse allora si capirà meglio di che cosa si parla quando si nomina il denaro, lo scambio, la prostituzione, il lavoro Tutti buoni temi per dibattiti televisivi. 

Redazione