– Onofrio Romano: La sua opera piu' nota – L'occidentalizzazione del mondo – e' uscita in Francia nel 1989. Il disegno teorico in essa tracciato, tuttavia, era gia' riconoscibile nel saggio di tre anni precedente, Faut-il refuser le developpement? (apparso in Italia col titolo I profeti sconfessati). Un decennio, dunque. Un decennio nel quale molta acqua e' passata sotto i ponti, a cominciare dal crollo dei paesi del socialismo reale: e' percio' giunto il momento di chiedersi, parafrasando un vecchio adagio, a che punto e' il processo di occidentalizzazione del mondo?
– Serge Latouche: Piu' avanzato che mai. Il movimento di uniformazione planetaria, di unificazione del mondo sotto il segno dell'Occidente (e dell'America, in primo luogo) e' entrato in una fase superiore, quella che oggi denominiamo mondializzazione e della quale tanto si e' scritto. La straordinaria riduzione dei costi di comunicazione e di trasporto ha abolito le distanze, disintegrato le coordinate spazio-temporali, svalutando le frontiere e lo spazio politico: viviamo effettivamente in un mondo unico, in un villaggio planetario globale nel quale i mercati finanziari, al fine unificati, dominano incontrastati sul resto dell'economia. Chi non trova il proprio posto in questo universo uniformizzato e' semplicemente condannato a scomparire.
– Onofrio Romano: Una visione che sembra non lasciare scampo. Eppure, contemporaneamente al movimento di uniformazione, si sono sviluppate in questo decennio alcune forme di resistenza. E' lei stesso a parlarne diffusamente nel suo ultimo lavoro, L'altra Africa, e, sempre recentemente, ha dedicato diversi saggi al fenomeno dei sistemi di scambio locale (Sel, o Local exchange trade systems) – che si stanno diffondendo a macchia d'olio in molti paesi occidentali -, nei quali gli esclusi creano reti di mutuo sostegno, mettendo a disposizione vicendevolmente il proprio tempo e le proprie risorse.
– Serge Latouche: Sfortunatamente non ci sono molte forme di resistenza. Assistiamo piuttosto a reazioni di rigetto da parte di popolazioni risentite, frustrate e umiliate dal processo di occidentalizzazione – penso, in particolare, all'esplosione del fondamentalismo islamico. Sono delle forme ad un tempo perverse ed ambigue, in quanto articolate sul modo della gelosia o dell'invidia: seppur nel rifiuto di alcune sue manifestazioni, il desiderio di Occidente resta molto profondo. Ne L'altra Africa parlo di qualcosa che non si puo' propriamente chiamare resistenza: l'Africa non e' piu' in corsa, non ha la pretesa di opporsi all'Occidente, e' ampiamente marginalizzata in questo processo di uniformazione, del quale, al contrario, desidererebbe essere parte integrante. Piuttosto che di resistenza, si potrebbe parlare di forme di dissidenza, che si manifestano nella straordinaria capacita' degli africani di tenere vivo il legame sociale malgrado le condizioni di estrema difficolta', testimoniando cosi' la possibilita' di auto-organizzare la propria esistenza pur collocandosi al di fuori di un processo totalitario che non ammette resistenze.
Per quanto riguarda i sistemi di scambio locale, occorre in primo luogo mettere le cose al loro giusto posto: malgrado la straordinaria esplosione di questo movimento in Francia, siamo pur sempre nell'ordine di qualche migliaio di persone coinvolte. Quantitativamente, il dato non e' significativo. Si tratta di micro-esperienze di laboratorio che hanno, comunque, un notevole valore di testimonianza: vi sono persone che non intendono lasciarsi schiacciare dalla logica dell'occidentalizzazione integrale, che si riorganizzano ai margini della "grande societa'" secondo altre logiche, altri valori e pongono le basi per la ricostruzione del legame sociale.
– Onofrio Romano: Al centro della sua riflessione sulla cultura – pardon, sull'anti-cultura – occidentale vi e' la tecnica. Ne La Megamacchina ha sostenuto che l'una si sostanzia di fatto nell'altra e ne ha additato tutte le conseguenze deleterie. Vi sono diversi filoni del pensiero marxista, in particolare quello gauchista (nei cui confronti lei ha mostrato in passato qualche simpatia), che hanno intravisto, al contrario, nella tecnica una possibilita' di liberazione per l'uomo. Liberazione, in primo luogo, dal lavoro. Qual e' il suo giudizio su questa prospettiva?
– Serge Latouche: Per dirla con Marx, e' una visione che confonde l'apparenza e l'essenza delle cose. La liberazione dal lavoro mediante la tecnica porrebbe innanzitutto un problema paradossale: nella visione marxista, infatti, il lavoro e' il mezzo attraverso il quale l'uomo accede alla sua realizzazione. Liberare l'uomo da cio' che lo rende tale, da quel che lo conduce all'autoconsapevolezza sarebbe, dunque, catastrofico. Ancor piu' grave, tuttavia, e' la pretesa di considerare la tecnica come un fatto in se', prescindendo dalla valutazione del suo senso nella societe' moderna.
