Stefano Di Ludovico – Ivan Illich e la modernità quale “pervertimento” del Cristianesimo

Nel 1988, nonostante la notoria diffidenza verso le moderne forme della comunicazione di massa, Ivan Illich accetta di rilasciare una serie di interviste a David Cayley, giornalista della Canadian Broadcasting Corporation e suo grande estimatore. Da tali interviste presero forma prima un ciclo di trasmissioni radiofoniche trasmesse dalla Cbc l’anno successivo, poi, nel 1992, un testo che, con il titolo Conversazioni con Ivan Illich. Archeologo della modernità, fu pubblicato due anni dopo in Italia dalla casa editrice Elèuthera. Dato l’esito felice di quella prima esperienza ed il legame sempre più stretto stabilitosi tra i due, tra il 1997 e il 1999 Cayley ed Illich registrarono una nuova serie di interviste, sempre mandate poi in onda dalla radio canadese, la cui trascrizione costituisce il contenuto del testo in oggetto, pubblicato in Italia dall’editore Quodlibet con il titolo Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità. Viste le tematiche affrontate da Illich in queste interviste, così come gli anni in cui furono rilasciate – gli ultimi anni di vita del pensatore di origini dalmate, quando le sue opere principali erano ormai da tempo già state tutte pubblicate -, questi testi rappresentano un po’ il bilancio definitivo di una riflessione sviluppatasi nell’arco di oltre quarant’anni, e, per certi versi, il testamento stesso dell’autore, che sarebbe scomparso di lì a pochi anni, precisamente il 2 dicembre 2002 a Brema.

 

La pubblicazione della Quodlibet rappresenta altresì un ulteriore segno della rinascita dell’interesse attorno alla figura ed al pensiero di Illich, testimoniata dalla recente ripresa di pubblicazioni di suoi scritti, dopo che, chiusa la parentesi costituita dagli anni settanta e ottanta, quando le sue provocatorie ed originali posizioni circa i falsi miti della modernità avevano suscitato una vasta eco nonché accese polemiche anche nel nostro paese, il suo nome era caduto nel dimenticatoio e le sue opere, sebbene a suo tempo edite da case editrici di larga diffusione, finite tra quelle esaurite senza prospettiva alcuna di ripubblicazione. Del resto questa è la sorte che la società del “pensiero unico” riserva solitamente ai pensatori non-conformisti, agli intellettuali inclassificabili secondo le etichette e le categorie del “politicamente corretto”: se la novità rappresentata dalle loro “eretiche” tesi può garantire un certo successo, sono anch’essi lanciati sul mercato, ma solo il tempo necessario a che la diffusione di quelle tesi ne assicuri i meccanismi di riproduzione senza far troppi danni. Sorte toccata perciò anche ad Ivan Illich: quale pensatore più difficilmente etichettabile e classificabile di lui? Ordinato sacerdote nel 1951, nel 1969 rinuncia all’esercizio pubblico del sacerdozio in seguito al “processo” intentato a suo carico dalla Congregazione per la Dottrina della Fede: Illich era reo di aver preso duramente posizione contro l’attività missionaria della Chiesa nei paesi del Terzo Mondo, attività che, assecondando l’ideologia “sviluppista” delle agenzie umanitarie e degli organismi internazionali, si rendeva complice dello sradicamento delle culture indigene e quindi del processo di omologazione culturale in atto a livello planetario. Pericoloso “sovversivo” per le gerarchie ecclesiastiche e gli ambienti conservatori, Illich, che nella denuncia dei malsani processi di omologazione aveva osato mettere sul banco degli imputati, accanto alla Chiesa, l’istruzione di massa e l’eguaglianza tra i sessi, per gli ambienti progressisti e di sinistra altro non era che un inguaribile quanto insopportabile “reazionario”.  Non c’è da meravigliarsi, così, che anche la rinascita dell’interesse verso questo “inattuale” del pensiero sia confinata, per lo più, ad ambienti e case editrici di nicchia che, coraggiosamente, e tra l’indifferenza quasi generale degli ambienti della cultura e della comunicazione “ufficiali”, portano avanti idee e battaglie al di fuori degli schemi e dei pregiudizi consolidati.

