Un simbolo di ascesa sociale
La macchina svolge un ruolo essenziale nella formazione del consenso sociale che gradualmente viene a crearsi grazie alla trasformazione delle classi proletarie di un tempo in classi medie.
Durante i trenta "anni d’oro" del secondo dopoguerra, la "democratizzazione" dell’automobile alimenta infatti uno straordinario senso di promozione e di consacrazione sociale, dalle conseguenze ideologiche forti: ogni famiglia che accede al possesso di un’automobile tende immediatamente ad integrarsi nel sistema politico-economico dominante.
Questo fenomeno è tanto più netto in quanto l’importanza del settore automobilistico nel modo operaio, simboleggiato in Francia dal ruolo "storico" delle officine Renault di Boulogne-Billancourt e in Italia da quello analogo di Fiat Mirafiori, porta l’estrema sinistra a sostenere in questo ambito rivendicazioni che non contraddicono affatto gli interessi del padronato. "I discorsi sull’automobile sia del Pcf che della Cgt", nota a tale proposito Jean-Marc Dejean, "sono sempre stati discorsi in difesa dell’automobilista e dell’industria automobilistica, in perfetta armonia con il padronato (automobilistico ma anche petrolifero) sulla necessità di migliorare la rete stradale e di alleggerire la fiscalità sulle automobili".
Solo a partire dagli anni Sessanta, tuttavia, si registra in Europa un’esplosione paragonabile a quella che si è prodotta molto prima oltre Atlantico. Nel 1962, data nella quale il parco automobilistico francese oltrepassa la barra degli otto milioni di veicoli, tutti i problemi legati alla circolazione cominciano a manifestarsi, mentre le esigenze dell’industria automobilistica mettono in discussione i limiti dello spazio urbano. "Il circolare si sostituisce all’abitare", osserva Henri Lefebvre.
Da allora in poi, la tendenza non ha fatto altro che accentuarsi.Mentre gli americani, già negli anni Sessanta, ritenevano che il mercato dell’automobile sarebbe stato da allora in poi urbano e, soprattutto, suburbano, in Europa ha continuato per parecchio tempo a dominare l’idea che i rapporti tra città e vettura fossero prima di tutto una questione di compatibilità fra un contenitore (lo spazio della viabilità urbana) e un contenuto (i veicoli prodotti in numero crescente). Se ne ricavava la conclusione che tale compatibilità aveva degli evidenti limiti e che un giorno si sarebbe arrivati alla saturazione.
Città sfigurate, centri deserti
Era un’idea errata, perché si fondava sul postulato che le città sarebbero rimaste di strutture e dimensioni pressoché costanti. Invece è accaduto il contrario. A poco a poco, la città si è trasformata in funzione dei bisogni della macchina, che ha invaso le carreggiate e i luoghi pubblici, eroso i marciapiedi, imposto l’allargamento delle vie, obbligato i pedoni a percorrere passerelle o passaggi sotterranei. La via ha cessato di essere un luogo di passeggiata e di scambio conviviale e ha conservato un’unica funzione: la circolazione. Ne è risultato un completo rimodellamento dello spazio di vita dei cittadini.
L’accaparramento dello spazio urbano nella regione di Parigi, l’Ile-de-France, è oggi significativo: le carreggiate e i parcheggi occupano una superficie tre volte maggiore, al livello del suolo, rispetto all’habitat. "I grandi attori urbani", scrive Jean-Pierre Orfeuil, "prendono la misura di questo fenomeno o, meglio, ne traggono vantaggio: gli immobili nuovi adibiti ad uffici sono sempre meno dipendenti dalla prossimità alle reti di trasporto pubblico, ma non possono più essere concepiti senza sottosuoli riservati allo stazionamento, l’apparato commerciale si è concentrato e più della metà del volume d’affari del commercio alimentare è realizzato dai supermercati".