Una societa', vale a dire, il cui progetto specifico e' il dominio totale dell'universo, quindi il dominio della natura e, per tale via, degli uomini. La tecnica e' essenzialmente uno strumento di potere, rispetto alla cui logica contingente l'uomo e' due volte spossessato della sua umanita': prima in quanto ridotto a strumento di lavoro, poi in quanto deprivato del suo lavoro. Occorre sempre risituare i fenomeni nella logica complessiva del sistema. La visione emancipatrice della tecnica e', in fin dei conti, estremamente superficiale ma, per la stessa ragione, molto diffusa. Non si giungera' mai a far credere ad una casalinga che gli elettrodomestici non la liberano ma la vincolano.
– Onofrio Romano: Prendendo spunto da questo statuto ambiguo del lavoro, vorrei attirare la sua attenzione su altre parole chiave dell'Occidente, le cui potenzialita' evocative e mobilitanti appaiono oggi alquanto appannate. Quando lei parla della necessita' di un mutamento d'immaginario, pensa che questo debba passare per una riscoperta del senso originario di parole come"democrazia, liberta', autonomia, solidarieta', coscienza civile, ecc. o ritiene che esse siano da bocciare puramente e semplicemente? In altri termini, le nefandezze dell'Occidente, da lei instancabilmente denunciate, sono imputabili ad un tradimento di quelle parole o ne sono il frutto autentico e necessario?
– Serge Latouche: Questa domanda tira in ballo il percorso di alcuni miei cari amici – Alain Caille', Cornelius Castoriadis, Pietro Barcellona ed altri -, impegnati costantemente nel tentativo di restaurare il senso originario della democrazia. Se e' vero che molte di queste parole possono ancora suscitare delle reazioni nell'immaginario delle persone, se e' vero che in esse e' possibile rinvenire un'aspirazione che oltrepassa il loro mero statuto storico, io resto comunque piuttosto cauto. Ho sempre manifestato una certa riserva in relazione alla rivendicazione democratica e non perche' io non mi senta profondamente democratico. Cosi' come il socialismo si e' tradotto nel "socialismo reale" e lo sviluppo nello "sviluppo realmente esistente", la democrazia e' stata intrappolata nella storia reale dell'Occidente, quindi della democrazia parlamentarista occidentale. Le societa' africane hanno dei funzionamenti molto piu' democratici delle nostre societa', ma non si sono mai pensate attraverso questa concezione della democrazia.
Anche rispetto al concetto di liberta', sono giunto alla conclusione che in Africa l'individuo abbia un posto ben piu' importante rispetto a quello riconosciutogli realmente nelle nostre societa'. La maggior parte delle comunita' tradizionali producono socialmente delle "persone", attraverso una lunga stagione formativa scandita da rituali d'iniziazione. Presso i Senoufo, ad esempio, questa dura ventuno anni e si sviluppa in tre fasi – la primaria, la secondaria e la superiore. Il risultato e' la produzione di personalita' straordinarie, armate per affrontare degnamente le sfide della vita, portatrici dei valori della propria etnia e al contempo di una peculiarita' irriducibile al gruppo d'appartenenza. Non e' un caso, del resto, che l'Africa mostri questa straordinaria capacita' di dissidenza nel processo di appiattimento planetario: la forza di personalita' del Senoufo gli permette di sfidare le sollecitazioni del sistema occidentale, di disprezzare il denaro, di opporre altri valori, poiche' egli ha una rotta da seguire nella sua vita.
Nelle nostre societa', al contrario, l'individuo e' completamente isolato in un sistema che manipola il suo immaginario tramite la pubblicita' e la propaganda: il suo comportamento tradisce un conformismo assoluto, un'obbedienza supina a tutte le mode. Gli italiani ieri hanno votato in massa per Berlusconi, oggi votano in maniera altrettanto compatta per la sinistra: questo significa che non sanno piu' chi sono, che cosa vogliono.
Il mito occidentale dell'individuo autonomo e onnipotente e' una grande fandonia: l'individuo nelle nostre societa' e' una pecora in mezzo al gregge.
– Onofrio Romano: Le vostre analisi si concentrano sempre sugli estremi: l'Occidente da un lato, l'Africa dall'altro. Qui nel Mezzogiorno d'Italia, come in molte altre regioni del pianeta, ci ritroviamo in una situazione ibrida, in cui modernita' e tradizione si fondono in sintesi nient'affatto virtuose, che attingono spesso al peggio delle due forme. Succede cosi' che coloro i quali non vogliono consegnare totalmente il Sud al rullo compressore occidentale, si sentono sovente accusati di legittimare indirettamente fenomeni deleteri come la mafia, il lavoro nero e forme piu' o meno rinnovate di banditismo, di illegalita' diffusa, di comparaggio. Com'e' possibile uscire da questa strettoia?
– Serge Latouche: La modernita' e' innanzitutto un mito. Essa ha prodotto senza dubbio una rottura, ma questa non e' stata percepita come tale dalla gente comune, in quanto la storia delle societa' appare sempre come un continuum. Negli Stati Uniti la realta' e' stata spinta il piu' lontano possibile nella direzione del mito. Si e' tentato di realizzarlo fin nei minimi dettagli attraverso la sigla di un contratto sociale tra presunti individui liberi ed eguali, che hanno deciso di fondare una societa' e di darsi delle leggi (secondo il modello di Hobbes e di Locke).