In tale panorama, la novità rappresentata dal testo della Quodlibet è dovuta al fatto che esso, a differenza di ciò che era avvenuto in parte con la precedente trascrizione di interviste del 1992, non si limita alla semplice riproposizione di idee e contenuti già ampiamente approfonditi da Illich nelle sue opere principali, ma sviluppa una tesi che, seppur spesso adombrata in quelle stesse, Illich non aveva mai autonomamente trattato e chiarito nei suoi aspetti e risvolti di fondo. Per tale motivo, a dispetto del carattere informale ed estemporaneo costituito dalla forma intervista, quest’ultima pubblicazione può essere sicuramente annoverata tra i “classici” del suo pensiero, offrendo al lettore, per molti versi, non tanto una sintesi, quanto piuttosto un filo conduttore che riporta le intuizioni e le tematiche affrontate negli altri testi ad una matrice comune.

Volendo individuare un termine, un concetto, che meglio di ogni altro caratterizza i mali e le contraddizioni della modernità secondo la prospettiva di Illich, possiamo riferirci senz’altro a quello di “nemesi”, che Illich utilizzò innanzi tutto nel suo celebre Nemesi medica in relazione alla condizione della medicina del nostro tempo (1). La società moderna, infatti, nel suo complesso, sembra per Illich caratterizzarsi per il rovesciamento sistematico delle prospettive e degli obiettivi ripromessi, tradendo tutte le aspettative in una sorta di paradossale quanto perversa eterogenesi dei fini. La medicalizzazione progressiva dell’esistenza realizzata dalla società contemporanea proietta l’individuo in uno stato di perenne “malattia”; l’istruzione obbligatoria in uno stato di costante “ignoranza”; lo sviluppo indefinito dell’apparato tecnico-economico in uno stato di permanente “bisogno” (2). Proprio quest’ultimo, ovvero l’uomo come soggetto di “bisogni”, sembra essere il fondamento stesso della modernità. Più che l’“uomo economico”, è l’“uomo bisognoso”, secondo Illich, l’uomo del mondo moderno, di cui quello economico è soltanto una variante. Il mondo moderno nasce quando l’uomo, nella sua astratta generalità, inizia ad essere visto come soggetto di bisogni permanenti e mai appagabili in via definitiva, a partire dalla presunta scarsità di risorse generali disponibili; bisogni che l’insieme delle istituzioni all’uopo costituite sarebbe chiamato progressivamente a soddisfare. Una concezione, questa, che per Illich non trova riscontro in alcuna civiltà del passato (3). Ed è proprio il metodo “genealogico” quello che più di ogni altro caratterizza l’analisi e la riflessione di Illich, permettendogli di sfatare molti dei miti sui quali si fonda il nostro tempo. Perché è solo lavorando con gli strumenti dell’“archeologo”, solo riportando alla luce l’origine di idee e concetti i cui significati noi diamo per scontati che è possibile scovarne la genesi tutta moderna, smascherandone così la presunta universalità e validità atemporale. In questo modo, grazie a tali ricostruzioni, Illich ci ha mostrato – o ci ha indicato la via per ulteriori ricerche – come termini quali “salute”, “istruzione”, “sviluppo” o “bisogno” in altre epoche avessero un significato completamente diverso da quello attuale, o erano addirittura assenti dal vocabolario. E se siamo capaci di questo sguardo “genealogico”, di proiettare sul mondo una luce che supera gli angusti orizzonti del tempo attuale, allora è possibile accorgersi che la società che ha assicurato la salute a tutti è altresì quella in cui siamo tutti più “malati”, così come l’epoca dell’istruzione di massa e dell’uguaglianza tra i sessi è quella della più piatta omologazione culturale e antropologica, che ha azzerato ogni pluralità e diversità tra i generi, le culture e i gruppi umani (4).

Ebbene, nell’opera in esame, Illich sostiene che un mondo siffatto, ovvero il mondo moderno, nei suoi valori e presupposti essenziali, affonda le sue radici, come recita il titolo del libro, nel “pervertimento del Cristianesimo”, ovvero in quelle idee cristiane che stanno sì alla base della modernità come gran parte della riflessione occidentale ha ormai riconosciuto, ma, secondo Illich, in un’ottica stravolta rispetto al loro autentico significato. La “nemesi” fondamentale, quindi, sembra verificarsi a partire dallo stravolgimento del messaggio cristiano delle origini; stravolgimento foriero di mali incalcolabili, secondo l’antico detto, che Illich fa suo, per cui corruptio optimi pessima: la corruzione del meglio è il peggio. Uno stravolgimento a cui comunque, secondo Illich, il messaggio originario di Cristo era potenzialmente aperto, così come lo è ogni etica di tipo universalistico, e che ha finito per imporsi in Occidente come visione dominante.