Nel contempo, la diffusione dell’automobile ha accelerato il processo, iniziato nel secolo scorso, di sradicamento della frequentazione del vicinato e di disgregazione sistematica della relazione di prossimità. Una prima dissociazione ha separato il luogo di lavoro dal luogo di abitazione. Ne sono seguite altre, che hanno fatto un po’ alla volta cadere in desuetudine qualunque forma di socialità di quartiere. Si parla ormai di abitazione "multilocale" per definire questo modo di vita frammentato, disperso da una zona all’altra a seconda dei momenti della giornata.
L’evoluzione delle città verso l’habitat periurbano e la conquista di spazi rurali sempre più lontani dai centri hanno ben presto reso necessario l’uso della macchina, non soltanto per andare al lavoro ma anche per portare i figli a scuola, fare la spesa, recarsi al campo sportivo, partire per la campagna e via dicendo. Le periferie lontane hanno perciò conosciuto un considerevole sviluppo, mentre gli agglomerati già esistenti si rimodellavano in funzione delle necessità automobilistiche.Facilitando gli spostamenti individuali, l’auto ha favorito lo sbriciolamento delle funzioni urbane, la diffusione di una specializzazione funzionale e sociale (il cosiddetto zoning) divoratrice di spazi naturali, l’estensione di un habitat a villini periurbano, la proliferazione dei supermercati e dei centri commerciali, giacché la motorizzazione è diventata la condizione primaria dell’accesso ad ogni sorta di negozi, servizi o impianti. In altri termini, l’automobile ha favorito la suburbanizzazione, mentre la suburbanizzazione rendeva l’automobile sempre più indispensabile.
"L’estensione suburbana che oggi accoglie oltre la metà della popolazione e il 60% degli uffici è fatta per la macchina", constata Gabriel Dupuy. "Sembra dunque che si tenda verso un certo modello di equilibrio, quello di un tessuto urbano concepito per l’automobile che, come gli osservatori riconoscono, si allontana sempre più dal modello della città storica agglomerata attorno al suo centro".Già adesso è diventato semplicemente impossibile vivere senza automobile in certe zone d’abitazione. "I fenomeni di periurbanizzazione, di dispersione urbana, di esodo urbano che la macchina ha provocato", scrive Jean-Paul Besset, "hanno frammentato la città in mille pezzi irriconoscibili. A tal punto che la sola unità che le resta, il suo unico vettore di sviluppo e riferimento culturale, diventa per l’appunto la macchina".
Negli Stati Uniti, questa suburbanizzazione si è rapidamente trasformata nella forma privilegiata dell’urbanizzazione. Essa si sviluppa in relazione diretta con l’automobile, soprattutto nelle vicinanze dei grandi nodi autostradali. Viceversa, i centri delle città tendono a svuotarsi di ogni vita sociale. Già alla fine della giornata di lavoro vengono abbandonati alle minoranze, agli emarginati e agli indigenti, mentre il dinamismo industriale e la ricchezza economica si trasferiscono nelle zone suburbane e in nuovi agglomerati interamente concepiti per l’auto.Su scala nazionale, le vie rapide svuotano non solo le campagne ma anche le città piccole e medie, i cui abitanti si concentrano alla periferia delle grandi zone urbane collegate da autostrade. "La relazione autostradale fra un polo urbano e una regione rurale si riassume in una relazione di dipendenza accresciuta della campagna nei confronti della città: è quest’ultima ad attirare i posti di lavoro. Ipermercati e servizi urbani aspireranno la clientela tradizionale dei negozi rurali e disseccheranno la vita sociale nelle campagne. Più che di "rimozione delle enclaves", sarebbe il caso di parlare di desertificazione!".