In compenso, se si guarda all'America Latina, si ha a che fare con una societa' moderna o con una societa' tradizionale? Vi e' uno straordinario meticciato, vi coabitano indiani, africani, spagnoli, i quali non possono dirsi ne' moderni ne' tradizionali, ne' occidentali ne' estranei all'Occidente. In questo senso si puo' davvero affermare che siamo tutti africani (sebbene alcuni lo siano piu' di altri). E' vero che i meridionali non si sentono completamente americani, tuttavia, restano, solo per fare un esempio, sposati con l'automobile (a Bari questo e' particolarmente evidente). Tutti desideriamo beneficiare degli apporti della modernita' e della tecnica; e' diventato un dovere, una seconda intima natura, ma al contempo vorremmo preservare i valori dell'onore e della solidarieta'. Sono problemi che i popoli devono risolversi in maniera autonoma. Ho sempre sostenuto di non avere soluzioni per gli africani, non posso dire adesso di avere soluzioni da proporre agli italiani del Sud: spetta a loro imboccare una via originale tra l'adesione implicita e imprescindibile alla modernita' e le risorse della tradizione. Spetta a loro inventare una forma di oltrepassamento, di postmodernita'.
– Onofrio Romano: Al tentativo d'inventare questo oltrepassamento, sta lavorando da alcuni anni, almeno a livello intellettuale, il suo amico pugliese Franco Cassano (i saggi raccolti ne Il pensiero meridiano stanno riscuotendo una vasta eco). Lei crede ad un'alterita' meridiana?
– Serge Latouche: No. Apprezzo moltissimo gli scritti di Franco Cassano, ma se dicessi che ci credo mentirei. Penso che esista effettivamente una "sensibilita' meridiana", che questa possa spiegare molti atteggiamenti e tradursi in scelte individuali coerenti. L'idea di una reale alterita' meridiana mi sembra pero' eccessiva.
– Onofrio Romano: Ancora alla fine degli anni Ottanta le vostre idee erano pressoche' tacciate d'eresia. Oggi conoscono una larga diffusione, per lo meno in alcuni ambienti intellettuali e della societa' civile. Cio' che mi sorprende, tuttavia, e' che l'adesione alle sue categorie interpretative non si traduce quasi mai in un coerente mutamento di prospettiva e, ancor meno, in un mutamento di prassi. Un esempio per tutti. Guglielmo Minervini ha scritto recentemente un piccolo saggio sulla cittadina meridionale di cui e' sindaco (Molfetta). Egli denuncia vigorosamente i disastri provocati nel corso del secolo dalla modernita' e dallo sviluppo, salvo poi, una volta arrivati al sodo, cioe' alle cose da fare, reclamare per la citta' "una politica di rilancio dello sviluppo produttivo", "l'integrazione coerente di tutti gli strumenti di pianificazione", "la transizione verso un modello comunitario civile… non piu' feudale ma moderno", ecc. La buona modernita' contro la cattiva modernita', al solito. Come spiega questo scarto ricorrente?
– Serge Latouche: Molte persone, specie quelle che lavorano nel campo dello sviluppo, dopo aver letto i miei libri, dopo aver assistito alle mie conferenze, ne concludono entusiasticamente che, ad onore delle analisi tracciate, occorrerebbe lavorare alla costruzione di uno sviluppo alternativo. Ed io puntualmente mi metto le mani nei capelli. E' vero, a volte mi sento malcompreso, ma non ho mai pensato che questo tipo d'analisi dovesse sfociare immediatamente su delle posizioni o dei cambiamenti concreti: il ruolo degli intellettuali e' di apportare un'illuminazione, le persone ne fanno poi cio' che vogliono. Negli anni Ottanta, si puo' dire che nessuno accettasse la critica dello sviluppo da me condotta. Oggi e' diventata persino banale, ma cio' non vuol dire che si sia abbandonato questo tipo d'immaginario. Io confido, piuttosto, nei cambiamenti sotterranei, sottili e il cui impatto va verificato a lungo termine. La storia ci dira'.
C'e' da aggiungere, ad onor del vero, che quando si fa un'analisi del movimento storico di uniformazione planetaria e dei misfatti dello sviluppo si obbedisce ad un'etica della convinzione, ma quando abbiamo da gestire la nostra vita o quella degli altri (come nel caso del buon sindaco di Molfetta) entra in gioco l'etica della responsabilita': occorre trovare la porta stretta tra le convinzioni e le posizioni concrete, quindi operare necessariamente dei compromessi se si vogliono cambiare le cose, perche' il mondo non si modellera' mai secondo i nostri desideri. Si vive, malgrado tutto, in una realta' determinata e bisogna viverla nella maniera migliore. L'importante e' non tradire i propri ideali, non passare, vale a dire, dal compromesso alla vera e propria connivenza.
Da "Ora locale", 20 novembre 1997