Per illustrare e chiarire al meglio questa tesi, Illich ricorre ad una sua particolare lettura della parabola del buon Samaritano. Il fondamentale e decisivo interrogativo a cui tale parabola intende dar risposta è come noto il seguente: “Chi è il mio prossimo?” Per Illich, le diverse possibili risposte che si sono date a tale domanda hanno deciso le sorti del Cristianesimo e dell’Occidente tutto, fino ai suoi esiti moderni. Se per Illich la rivoluzione del messaggio cristiano sta nell’assoluta libertà di scelta lasciata al singolo nella determinazione del proprio “prossimo”, libertà che spezza tutti i tradizionali legami di sangue, di stirpe o di cultura (per cui “il mio prossimo – afferma Illich riprendendo le parole del Vangelo – è chi decido io”), ben presto si è andata ad affermare una diversa lettura, per la quale il “prossimo” è identificato con l’astratta umanità, con la generica società, verso cui ognuno avrebbe il dovere di sentirsi impegnato. Da qui il sorgere della Chiesa quale apparato burocratico-assistenziale, istituzione di beneficenza a carattere universalistico, volta a garantire il “benessere” dell’umanità, come si sviluppa nel Medioevo soprattutto a partire dalla fine del XI secolo, e che per Illich anticipa la nascita dello Stato moderno come anche delle istituzioni sovrannazionali del mondo contemporaneo. In base a tale prospettiva, l’uomo, da essere libero di determinare autonomamente il proprio destino così come il “prossimo” con cui condividere le proprie scelte, inizia ad essere visto come soggetto di per sé incapace di badare e bastare a se stesso, strutturalmente “bisognoso” dell’aiuto e del soccorso degli “altri”; altri che si sentono in dovere, e quindi in diritto, di fissare le modalità ed i contenuti atti al soddisfacimento di tali presunti bisogni. “Col messaggio cristiano – afferma Illich – […] amare l’altro, amore, sguardo e conoscenza sono diventati possibili in un orizzonte completamente nuovo. Ma esiste anche un nuovo pericolo: il tentativo di gestire, di assicurare, di garantire questo amore con la sua istituzionalizzazione, sottomettendolo a legislazione, trasformandolo in legge, e proteggendolo mediante la criminalizzazione del suo contrario” (5). Ed è proprio tale “istituzionalizzazione” dell’amore e della carità ad aver prevalso, quando la libera scelta del Samaritano venne trasformata in un “dovere”, in una “legge”, ed ogni condotta difforme in un’infrazione da sanzionare, aprendo così le porte alla filantropia di Stato, alle cure ed all’istruzione obbligatorie proprie della società moderna: “la nuova possibilità di porci personalmente l’uno di fronte all’altro ha prodotto, quale sua perversione, una vasta architettura di istituzioni impersonali che pretendono tutte, in un modo o nell’altro, di prestare aiuto. I grandi motori che mettono in movimento il nostro mondo – l’istruzione, la sanità, come lo sviluppo economico e tecnologico – derivano tutti, in ultima analisi, da una cooptazione della promessa di libertà del Vangelo. Gli uomini di oggi possono vivere senza fede, ma vivono nondimeno dentro all’involucro di una fede tradita” (6).

In tal modo, quello che doveva essere un ideale di libertà incondizionata si è trasformato nell’esproprio di ogni capacità di scelta autonoma da parte dell’individuo: come la Chiesa si considerò l’unica autorità in grado di comprendere le effettive necessità dei fedeli e di determinare i mezzi atti a garantirne la “salvezza”, oggi le istituzioni moderne, con i loro apparati di “esperti”, si ritengono le uniche legittimate a conoscere i reali “bisogni” dei cittadini e ad offrir loro i “servizi” adeguati al loro soddisfacimento; bisogni che unitamente al correlativo bagaglio di “diritti”, prima dell’affermarsi di una simile mentalità, nessuno in realtà si era mai accorto di avere. All’interno di tale quadro di riferimento, anche in queste interviste Illich, come sempre nelle sue opere, ci offre acuti spunti di analisi e di riflessione intorno ad aspetti cruciali della modernità, sempre rischiarandoli attraverso lo sguardo “genealogico” e, dato il contesto, cercando di ricondurli a determinate letture ed evoluzioni della teologia cattolica medievale. Illuminanti appaiono così le pagine dedicate, tra le altre cose, ai temi della “strumentalità”, della “tecnica”, delle “immagini”, temi che Illich ritiene tra quelli fondamentali per comprendere il nostro tempo e la sua radicale alterità rispetto alle epoche del passato, superando i limiti della comune riflessione storico-filosofica che, quando si è accostata a problematiche del genere, ha sempre dato per scontato che simili concetti fossero sempre esistiti così come li concepiamo oggi.