Alla fine degli anni Cinquanta, in Francia gli spazi di prossimità erano ancora gli spazi di riferimento: la distanza media dalla casa al luogo di lavoro era di 4 chilometri, la marcia a piedi e le due ruote assicuravano i due terzi degli spostamenti, i trasporti pubblici ne assicuravano un quarto e l’auto solo uno su dieci. Oggigiorno, le distanze percorse in macchina sono in media sui 30 chilometri a persona e al giorno. In quindici anni, la distanza dal domicilio al luogo di lavoro è aumentata del 27% nella regione parigina e di oltre il 60% nelle altre grandi città. Si tratta di un’evoluzione che non manca di fare contenti gli economisti liberali, per i quali la mobilità è sempre stata una variabile importante della crescita economica.
Sempre più strade, sempre più auto
Non bisogna farsi ingannare, tuttavia, sulla concatenazione fra cause ed effetti. Durante i trent’anni d’oro del dopoguerra si pensava ancora che l’infrastruttura stradale si sarebbe accontentata di accompagnare lo sviluppo economico; oggi si è spinti a fare la constatazione inversa: in altre parole, è proprio lo sviluppo della rete stradale a trascinare con sé l’attività economica e a provocare l’accelerazione della mobilità. Nel 1994, un rapporto consegnato al ministero britannico dei Trasporti ha dimostrato, ad esempio, che la creazione di nuove strade ha come conseguenza principale non una maggiore fluidità della circolazione (come sostengono le lobbies del trasporto stradale e dei lavori pubblici) ma, al contrario, un accrescimento del suo volume.Da nessuna parte, del resto, lo sviluppo della rete stradale e autostradale ha consentito di decongestionare la circolazione. In Francia, 7.500 chilometri di strade sono oggi costantemente prossime alla soglia di saturazione, contro i 500 del 1960. Ciò significa che più strade si costruiscono, più la circolazione aumenta, perché ogni nuovo spazio creato per gli automobilisti ne attira automaticamente altri. "Rispondere" alla domanda significa dunque, nei fatti, stimolarla.
Inoltre, è ormai provato che, quando si offre la possibilità di andare più in fretta e più lontano, il tempo guadagnato non viene utilizzato per vivere in maniera diversa, ma per spostarsi ancora di più e su distanze più grandi. Si dimostra, per questa via, che i trasporti automobilistici generano allontanamento: creano delle distanze che essi soli possono colmare. Questo effetto retroattivo dell’offerta sulla domanda è un dato sul quale è inevitabile riflettere.
Tutte nuove, tutte simili!
Dal momento che il mercato dell’auto nei paesi sviluppati è diventato essenzialmente un mercato di rinnovamento e tutte le vetture attualmente hanno una qualità tecnica più o meno comparabile – il che ha come conseguenza una perdita di rilievo delle loro prestazioni –, lo sforzo dei costruttori, in parallelo con il gioco sui prezzi, consiste essenzialmente nel rispondere al criterio qualitativo della domanda con un rinnovamento accelerato delle "gamme". Se nel 1958 la Renault contava su solo sette diversi modelli, la Clio, lanciata dalla casa parigina nell’aprile 1995, è stata subito proposta in quarantacinque versioni differenti. In totale, il pubblico può oggi scegliere fra più di un migliaio di modelli, ma dato che tali modelli hanno quasi tutti un’"aria di famiglia" immediatamente identificabile, l’impressione generale è che le auto "si assomigliano tutte".
