Oggi tutti parlano di mondializzazione: un fenomeno basilare del nostro tempo, la cui importanza è ulteriormente accresciuta dal fatto che in genere lo si considera inevitabile. Essa sembra infatti imporsi come un movimento di trasformazione del mondo sul quale nessuno è più in grado di intervenire, una sorta di grande ondata che si staglia, irreversibile, sull’orizzonte di almeno varie generazioni. Gli anglosassoni preferiscono parlare di «globalizzazione», ed è interessante sapere che questo concetto è stato messo in circolazione oltre Atlantico da alcuni strateghi del marketing di massa che, a partire dagli anni Ottanta, hanno cominciato a parlare di «prodotto globale» o di «comunicazione globale», facendo in tal modo illusione al principio secondo cui la stessa merce deve, in virtù della stessa pubblicità, raggiungere quanto prima il maggior numero possibile di clienti potenziali, non adattandosi alle diverse culture bensì veicolando una cultura globale.
Qual è il significato esatto che va attribuito al termine «mondializzazione»? Malgrado le numerose opere pubblicate di recente sull’argomento, la nozione rimane confusa. Per gli uni, la mondializzazione è prima di tutto un fenomeno di superamento dello Stato nazionale. Per altri, essa definisce un nuovo tipo di contrapposizione tra il capitale e il lavoro, indotto dalla finanziarizzazione del capitale, o esprime un nuovo spartiacque tra lavoro qualificato e lavoro non qualificato. Alcuni vi vedono l’irruzione nel commercio mondiale di nuovi attori provenienti dal Sud, nonché la strategia di globalizzazione delle società multinazionali, altri mettono l’accento sull’ampliamento degli scambi dovuto all’integrazione dei servizi nel commercio mondiale, ma anche sulla grande trasformazione innescata dalla rivoluzione informatica. A quale di queste interpretazioni occorre dare priorità?
A nostro avviso, è opportuno innanzitutto distinguere tra mondializzazione culturale e mondializzazione economica e finanziaria. Si tratta di due fenomeni che si sovrappongono in larga misura ma non si confondono l’uno con l’altro.
Una delle caratteristiche più evidenti della mondializzazione economica è legata all’esplosione degli scambi e dei flussi finanziari. Il commercio internazionale cresce oggi più in fretta delle produzioni nazionali (PIL). Nel 1990, la percentuale degli scambi internazionali ammontava già al 15% del PIL mondiale; in soli cinque anni, fra il 1895 e il 1990, le esportazioni mondiali sono aumentate del 13,9%. Nel trentennio 1960-1989, gli scambi di merci sono raddoppiati, mentre i flussi di capitali si moltiplicavano per quattro.
Contemporaneamente, la natura dei flussi finanziari si è modificata: il continuo sviluppo degli investimenti diretti all’ estero è stato affiancato da un’ esplosione dei movimenti di capitale a breve termine. Questi investimenti diretti aumentanO, a loro volta, più velocemente della ricchezza mondiale: il loro .tasso di crescita annua è passato dal 15% del periodo 1970-1985 al 28% del 1985.1990, periodo durante il quale essi sono quadruplicati in volume, passando dai 43 miliardi di dollari del 1985 ai 167 miliardi del 1990. Si assiste così all’avvento di un’economia globale, con una parte crescente del prodotto nazionale lordo direttamente dipendente dal commercio estero e dai flussi di capitali internazionali.