La ricerca genealogica di Illich ci fa vedere, al contrario, come il concetto di “strumento”, nel suo significato attuale, ovvero come qualcosa di “neutro”, di distinto dallo scopo concreto per cui è stato concepito, e perciò illimitatamente disponibile per ogni scopo, sia un’idea che si è affacciata in Europa solo a partire dal Basso Medioevo; idea legata per Illich ad un certo pervertimento della concezione creazionistica biblica, secondo cui il mondo, in ogni istante della sua esistenza, sarebbe puramente contingente, in quanto prodotto della libera volontà creatrice di Dio. Quando, con la progressiva secolarizzazione di tale concezione, la volontà creatrice passò gradatamente dalle mani di Dio a quelle dell’uomo, ecco che la realtà fu vista come un semplice insieme di oggetti contingenti e quindi manipolabili a piacere dalla volontà umana. Dall’idea di kosmos, di un mondo in cui le cose sono disposte armonicamente secondo un ordine necessario, e dove il “bene” non può che essere inteso come ciò che si conforma a tale ordine, si passa al kaos di una realtà in cui gli oggetti non hanno alcun senso se non quello che l’arbitraria volontà manipolatrice dell’uomo dà loro. In tal modo, all’idea di “bene” subentrano i “valori”, realtà che trascendono il mondo stesso e in base a cui il mondo dovrebbe essere riplasmato, in modo sempre rinnovato e cangiante; perché i valori, in quanto tali, sono mutabili e rinnovabili a seconda dell’arbitrio umano, relativi e intercambiabili alla stessa stregua delle merci, che circolano e cambiano valore a seconda delle circostanze. “Il mondo in cui mi trovo – dice Illich – è in gran parte un mondo artificiale, prodotto tecnicamente, sempre più lontano dalla creazione, un mondo nelle mani di esperti che, con una sorta di orgoglio trascendente, presumono di gestirlo” (7); un mondo in cui “con la crescente intensità di strumentazione, va di pari passo […] una mancanza di attenzione per ciò che tradizionalmente si chiamava gratuità, atto non finalizzato, compiuto perché bello, buono, giusto, e non perché inteso a conseguire, a costruire, a trasformare, a gestire qualcosa. Alla fine dell’età moderna è diventato estremamente difficile parlare di cose che non tendono a un fine, ma sono gratuite e buone” (8).

L’avvento dell’età della tecnica segna quindi per Illich la fine dell’antica concezione della “strumentalità”, dove lo strumento era appunto un medium, ciò che mediava tra l’uomo e il mondo; in tal modo esso restava un qualcosa di separato e distinto da colui che lo usava, che manteneva così nei suoi confronti una certa distanza. Tale distanza viene annullata nell’attuale mondo della tecnica, che per Illich è definito al meglio dal concetto di “sistema”, non a caso uno dei termini più usati oggi per connotare la società contemporanea e le strutture che la costituiscono. In un “sistema” non c’è più distanza, ovvero distinzione, tra lo strumento e il suo operatore, essendo entrambi parte del sistema medesimo. Nell’idea di sistema l’operatore è esso stesso uno strumento, che unitamente agli altri concorre al perseguimento dei fini fissati dal sistema. Venendo meno la distinzione tra operatore e strumento, tra mezzo e fine, l’intero mondo è visto come una “macchina” il cui funzionamento diventa fine a se stesso. Ed è così che oggi il computer è diventato “la principale metafora della consapevolezza di sé e del mondo. Come la ruota suggeriva, una volta, la ruota del destino, e il libro suggeriva il libro della natura, così oggi il computer suggerisce un’immagine cibernetica del mondo: il mondo come rete, il mondo come ecosistema, il mondo come testo genetico. E questa immagine cambia dalle fondamenta la consapevolezza di sé degli esseri umani. Non stiamo più con un piede fuori del mondo come utilizzatori di strumenti, lettori del libro della natura, persone con un destino eterno. Siamo diventati parte del sistema” (9). Tale trasformazione ha per Illich mutato l’uomo e le relazioni umane fin nella loro sfera fisiologica, corporale: “la concezione sistemica […] si allontana dal vecchio corpo dei sensi in direzione di un ambito puramente teorico, inaccessibile ai nostri sensi. Questa disincarnazione […] rappresenta una grave minaccia per i rapporti personali, perché […] solo come persone che possono soffrire, come persone dotate di un corpo, noi possiamo volgerci l’un l’altro faccia a faccia” (10).