Quanto alla tecnica, essa ha fatto progressi nel duplice ambito della sicurezza e delle comodità: autoradio, accendisigari, iniezione elettronica, motore turbo, parabrezza laminato, direzione assistita, sbrinamento automatico, chiusura centralizzata delle portiere, cintura di sicurezza, airbag, regolazione automatica della frenatura (sistema Abs), volante retrattile, insonorizzazione. La tendenza attuale è allo sviluppo dell’elettronica. L’automobile del XXI secolo, si dice dovunque, sarà "intelligente". Disporrà di schermi per visione notturna a sistemi infrarossi, di telemetri laser, di badges di iperfrequenza, di ausilii per la localizzazione e la navigazione, di calcolatori del trattamento delle immagini, di regolatori di velocità, di rilevatori di sonnolenza, di allarmi radar anti-collisione, eccetera. Con i sistemi e i programmi già esistenti (Ivhs, Drive, Sony, Carin, Euroscout, Prometheus, Travel Pilot), il ricorso alla radionavigazione si intensificherà. Il "Global Positioning System" (Gps) consente di conoscere esattamente la propria posizione ovunque ci si trovi sul pianeta, con una precisione dell’ordine del metro. Accoppiato ad un sistema di mappe elettroniche, esso offrirà la possibilità di scegliere degli itinerari e di lasciarsi guidare da sintetizzatori vocali o da pittogrammi auditivi ("icone sonore").
Nei fatti, però, le innovazioni tecniche si introducono lentamente nell’industria automobilistica. L’ampiezza dei capitali investiti tende infatti a frenare le innovazioni importanti, che esigerebbero profonde modifiche delle attrezzature. Inoltre, non sempre la ricettività all’innovazione è sicura: il cambio automatico di velocità si è diffuso molto in fretta negli Stati Uniti, mentre in Europa è stato adottato soltanto da un misero 3% degli utenti. Questo esempio dimostra che un progresso tecnico non sempre è sufficiente, agli occhi degli utenti, a giustificare un costo ulteriore di acquisto.
Una passione divorante
Ha ucciso 25 milioni di persone in un secolo, inquina l’atmosfera e favorisce lo sviluppo delle malattie cardiache e respiratorie, insudicia città e campagne, costa caro, fa rumore e ha un cattivo odore… ma allora perché questa infatuazione di massa per l’automobile? Anche se è innegabile, la pressione di certe lobbies industriali – e della mobilità imposta dal mercato del lavoro – non spiega tutto. L’automobile corrisponde perfettamente a un immaginario moderno che vezzeggia la "libertà" degli individui autonomi. Nella sua cabina di pilotaggio meccanica, il signor Tuttiquanti è finalmente solo…
Per spiegare l’invasione della macchina sono state spesso chiamate in causa le lobbies automobilistiche, stradali e petrolifere, i lavori pubblici e l’industria edile, le compagnie di assicurazione e certi gruppi finanziari direttamente interessati agli investimenti in questo campo.
Queste lobbies esercitano in effetti un’influenza diretta su ministeri e collettività territoriali. La scomparsa delle tramvie che un tempo erano presenti in molte città viene spesso citata come esempio del loro intervento. Il modo in cui in Francia, nel 1996, il progetto di legge contro l’inquinamento dell’aria è stato progressivamente svuotato di sostanza (con l’abbandono del principio secondo cui chi inquina deve pagare e il mantenimento dei privilegi fiscali di cui nel paese beneficiano i veicoli diesel) costituisce un altro esempio della maniera in cui questi gruppi di pressione possono far valere tutto il loro peso sugli uomini politici.
Sbaglierebbe, tuttavia, chi volesse spiegare ogni cosa con l’intervento delle lobbies industriali. A partire dagli anni Settanta, infatti, tutte le condizioni sembravano spingere in direzione di una pausa nella crescita dell’automobile. Il tasso di motorizzazione bastava a trasportare l’insieme della popolazione, che si concentrava inoltre sempre più nelle città. Il prezzo dei carburanti e quello delle autovetture continuavano a salire, la disoccupazione cominciava ad estendersi, la mortalità stradale si aggravava, le macchine circolavano sempre meno e gli imbottigliamenti provocavano già l’asfissia di un buon numero di agglomerati. Ebbene: si è verificato esattamente il fenomeno opposto: la motorizzazione non solo non ha segnato il passo ma è esplosa, non soltanto in Francia ma in tutti i paesi europei. E da allora in poi, "tutti gli studi che cercano di spiegare le scelte in materia di modalità di trasporto, e in particolare l’arbitrato automobile-trasporto in comune, sono costretti a far intervenire, oltre ai fattori "classici" […], un fattore residuale a favore dell’automobile, battezzato assai opportunamente "preferenza automobilistica".