L’altra grande caratteristica è il ruolo crescente dei computers e dell’ elettronica. Riducendo il costo delle transazioni a lunga distanza e consentendo di conoscere in tempo reale in qualunque località del globo le informazioni che concorrono alla formazione dei prezzi, la cui conoscenza un tempo richiedeva, in alcune piazze finanziarie, intere settimane, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione consentono ormai una mobilità senza precedenti dei flussi finanziari. Sulle borse interconnesse, il sole non si corica più: i capitali si spostano alla velocità della luce da un capo all’altro del globo, alla ricerca del miglior esito dell’investimento. Si noti che questa globalizzazione è esclusivamente finanziaria: il mercato dei capitali è infatti l’unico in cui l’arbitrato istantaneo abbia un senso. Grazie alla mobilità istantanea resa possibile dall’interconnessione informatica, le transazioni sul mercato dei cambi hanno conosciuto una crescita fantastica, e raggiungono oggi i mille miliardi di dollari al giorno. Queste somme provengono dalle disponibilità bancarie, dalle tesorerie delle ditte multinazionali, dalla massa dei capitali flottanti e dalle somme detenute da società finanzia, rie espressamente costituite per dedicarsi a tale esercizio. Il fondamento del sistema risiede negli sbalzi dei cambi, che da un giorno all’altro, o addirittura da un’ ora all’ altra, possono rappresentare guadagni di plusvalore considerevoli, assai superiori a quelli che derivano dalle attività industriali o commerciali classiche. In funzione dell’anticipazione dei tassi di cambio, l’informatizzazione consente lo spostamento virtuale immediato di notevoli masse di capitali, che sfuggono quasi completamente alle banche centrali. Per definire il fenomeno si è parlato, con ragione, di «economia-casinò». Ne risultano un’accresciuta instabilità monetaria ed una tendenza dei tassi d’interesse ad allinearsi verso l’alto ai maggiori rendimenti assicurati dalla valorizzazione mondiale del capitale. Un certo numero di studiosi collocano il punto di partenza della mondializzazione agli inizi degli anni Settanta, segnati dal duplice choc petrolifero e dalla crisi del sistema internazionale dei cambi. È infatti in quel periodo che si verificano il rallentamento della produttività e del tasso di crescita nei paesi industrializzati, una progressiva saturazione della domanda dei classici beni di consumo durevoli, dei quali il rinnovamento diventa la componente principale, e l’appesantimento della costrizione finanziaria esterna, mentre l’abbandono dei cambi fissi e l’esplosione del deficit dei pagamenti americani producono la moltiplicazione dei prodotti finanziari puramente speculativi.
Il processo prosegue negli anni Ottanta con l’esplosione del debito pubblico, che favorisce lo sviluppo di un ampio mercato di capitali, e soprattutto con l’ondata di deregulation che, partita dall’America reaganiana, si estende rapidamente all’insieme dei paesi sviluppati. Gli Stati cominciano allora a battere in ritirata dinanzi alla folgorante ascesa della dinamica di integrazione finanziaria sopprimendo barriere doganali, intermediazioni e regole: provvedimenti che, liberalizzando completamente il mercato dei capitali, permettono di effettuare arbitrati a livello mondiale e aprono il mercato dei crediti di Stato e delle grandi società agli operatori esteri. Nel frattempo, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, la scomparsa quasi improvvisa del sistema sovietico e il passaggio brutale dei paesi comunisti al sistema del capitalismo selvaggio si traduce nell’irruzione di altri due miliardi e mezzo di persone nel mercato mondiale, diffondendo l’illusione di un pianeta unificato, in cui esisterà un unico blocco.
Questa serie di eventi deve essere tuttavia collocata all’interno di una cronologia molto più lunga. Lungi dal rappresentare un’aberrante deviazione dal sistema capitalista, o dal poter essere interpretata come una novità radicale o addirittura come il risultato di un complotto, la mondializzazione si situa infatti nel solco di una dinamica secolare caratteristica della natura medesima del capitalismo. «La tendenza a creare un mercato mondiale è inclusa nel concetto stesso di capitale», osservava Karl Max già nel secolo scorso. Da questo punto di vista, Philippe Engelhard non ha torto quando scrive che «la mondializzazione certamente non è che l’ultimo fuoco d’artificio dell’esplosione della modernità occidentale». Essa consacra in effetti il compimento di tutta una serie di metamorfosi che hanno ritmato, lungo l’intero corso della sua storia, un’economia mercantile strutturata sin dall’origine dall’apertura degli scambi in un clima di individualismo e di universalismo fondato sulla metafisica della soggettività e sulla valorizzazione del solo successo materiale. Comincia con la fioritura del commercio di lungo corso all’epoca delle città-Stato italiano, nel XIV secolo, e prosegue con le grandi scoperte e la rivoluzione industriale, e poi con la colonizzazione. Già fra il 1860 e il 1873, l’Inghilterra era riuscita a creare un abbozzo di sistema commerciale mondiale. Nel luglio del 1885, Jules Ferry dichiara dinanzi alla Camera dei deputati che « la fondazione di una colonia è la creazione di un mercato ». Alimentando la disintegrazione delle culture e delle società tradizionali africane e asiatiche, la colonizzazione favorisce la penetrazione dei prodotti occidentali e apre nuove succursali al commercio, prassi che sarà abbandonata solo quando si dimostrerà non più redditizia, cioè quando le colonie inizieranno a costare più di quanto in precedenza non avessero reso.
