Le società antiche avevano spontaneamente compreso che nessuna vita sociale è possibile senza tenere conto dell’ambiente naturale nel quale essa si svolge. Nel De Senectute, evocando questo verso citato da Catone: «Pianta alberi che daranno frutti alla generazione successiva», Cicerone scrive: «L’agricoltore, in realtà, per quanto vecchio sia, se gli viene chiesto per chi pianta, non esita a rispondere: “Per gli dèi immortali, i quali vollero che non solo ricevessi tali doni dai miei antenati, ma li trasmettessi anche ai posteri”» (7, 24). La riproduzione durevole è stata, in effetti, la regola in tutte le culture umane fino al XVIII secolo. Ogni contadino di una volta era, senza saperlo, un esperto di «sostenibilità». Ma molto spesso, lo era anche il potere pubblico. Un esempio tipico è offerto da Colbert che, disciplinando i tagli di bosco per assicurare la ricostituzione delle foreste, faceva piantare querce per fornire alberi di navi 300 anni più tardi. I moderni hanno agito all’inverso. Non hanno smesso di comportarsi come se le «riserve» naturali fossero moltiplicabili all’infinito – come se il pianeta, in tutte le sue dimensioni, non fosse uno spazio finito. In ogni istante presente, hanno impoverito l’avvenire consumando all’eccesso il passato.
Il XX secolo è stato caratterizzato in molti modi: secolo dell’ingresso nell’era atomica, secolo della decolonizzazione, della liberazione sessuale, secolo degli «estremi» (Eric Hobsbbawm), della «passione del reale» (Alain Badiou), della generalizzazione della «metafisica della soggettività» (Heidegger), secolo della tecnoscienza, secolo della globalizzazione, eccetera. Il XX secolo è sicuramente stato tutto questo. Ma è anche il secolo che ha visto l’apogeo dell’era del consumo, della devastazione del pianeta e, di contraccolpo, dell’apparizione di una preoccupazione ecologica. Per Peter Sloterdijk, che caratterizza la modernità con il «principio sovrabbondanza», il XX secolo è stato in primo luogo il secolo dello spreco. «Mentre per la tradizione», scrive, «lo spreco rappresentava il peccato per eccellenza contro lo spirito di sussistenza perché metteva in gioco la riserva sempre insufficiente di mezzi di sopravvivenza, nell’era delle energie fossili si è realizzato intorno allo spreco un profondo cambiamento di senso: oggi si può dire che lo spreco è diventato il primo dovere civico […] L’interdizione della frugalità ha sostituito l’interdizione dello spreco – questo significano i continui appelli a sostenere la domanda interna».
Questo spreco non va confuso con il consumo ostentato talvolta praticato dalle antiche aristocrazie, perché quest’ultimo non si separava mai da un elemento di gratuità e generosità che fa completamente difetto all’attuale società mercantile. Lo stesso Adam Smith definiva ancora lo spreco come un modo di cedere alla «voglia di godimento istantaneo». E nell’antica borghesia, la frugalità rientrava ancora nel novero dei valori cardinali, perché si pensava che permettesse l’accumulazione del capitale. Oggi che il capitale si alimenta da solo, creando incessantemente nuovi valori, le difese sono saltate da molto tempo. L’obsolescenza programmata dei prodotti è uno dei principi dello spreco.
All’inizio del XXI secolo, che si annuncia come un secolo in cui la “fluidità” (Zygmunt Bauman) tende a sostituire ovunque il solido – come l’effimero sostituisce il durevole, come le reti si sostituiscono alle organizzazioni, le comunità alle nazioni, i sentimenti transitori alle passioni di un’intera vita, gli impegni puntuali alle vocazioni immutabili, gli scambi nomadi ai rapporti sociali radicati, la logica del Mare (o dell’Aria) a quella della Terra – constatiamo che l’uomo avrà consumato in un secolo delle scorte che la natura aveva impiegato 300 milioni di anni a costituire.
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I due principali problemi che caratterizzano la situazione attuale sono, da una parte, la degradazione dell’ambiente naturale di vita sotto l’effetto degli inquinamenti di ogni genere, che hanno anche conseguenze dirette sulla vita umana e su quella di tutti gli esseri viventi, e, d’altra parte, l’esaurimento delle materie prime e delle risorse naturali oggi indispensabili all’attività economica.