Tale preferenza, beninteso, viene incoraggiata da scelte politiche e istituzionali deliberate – non vi è dubbio che l’interesse delle lobbies sia quello di impedire ai poteri pubblici di ridefinire la loro politica dei trasporti in un senso che frenerebbe il primato accordato sino ad oggi all’auto –, ma non ci si deve nascondere che essa contiene in sé anche una forte componente volontaria. Le lobbies agiscono quindi soprattutto "come una cassa di risonanza o come un amplificatore" (Gabriel Dupuy), ovverosia non fanno altro che conferire maggiore visibilità e maggior peso a una preferenza automobilistica che da molto tempo non ha più bisogno di loro per pesare sulla società globale.
I costi dimenticati del progresso
"Da tutti i punti di vista", scrive Paul Yonnet, "l’attaccamento manifestato nei confronti dell’automobile dalle masse occidentali dopo il 1973 reca i segni di una passione apparentemente cieca e che conduce all’abisso, mossa da un’oscura economia del desiderio, che evolve di continuo tenendosi al di fuori delle realtà ed essendo dunque minata da una crescente inadeguatezza al reale".
Questa "inadeguatezza al reale" appare già chiaramente quando si constata l’ampiezza del numero delle vittime della strada. Dall’inizio del secolo sino alla metà degli anni Novanta, circa venticinque milioni di persone hanno perso la vita in incidenti stradali, cioè tanti quante sono state le vittime militari della Prima (otto milioni e mezzo) e della Seconda (diciassette milioni e mezzo) guerra mondiale messe insieme. Negli Stati Uniti, il numero dei morti sulle strade fra il 1913 e il 1976 è tre volte maggiore di quello degli americani uccisi nell’insieme delle guerre alle quali hanno preso parte.Complessivamente, l’auto "ha ucciso, dal 1945 in poi, un numero tre volte maggiore di francesi rispetto a quelli uccisi da Hitler. Attualmente continua a uccidere un francese all’ora, "facendo tanti morti e invalidi quanti ne provocano tutte le malattie messe assieme". Qualcosa come 9.000 morti all’anno, precisiamolo, significa l’equivalente di una grossa catastrofe aerea alla settimana – o della popolazione di una cittadina.
Gli innumerevoli effetti perversi
A questi danni si aggiungono quelli causati dall’inquinamento atmosferico, i cui effetti sulla salute sono ben noti. A contatto con l’aria, l’ossido di azoto si trasforma in diossido di azoto e poi in ozono, prodotto pericoloso per gli occhi e i polmoni. Il monossido di carbonio blocca l’ossigenazione dei tessuti, lo zolfo attacca i polmoni, il piombo causa ipertensione e provoca turbe neurologiche. Le polveri carboniche e certi idrocarburi come il benzene sono fortemente cancerogeni. L’insieme provoca bronchiti, mal di testa, malattie degli occhi e malesseri cardiaci.
Nel 1990 la sezione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato un rapporto nel quale si stabilisce l’esistenza di un rapporto diretto tra l’intensità dell’inquinamento e la frequenza degli attacchi cardiaci. Uno studio pubblicato nel dicembre 1993 nel "New England Journal of Medicine" precisa che gli abitanti delle grandi città inquinate hanno, nell’arco di dieci o quindici anni, un rischio di mortalità dal 17% al 26% superiore a quello in cui incorrono gli abitanti delle altre agglomerazioni. Anche un altro studio, pubblicato nel novembre 1994 dalla rete Epurs (Valutazione dei rischi di inquinamento urbano per la salute), nonché un’inchiesta realizzata nel febbraio 1996 nel quadro del progetto europeo Aepha, hanno messo in evidenza che gli agenti di inquinamento atmosferico dovuti all’automobile costituiscono dei "fattori sovraggiuntivi di rischio", che aggravano fortemente la morbosità e la mortalità nei malati cronici, soprattutto nei bambini e nelle persone anziane.