Anche l’istituzione del mercato è storicamente indissociabile da un vasto moto di internazionalizzazione degli scambi. Nella teoria economica classica, quale è enunciata nel XVIII secolo, già si esprime la convinzione che la libera circolazione dei beni e dei servizi sfocerà in una parificazione de sistemi produttivi e dei livelli di vita. Il capitalismo appare pertanto noma de sin dall’inizio. In questo senso, come nota Jacques Adda, la mondializzazione «non fa altro che restituire al capitalismo l’originaria vocazione transnazionale più che internazionale, che consiste nell’infischiarsene delle frontiere e degli Stati, delle tradizioni e delle nazioni, per assoggettare meglio ogni cosa all’unica legge del valore». Tuttavia, anche se è indiscutibile chI la mondializzazione rappresenta per vari versi solo una brusca accelerazione di un processo secolare, è altrettanto certo che essa presenta un certo numero di caratteristiche di novità, che possiamo rapidamente passare in rivista.Oltre alla rivoluzione informatica, di cui abbiamo già fatto cenno, oltre al fatto che, negli scambi internazionali, sono ormai i prodotti manifatturieri a predominare sulle materie prime, bisogna innanzitutto registrare la straordinaria autonomizzazione della sfera finanziaria rispetto alla produzione economica propriamente detta. La grande deregolamentazione borsistica degli anni Ottanta ha segnato l’avvento di un capitalismo che non prevalentemente industriale, bensì speculativo. Secondo alcune stime, la mas sa monetaria attualmente in circolazione nel mondo ha un valore quindici volte superiore a quello della produzione. Questa «bolla» finanziaria raccoglie fondi provenienti sia dall’economia privata che dall’economia pubblica e sociale, si tratti della gestione del debito pubblico degli Stati o dei fondi-pensione, ed impone logiche speculative e illegali: la droga e la corruzione diventano elementi strutturali del nuovo ordine economico.
Un altro fatto nuovo è la mercantilizzazione generalizzata. Le transazioni oggi investono settori in precedenza ad esse estranei. La cultura, i servizi: le risorse naturali, i prodotti della proprietà intellettuale entrano in regime di libero scambio. Il gioco del mercato agisce nel senso di una trasformazione di tutte le cose in valute. Quel che entra nel sistema come cosa viva ne esce come merce, prodotto morto. Ma soprattutto gli attori non sono più gli stessi. Ieri erano principalmente gli Stati. Oggi sono le società multinazionali a dominare gli investimenti e il commercio, mentre i mercati finanziari impongono le proprie regole e le banche controllano un settore finanziario sempre più slegato dall’economia reale. Si passa così da un mondo organizzato attor. no agli Stati nazionali ad un’« economia-mondo »strutturata da attori globali. Si tratta di una trasformazione essenziale. Ancora pochi decenni fa, gli Stati nazionali borghesi costituivano il contesto politico e sociale naturale di gestione dei sistemi produttivi nazionali. La concorrenza intercapitalistica si svolgeva fondamentalmente tra gli Stati. La caratteristica dominante del sistema capitalista era la sua territorializzazione, cioè il radicamento all’interno dei limiti di una nazione industriale. Il mercato, pur in espansione, era innanzitutto nazionale, e anche per le ditte dotate di filiali all’estero la centralità strategica dell’impresa-madre situata nella nazione di riferimento era un dato indiscusso. Infine, il Terzo mondo non era ancora entrato nel sistema industriale, ed esisteva un contrasto assoluto tra i centri industrializzati e le periferie.