La “disincarnazione” dei rapporti umani determinata dalla strumentalità tecnica è altresì conseguenza della concezione dell’immagine e della percezione visiva proprie della modernità, concezione che secondo Illich è possibile ricondurre, in qualche modo, allo stravolgimento dell’originaria dottrina cristiana delle immagini sacre così come si impose in Occidente con la fine delle lotte iconoclastiche che avevano lacerato la cristianità nell’Alto Medioevo. Oggi, per Illich, nella cosiddetta “società dell’immagine”, l’uomo non ha più il mondo davanti a sé; egli non è più in contatto con la realtà, con gli altri, con il suo stesso corpo, ma con un’immagine astratta e virtuale di essi, l’immagine proiettata di continuo nella sua vita dai moderni mezzi di comunicazione. Questi mezzi non si limitano a manipolare la realtà, ad offrircene un’immagine distorta: essi, oggi, sono la realtà, in quanto unica lettura disponibile di essa. E che il mondo possa essere rappresentato, conosciuto e vissuto attraverso la sua immagine – come la realtà divina attraverso una sua raffigurazione  – è anch’essa un’idea recente, che si rende possibile a partire dalla stessa teoria moderna dell’ottica. Anche l’atto del vedere, infatti, ha per Illich una storia, che deve essere indagata per comprendere la moderna concezione dell’immagine e della società che su di essa si fonda. Se per l’ottica moderna sono le cose che vediamo, trasmesse dai raggi luminosi, a penetrare nei nostri occhi, gli antichi, al contrario, “concepivano la visione come procedente dall’interno verso l’esterno, come qualcosa che fuoriusciva dall’occhio attraverso la proiezione di un raggio visivo. Nell’antichità classica lo sguardo era un’attività con la quale la mia carne si spostava alla carne o, più precisamente, ai colori degli oggetti su cui si volgeva” (11). In tal modo lo sguardo veniva concepito come un’azione intenzionale, volontaria, in quanto tale addestrabile e raffinabile al pari di ogni altra azione umana, e non come semplice ricezione passiva di ciò che ci viene dato dall’esterno. Secondo Illich solo la moderna concezione del vedere ha reso possibile l’uso perverso e devastante che dell’immagine ha fatto il mondo moderno: “il passaggio dallo sguardo che si protende verso l’esterno all’occhio concepito come una camera obscura è una precondizione perché sia possibile concepire l’immagine […] come un espediente didattico per conoscere la realtà. Nell’ottica moderna come scienza della luce, si può fingere di creare un facsimile col quale l’artista, o il suo committente, trasmetta a te, per mezzo dei tuoi occhi, doxa e dogma: conoscenza. Non si può usare un facsimile come sostituto della realtà là dove è lo sguardo a protendersi verso l’esterno” (12). E’ così che l’uomo moderno ha sostituito il mondo con un suo “facsimile”, una sua immagine, nell’illusoria convinzione che questa possa informarlo e renderlo edotto circa la vera natura di quello. Il divieto delle immagini sacre che accomuna diversi culti religiosi ha proprio questo scopo, ovvero di prevenire una simile degenerazione: “il divieto vetero-testamentario delle immagini e ancor oggi quello dell’Islam – afferma Illich – […] ha fondamentalmente lo scopo di non farmi considerare il tuo volto come un’immagine, non identificarlo […] col tuo ritratto o con la tua fotografia, o con ciò che io interiormente immagino di te, ma di lasciarmi costantemente vulnerabile di fronte a ciò che il guardarti in carne e ossa mi rivelerà di me stesso. […] Il divieto dell’immagine è, al tempo stesso, un invito ad essere spietato con me stesso nel cercare me stesso in quel che trovo attraverso i tuoi occhi. […] Una volta concepito lo sguardo come quello di una videocamera; una volta acquisita la capacità di parlare della visione satellitare del mondo […]; una volta acquisita l’abitudine di vedere dinanzi ai miei occhi cose che per la loro propria natura non sono nell’ordine del visibile […], noi perdiamo sempre più l’abitudine di fissare il nostro sguardo su ciò che cade direttamente sotto i nostri occhi” (13).