Ai morti sulle strade è dunque opportuno aggiungere ancora un migliaio di decessi imputabili ogni anno all’inquinamento automobilistico.
Alcuni indiscutibili passi avanti sono stati comunque compiuti da qualche anno a questa parte nella lotta contro l’inquinamento, soprattutto per quanto concerne il riscaldamento urbano e l’industria. La marmitta catalitica ha per altri versi fortemente contribuito a ridurre le emissioni di piombo, e le autovetture fabbricate oggi sono meno inquinanti di quelle di ieri; ma si tratta di miglioramenti che vengono regolarmente annullati dall’aumento della motorizzazione e del volume della circolazione. È infatti evidente che, se si dimezza l’inquinamento prodotto dai veicoli ma nel contempo il loro numero raddoppia, la situazione rimane identica. A questo quadro poco confortante si aggiungono infine i danni sonori. Circa cinquantacinque milioni di cittadini europei sono esposti quotidianamente a livelli di rumore superiori alla normalimite di 90 decibel fissata dall’Organizzazione mondiale della sanità. Sei milioni di francesi vivono in immobili esposti a un rumore di facciata superiore ai 65 decibel e il 35% dei parigini dichiarano di soffrire per il rumore della circolazione, in particolare la notte. La cifra d’affari dei laboratori Quiès, che fabbricano annualmente oltre quaranta milioni di paia di tappi antirumore per le orecchie, aumenta attualmente del 10% all’anno.
L’auto fa guadagnare tempo?
Siamo evidentemente di fronte, in questo caso, ad un eccellente esempio della non-economicità dell’autovettura: più grande è la mobilità e più si accresce la capienza, più il riempimento è denso e la mobilità si indebolisce! "La vettura individuale, concepita per la mobilità, si è trasformata nel principale ostacolo ad essa!", osserva Jean-Paul Besset. "Fenomeno che fa nascere un concetto tanto nuovo quanto sorprendente: quello di "mobilità paralizzante". Perché stiamo effettivamente assistendo ad un calo generale della mobilità in città. La velocità, finalità stessa dell’auto, cala di continuo. Siamo arrivati a una media di 15 chilometri all’ora nelle agglomerazioni francesi".
È anche una perfetta illustrazione dei limiti del modo di ragionare liberale. In un imbottigliamento, la "libertà" di ciascun automobilista ha infatti come ostacolo principale la volontà di milioni di altri automobilisti di far uso di quella medesima libertà. La macchina è dunque fonte di libertà individuale solo a condizione… che gli altri automobilisti si astengano dal guidare. Vediamo, grazie a questo esempio, che le "libere" scelte individuali non portano necessariamente all’optimum collettivo: negli ingorghi urbani, la "mano invisibile" è in panne!Si pone allora il problema di capire se, globalmente, l’auto fa veramente guadagnare tempo. Per un alto dirigente o funzionario, proprietario di un’autovettura di notevole potenza, la velocità media ottenuta è di 12 km/h, contro i 14 km/h di una bicicletta! Il tempo sociale investito nell’ottenimento delle risorse necessarie agli spostamento, poi, rappresenta una durata di tre-quattro ore al giorno.
"Il dirigente medio di una città media che circola per 16.000 chilometri all’anno", scrive in un altro contesto Jean-Pierre Dupuy, "dedica alla sua vettura in media più di 4 ore al giorno; sia che si proietti qua e là assieme a lei, sia che si occupi della sua manutenzione, sia che lavori per pagarla. Ogni ora di questo tempo gli consente quindi di percorrere dieci chilometri. Se facesse tutti i suoi spostamenti, intendo proprio gli stessi, con la bicicletta, ci metterebbe meno tempo".