Oggi, l’integrazione mondiale del capitale ha fatto esplodere i sistemi produttivi nazionali e ne ha avviato la ricomposizione come altrettanti segmenti di un sistema produttivo mondializzato. Le diverse componenti della produzione si disperdono ormai in un contesto spaziale lontano dalle origini geografiche dell’impresa, e talvolta persino indipendente dal suo controllo finanziario. I prodotti incorporano componenti tecnologiche di provenienza talmente varia che. non vi si possono più riconoscere né il contributo specifico di ciascuna nazione né la nazionalità della forza-lavoro impegnata nella produzione delle merci. Robert Reich fa notare ad esempio che, quando un abitante degli Stati Uniti acquista dalla General Motors un’automobile che paga 20.000 dollari, di questa cifra meno di 800 dollari finiscono a produttori americani. La mondializzazione produce quindi una riorganizzazione dello spazio planetario, che si contraddistingue in primo luogo per una deterritorializzazione generalizzata del capitale. Si passa da uno « spazio di luoghi » a uno « spazio di flussi », ovvero dal territorio alla rete. La rete non corrisponde più ad alcun territorio ma si colloca all’interno del mercato mondiale, emancipandosi da qualunque costrizione politico-statuale. Per la prima volta nella storia, lo spazio dell’economia si separa dallo spazio del politico. Questo è il senso profondo della mondializzazione.
Abbiamo parlato di imprese multinazionali. La comparsa di società industriali capaci di pensare subito il proprio sviluppo su scala planetaria e di mettere in pratica strategie mondiali integrate è infatti uno dei tratti più caratteristici della mondializzazione. Le società multinazionali sono imprese che realizzano oltre la metà della loro cifra d’affari all’estero. Nel 1970 se ne contavano 7.000. Oggi sono 40.000 e controllano 206.000 filiali, ma danno lavoro a solo il 3% della popolazione mondiale (ossia a 73 milioni di persone). Per farsi un’idea dell’importanza che hanno assunto, basta sapere che da sole hanno realizzato, nel 1991, un volume d’affari superiore alle esportazioni mondiali di beni e servizi (4.800 miliardi di dollari), che controllano direttamente o indirettamente un buon terzo del reddito mondiale, e che le 200 più importanti fra di esse monopolizzano da sole un quarto dell’attività economica mondiale. Si noti inoltre che quasi il 33% del commercio mondiale si svolge ormai tra filiali della stessa ditta e non fra ditte diverse. Queste imprese reti dispongono di risorse che sfidano l’immaginazione. Il volume di affari annuo della General Motors (132 miliardi di dollari) supera il prodotto nazionale lordo dell’Indonesia. Quello della Ford (100,3 miliardi di dollari) sopravanza il PNL della Turchia; quello della Toyota, il PNL del Portogallo; quello dell’Unilever, il PNL del Pakistan; quello della Nestlé, il PNL dell’Egitto. Queste società, la cui origine nazionale è diventata un riferimento meramente formale, hanno da tempo imparato a sostituire ad obiettivi di redditività minima obiettivi di massimizzazione dei ricavi finanziari, quali che siano le conseguenze sociali. Sono gruppi finanziari più preoccupati del controllo di mercati e brevetti che della produzione, che collocano la maggior parte dei profitti in valuta o in prodotti derivati invece di redistribuirli agli azionisti o investirli in attività che creino posti di lavoro. Essendo più ricche di parecchi Stati, non trovano difficoltà nel comprare uomini politici e corrompere funzionari.