Posto di fronte a un mondo che sembra non appartenergli più, dove il virtuale ha sostituito il reale ed è venuto meno ogni scopo che non sia quello della riproducibilità tecnica volta alla soddisfazione di bisogni che il sistema stesso crea indefinitamente, l’uomo contemporaneo avverte una crescente sensazione di spaesamento e di impotenza. La fede che ha ispirato la modernità, la convinzione di aver trovato la chiave per trasformare il mondo, di programmare il futuro in termini di sicurezza garantendo libertà e benessere tramite la loro “istituzionalizzazione”, sembra ormai essere entrata in crisi e la realtà appare sempre più come un qualcosa di caotico ed ingestibile, che non ispira più alcuna fiducia. “La credibilità di un mondo costruito in base alle idee di cittadinanza, responsabilità, potere, uguaglianza, bisogni-rivendicazioni-diritti – afferma Illich – la credibilità di questi ideali ai quali vale la pena di consacrare la propria vita, sta declinando […] molto rapidamente. La maggior parte delle persone ritiene questo un serio pericolo […]. Io voglio suggerire la possibilità di vederlo come la fine di un’epoca, proprio come l’Impero romano ai tempi di Agostino” (14). E se l’ideologia dei “bisogni” e dei “diritti”, l’ideologia che crede di assicurare l’“amore” attraverso lo Stato come ha creduto di assicurarlo la Chiesa nel corso dei secoli “trova ancora espressione con i bombardamenti Usa su Milosevic, su Gheddafi o sull’Iraq, come riconoscimento dei diritti umani dei loro cittadini” (15), Illich ci invita, tramite la sua “archeologia”, a scavare più a fondo dentro le contraddizioni ed i paradossi del nostro tempo, perché “solo nello specchio del passato diventa possibile riconoscere la radicale alterità degli assiomi moderni” (16). Così, grazie alla capacità di prendere le distanze, la capacità di straniamento, possiamo ancora cogliere e far risaltare le differenze, le rotture che nella storia si sono determinate, facendo riemergere significati perduti e sentieri interrotti, come quelli indicatici dal Samaritano, per cui l’amore è un dono gratuito che non soccorre alcun bisogno e non si aspetta, o pretende, garanzie o assicurazioni di sorta. Questo scavo, questa capacità, rappresentano gli strumenti più preziosi per superare quella sensazione di disorientamento e di sfiducia che ci avvolge tutti e, in un’epoca che volge al termine senza che nuove strade sembrano ancora delinearsi con nettezza, ci consentono di riappropriarci quanto meno di uno sguardo libero e disincantato per descrivere e cogliere più adeguatamente la nostra condizione. Il rischio, altrimenti, è di rimanere per sempre invischiati tra le maglie di un mondo dove “non solo abbiamo perduto il senso del bene, di ciò che si confà, ma abbiamo perduto anche qualsiasi modo di riconoscere questa perdita stessa” (17).

1 Cfr. IVAN ILLICH, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano, Mondadori, 1977.
2 Tali tematiche sono sviluppate, rispettivamente, in Nemesi medica. L’espropriazione della salute, cit., Descolarizzare la società, Milano, Mondadori, 1972, Per una storia dei bisogni, Milano, Mondadori, 1981.
3 Per l’analisi del concetto di “bisogno”, vedi soprattutto Per una storia dei bisogni, cit., e Nello specchio del passato, Como, Red, 1992.
4 La critica del moderno concetto di uguaglianza tra i sessi è sviluppata da Illich soprattutto in Il genere e il sesso. Per una critica storica dell’uguaglianza, Milano, Mondadori, 1984.
5 IVAN ILLICH, Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Macerata, Quodlibet, 2008, p.17.
6 Ibidem, p.27.
7 Ibidem, p.68.
8 Ibidem, p.48.
9 Ibidem, p.91.
10 Ibidem.
11 Ibidem, p.53.
12 Ibidem, p.61.
13 Ibidem, p.66.
14 Ibidem, p.95.
15 Ibidem, p.93.
16 Ibidem, p.68.
17 Ibidem, p.76. 

Redazione