Anche i danni si pagano
Gérard Petitjan scrive: "Fra gli incidenti materiali e corporali, le malattie causate dall’inquinamento, il tempo perso a causa della congestione del traffico, la macchina costa ogni anno 250 miliardi di franchi alla collettività. E ciò senza tener conto dei danni all’ecosistema, delle degradazioni del paesaggio, dello stress prodotto, ecc. In compenso, essa genera fra i 200 e i 220 miliardi di proventi. È un così buon affare?". È lecito chiederselo.
L’automobilista, però, non è consapevole di queste cifre. Da un lato, sottovaluta ampiamente l’ammontare effettivo delle spese che gli sono causate dal possesso dell’auto, guardandosi bene – in particolare – dall’incorporarvi il valore monetario del tempo che le dedica. Dall’altro, trascura quello che gli costano, nella veste di contribuente, le notevoli spese sostenute dalla collettività per effetto dell’automobile, si tratti dei costi umani (morti e feriti, spese mediche, impatto sulle condizioni di lavoro, perdita di produttività) o dei costi esterni riguardanti l’ambiente.Il risultato è che la parte del bilancio familiare destinata alla macchina non ha fatto altro che crescere di anno in anno. Nel 1960, i francesi dedicavano in media il 5,4% del loro bilancio all’auto.Questa cifra è passata all’11,5% nel 1986, poi al 16,6% nel 1992 (contro il 14,5% degli Stati Uniti).
Le spese legate all’automobile rappresentano attualmente un ammontare globale di 509 miliardi di franchi (circa 152.500 miliardi di lire), cioè quasi quanto le spese alimentari (19,2% del bilancio delle famiglie). In media, ogni europeo lavora un’ora su sette – più di una giornata di lavoro a settimana – per finanziare la propria autovettura.
L’irrazionalità finanziaria dell’auto non è comunque altro che il riflesso del comportamento, anch’esso irrazionale, degli acquirenti e degli utilizzatori. L’automobile, infatti, non è mai stata solo un mezzo di trasporto. La passione che suscita poggia su una serie di miti moderni (accessibilità, mobilità, autonomia, ubiquità, accelerazione), e l’attaccamento di cui è oggetto passa attraverso una moltitudine di canali affettivi, simbolici e psicologici. L’autovettura non è solamente una bolla che isola l’individuo dallo spazio pubblico, dando al suo conducente la sensazione di una libertà in ogni istante, mentre i trasporti in comune rappresentano uno spazio di costrizioni collettive subìte in un tempo determinato, identico per tutti. Essa è anche un mezzo per trasportare il privato all’interno stesso di questo spazio pubblico, e nel contempo un modo per l’automobilista di cercare di affermare la sua differenza individuale (il "modello") nell’ambito dello stesso consumo di massa (la "serie").
Sviluppandosi proporzionalmente all’individualizzazione delle relazioni sociali, cioè ai progressi dell’individualismo nella vita quotidiana, la motorizzazione trova così la propria giustificazione profonda nel fatto di essere in consonanza con i temi più essenziali della modernità: lo sradicamento e la parificazione delle condizioni (anche l’auto più lussuosa deve fermarsi al semaforo rosso per lasciarne passare una più modesta), fosse anche a prezzo della creazione di una nuova categoria di paria: il ciclista e il pedone.Jean-Pierre Dupuy non ha torto nell’affermare che "la sottomissione dell’uomo industriale ai veicoli rivela che egli non si sente a suo agio da nessuna parte, o quasi". Ivan Illich scriveva: "Gli utenti spezzeranno le catene del trasporto superpotente quando si rimetteranno ad amare come un territorio il loro isolato di circolazione, e a temere di allontanarsene troppo spesso".
Da Diorama, Numero 232 del gennaio 2000