Per fronteggiare la concorrenza, le ditte multinazionali hanno sviluppato una nuova strategia. Giacché i profitti tratti dalla produzione non trovano più sbocchi sufficienti negli investimenti classici, hanno dovuto trovare nuove destinazioni per l’eccedenza di capitali flottanti, onde evitarne quella svalutazione massiccia e brutale che si era verificata negli anni Trenta. La lotta per le fette di mercato le ha dunque spinte ad incorporare nella massa salariale mondiale una manodopera poco qualificata e debolmente remunerata, per godere di un vantaggio di costo assoluto. Mentre i paesi occidentali di un tempo si accontentavano di sfruttare il mercato interno dei paesi del Sud, trasferendone le attività artigianali nelle proprie industrie, le multinazionali riesportano verso i mercati occidentali prodotti assemblati o fabbricati sul posto a basso prezzo. La mondializzazione si realizza perciò attraverso il rimpatrio di una parte dell’attività economica nei paesi del Sud, una riorganizzazione planetaria del ciclo produttivo e la mobilitazione di una manodopera locale trasformata in lavoro salariato. Questa delocalizzazione, chi si è generalizzata a partire dagli anni Ottanta, non è altro che l’estensione riorganizzazione del rapporto salariale a livello mondiale, cioè un passo avanti verso la creazione di un mercato mondiale del lavoro. Va da sé che, in questa prospettiva, per drenare i profitti verso i centri di decisione incaricati della loro collocazione, si impone la libertà dei movimenti di capitali, processo che ha il duplice effetto di ridurre le capacità di accumulazione locale di contenere l’aumento del potere d’acquisto In parallelo, si assiste all’irruzione nel commercio mondiale di nuovi al tori provenienti dall’Asia e, in misura minore, dall’ America latina e dall’e impero sovietico. È un’altra novità. In passato, lo squilibrio dei costi salaria fra il Nord e il Sud si accompagnava in genere a sproporzioni nella produttività e nella qualità dei prodotti. L’emergere dei nuovi paesi industrializzati e la comparsa di multinazionali in alcuni paesi del Sud hanno radicalmente modificato questa situazione. Nel 1995 il reddito pro capite di Singapore ha già superato quello della Francia, e il fenomeno appare in via di intensificazione. Va rimarcato che il successo dei nuovi paesi industrializzati non depone affatto a favore della fondatezza delle tesi liberali “miracolo asiatico” getta infatti le radici prima di tutto in uno specifico potenziale culturale, nel quale anche il nazionalismo fa la sua parte, si tratti del Giappone, della Cina, della Corea o di Singapore, e si spiega inoltre con il volontarismo delle politiche industriali dei paesi in questione, i quali non solo non si sono allineati alla teoria dei vantaggi comparativi che avrebbe imposto loro di specializzarsi nelle produzioni per le quali avevano i costi relativi più bassi, senza preoccuparsi della domanda effettiva, ma al contrario si sono rivolti prioritariamente alle produzioni che sono oggetto di una forte domanda su scala mondiale.
La mondializzazione, beninteso, modifica la concorrenza fra le nazioni, perché, a partire dal momento in cui le imprese e i capitali sono liberi di spostarsi, la competitività delle imprese nazionali non si confonde più automaticamente con quella delle nazioni. Non vi è infatti alcun motivo per cui lo spazio transnazionale nel quale si muovono le grandi imprese debba coincidere con l’organizzazione ottimale degli spazi nazionali. La posizione di un paese nel mondo si definisce allora esclusivamente in virtù del livello di capacità competitiva delle sue produzioni sul mercato mondiale, essendo i suoi imprenditori tenuti a situarsi in tale mercato in funzione del miglior rapporto rendimento/rischio o vantaggio/costo. Al limite, non essendo più le nazioni nient’altro che punti nello spazio di produzione delle grandi imprese, la stessa nozione di vantaggio comparativo diventa obsoleta. L’unica risorsa a disposizione degli Stati è quindi il ripiegamento su politiche di pura competitività, a detrimento delle esigenze di coesione sociale. È esattamente quanto è accaduto in Europa dagli anni Ottanta in poi, prima sotto l’influenza delle teorie liberali applicate da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna, poi per effetto dei «criteri di convergenza» del trattato di Maastricht. Questo aggiustamento alle esigenze della mondializzazione ha assunto le forme che sappiamo: deregolamentazione e liberalizzazione generalizzate, priorità assegnata alle esportazioni sul mercato interno, privatizzazione delle imprese pubbliche, apertura agli investimenti internazionali, determinazione di prezzi e salari da parte del mercato mondiale, soppressione graduale degli aiuti e delle sovvenzioni, nonché riduzione delle spese accusate di frenare la competitività, come quelle destinate all’educazione, alla protezione sociale o alla difesa dell’ambiente. Uno dopo l’altro, gli Stati europei hanno adottato una politica rigidamente monetari sta, detta di deflazione competitiva, che consiste nel lottare contro l’inflazione grazie a tassi di interesse elevati ed ha avviato come risultato più evidente il rallentamento della crescita e l’aumento de la disoccupazione; nel frattempo, i capitali finanziari, meno tassati dei redditi da lavoro, partecipavano sempre meno alle spese generali della collettività.
La crisi del debito ha costretto nello stesso periodo i paesi del Terzo mondo a operare una correzione di rotta analoga: i programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fmi e dalla Banca mondiale hanno spinto la maggior parte di essi ad applicare le stesse ricette dei paesi industrializzati, con risultati ancor più catastrofici. Le organizzazioni internazionali sono state poste al servizio della mondializzazione. La funzione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale è quella di imporre la deregulation, di gestire il flottaggio delle monete e di assoggettare le economie del Terzo mondo all’imperativo assoluto del servizio del debito. Il G7 cerca di coordinare: politiche di gestione della crisi dei principali paesi sviluppati, senza affrontare i problemi di fondo; ma un ruolo del tutto particolare spetta alle organizzazioni incaricate della supervisione del commercio mondiale.
In passato, i negoziati commerciali fra Stati riguardavano un ristretto numero di prassi nazionali, come le quote di importazione, le tariffe doganali, il controllo dei movimenti di capitali, e via dicendo. Oggi, le poste in gioco nella diplomazia commerciale si proiettano molto al di là dei problemi di frontiere ed investono le istituzioni interne dei paesi: la struttura del sistema bancario, i termini del diritto di proprietà privata, la legislazione sociale, la regolamentazione in materia di concorrenza, di concentrazione o proprietà industriale. Il principio sottostante a questi negoziati è che il commercio internazionale deve associare nazioni che possiedono più o meno stesse istituzioni, che si muovono in direzione di regimi di proprietà e regi lamentazione uniformi, perlopiù ricalcati sulla legislazione statunitense e mirati a ridurre l’incertezza e i rischi degli investimenti diretti all’estero. A trarne giovamento è il potere negoziale delle società multinazionali, le quali acquisiscono una nuova capacità di pressione che permette loro di esigere sgravi regolamentari, salariali o fiscali per guadagnare redditività e competitività. In definitiva, «attraverso un numero crescente di negoziati locali. e internazionali, le società vengono poste di fronte a una richiesta di trasfomazione delle loro regole e istituzioni interne, onde conformarsi a un modello imposto dall’esterno». Le clausole del Gatt o dell’Organizzazione mondiale del commercio vanno pertanto ben al di là dei tradizionali obiettivi degli accordi di libero scambio; mirano per prima cosa a promuovere la mobilità del capitale. Gli accordi a cui conducono riguardano in realtà la libertà di circolazione dei capitali, mirando ad instaurare nuovi diritti di proprietà internazionali per gli investimenti all’estero e a creare nuove restrizioni ai regi lamenti nazionali e governativi. Come scrive Ian Robinson, «gli accordi di libera circolazione dei capitali possono essere intesi come strumenti che, in nome della riduzione degli ostacoli al commercio, alterano o consentono di rinegoziare le leggi, le politiche e le prassi che fanno da ostacolo sulla via di un’economia di mercato planetaria».
Va infine registrata un’ altra novità, non trascurabile perché consente di capire la natura della mondializzazione culturale: il capitalismo non vende più soltanto, come ieri, merci e beni; vende anche segni, suoni, immagini, software, connessioni e collegamenti. Non si limita ad ammobiliare le case, colonizza l’immaginario e domina la comunicazione. Mentre negli anni Sessanta la società dei consumi si nutriva ancora di beni materiali identificabili come le automobili e gli elettrodomestici, il sistema che Benjamin R. Barber ha proposto di chiamare «McWorld» come MacIntosh o McDonald costituisce un universo essenzialmente virtuale, nato dalla intensificazione di flussi transnazionali d’ogni genere, che convergono nel produrre un’omogeneizzazione dei modi di vita. «I sostegni del sistema McWorld », precisa Barber, «non sono le automobili, ma il parco di attrazioni Eurodisney, la rete musicale Mtv, i films hollywoodiani, i programmi informatici. Insomma, concetti e immagini oltre agli oggetti». La mercantilizzazione generalizzata instaura il consumo pubblicitario spettacolare come forma unica di integrazione sociale, esacerbando nel contempo il sentimento di esclusione e gli impulsi aggressivi in chi non ha i mezzi per accedervi. Essa contribuisce, mediante un diluvio di immagini e suoni universali, ad accentuare l’uniformazione ormai a buon punto dei modi di vita, la riduzione delle differenze e delle specificità, l’omogeneizzazione degli atteggiamenti e dei comportamenti, lo sradicamento delle identità collettive e delle culture tradizionali. Ma fa anche di più: modifica addirittura la nostra percezione dello spazio e del tempo. Sotto il controllo dei satelliti in orbita geostazionaria, sotto l’influenza degli imperi economici che moltiplicano alleanze e fusioni, sotto l’effetto delle «autostrade dell’informazione» che veicolano anche nei punti più lontani del pianeta la medesima subcultura globale, il pianeta si restringe. Dominato da monopoli sempre meno numerosi e sempre più potenti, lo spazio in cui circolano merci, investimenti e capitali si va progressivamente unificando. Mentre sino ad oggi tutte le società avevano abitato il tempo nella successione dei momenti e nella continuità della durata, questa distinzione si cancella. La rivoluzione tecnologica del «tempo reale» accelera la circolazione dei flussi materiali e immateriali, senza possibilità di godere di punti di riferimento o di effetti prospettici, e questa compressione del tempo fa dell’immediatezza l’unico orizzonte di senso rimasto. René Char diceva: «sopprimere la lontananza uccide». Il ravvicinamento prodotto dalle nuove tecnologie della comunicazione schiaccia esseri e cose, confonde forme ed istanti. Stiamo in effetti assistendo a una ridefinizione della realtà. Internet ne è un buon esempio. Mentre i sistemi di comunicazione classici si limitano a mostrare quel che accade altrove, Internet permette agli utenti di spostarsi virtualmente in quell’altrove. L’abitante del sistema McWorld vive nello stesso momento ovunque e in nessun luogo; Internet inaugura un nuovo modo di vita che si potrebbe chiamare nomadismo elettronico ma che è anche un: forma di colonialismo elettronico, dal momento che «in fin dei conti, la potenza di Internet sta nel fatto che […] consente a tutto il mondo di pensare e scrivere come i nordamericani», secondo la giusta osservazione di Nelson Thall, successore di Marshall McLuhan all’università di Toronto. La mondializzazione non deve dunque essere confusa con la semplice internazionalizzazione, sistema creato e organizzato dagli Stati per definire le forme dei loro rapporti internazionali. Essa si definisce semmai come passaggio da un’economia internazionale concepita come un aggregato di economie nazionali e locali, distinte dai rispettivi principii di funzionamento e di regolamentazione, a una vera e propria economia di mercato planetaria, governata da un sistema di regole uniformi, nel senso inteso da Karl Polanyi.
Essa descrive «l’interdipendenza crescente che unisce fra di loro tutte le componenti del nostro spazio-mondo, per condurle verso un’uniformità un’integrazione sempre più esigenti». A pilotarla sono nuovi attori extrastatali ed extranazionali, che aspirano unicamente a massimizzare i propri dividendi e profitti pianificando ed ottimizzando l’organizzazione planetaria delle loro attività ed eliminando tutto quel che può fare da ostacolo al loro libertà d’azione. E questi nuovi autori, che rafforzano un po’ ogni giorno la loro autonomia, sono sempre più indipendenti, a tal punto da costituire un unico immenso organismo mercantile. Una volta che si è colta la natura esatta della mondializzazione, è facile comprenderne le conseguenze. La prima è un tragico aggravamento delle ineguaglianze economiche. Già Hegel diceva che le società ricche non sono abbastanza ricche da riassorbire il sovrappiù di miseria che generano. Al giorno d’oggi, la povertà non è più frutto della scarsità, bensì della cattiva ripartizione delle ricchezze prodotte, nonché di un blocco psicologico e culturale che vieta di prendere in considerazione il passaggio a società che non si definiscano prioritariamente attorno al lavoro e alla produzione. Fra il 1975 e il 1985, il prodotto lordo mondiale è aumentato del 40%: dal 1950 ad 01 il commer