Gli inquinamenti sono stati troppo spesso descritti per dovervi qui ritornare. Ricordiamo soltanto che la produzione annuale di rifiuti nei 25 paesi dell’OCSE ammonta oggi a 4 miliardi di tonnellate. In Europa, i rifiuti industriali superano i cento milioni di tonnellate all’anno, un terzo dei quali soltanto è oggetto di un ritrattamento. I francesi producono da soli 26 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno, ossia un chilo a persona e al giorno. Tra il 1975 e il 1996, la quantità di rifiuti e scarti vari (emissioni di gas carbonico, rifiuti minerari, erosione dei suoli, fanghi contaminati, ecc.) è aumentata del 28% negli Stati Uniti. Da qui al 2020, la produzione di immondizie è destinata a raddoppiare.
A partire dagli studi pionieristici di Charles King, iniziati fin dal 1957, si sa che la quantità di gas carbonico nell’atmosfera, prodotta dall’inquinamento, non cessa di aumentare dagli inizi dell’era industriale. Mentre nel corso degli ultimi 150.000 anni la concentrazione di CO² nell’atmosfera era rimasta pressappoco costante, ossia dell’ordine di 270 parti per milione (ppm), è iniziata ad aumentare verso il 1860, per poi conoscere una netta accelerazione a partire dalla metà del XX secolo, periodo durante il quale il suo tasso è praticamente raddoppiato ogni vent’anni. Questo tasso è fissato oggi a circa 375 ppm, con il 70% delle emissioni totali provenienti dai paesi dell’emisfero Nord che si sono più presto lanciati in una industrializzazione a marce forzate. Attualmente, l’umanità emette più di 6,3 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno, ossia quasi il doppio della capacità di assorbimento del pianeta (dipendendo quest’ultima in modo vitale dalla superficie delle foreste e degli oceani). E tutto lascia prevedere che questo fenomeno proseguirà e si aggraverà.
Ora, sappiamo pure che esiste una rigorosa correlazione tra il tasso di CO² nell’atmosfera e la temperatura alla superficie della Terra. La concentrazione nell’atmosfera di gas a effetto serra imprigiona infatti il calore generato dal sole intorno alla Terra e causa un riscaldamento generale del pianeta. In soltanto trent’anni, la temperatura media della Terra è passata da 13,9 gradi a 14,4 gradi. Con un previsto raddoppio del tasso di CO² nell’atmosfera, ci si attende che essa aumenti ancora da 1,4 a 5,8 gradi nel corso di questo secolo.
Essendo il riscaldamento del pianeta massimale verso i poli, una delle conseguenze è lo scioglimento dei ghiacciai e delle banchise, che dilata la massa degli oceani, determinando una generale elevazione del livello del mare. Il livello medio degli oceani è già salito di 2,4 cm. nel corso degli ultimi dieci anni. Di qui alla fine del secolo, ci si attende un aumento di parecchi metri. Orbene, basterebbe un aumento di un metro per far indietreggiare la linea costiera in media di 1,5 km., il che provocherebbe l’evacuazione forzata di diverse decine di milioni di persone.
Attualmente, la Groenlandia già perde 51 miliardi di m³ d’acqua all’anno. Lo scioglimento completo della calotta glaciale della Groenlandia (la cui superficie equivale a quattro volte quella della Francia) potrebbe da solo far salire di 7 metri le superfici costiere del globo. Sommato allo scioglimento dei ghiacciai dell’Artico e dell’Antartico, esso potrebbe causare la sommersione di un gran numero di terre oggi emerse, da Manhattan alla Camargue, passando per i Paesi Bassi, le Maldive, le risaie inondabili dell’Asia, il delta del Nilo in Egitto, quello del Niger in Nigeria, quello del Gange in Bangladesh.
Lo scioglimento dei ghiacciai artici ha ugualmente come risultato che la parte nord dell’Atlantico conosce un brutale afflusso di acqua dolce. Ora, l’equilibrio tra l’acqua dolce e l’acqua salata costituisce in questa parte del mondo uno dei motori delle grandi correnti marine dette termoaline, che regolano l’insieme delle temperature mondiali e permettono all’Europa occidentale di beneficiare di un clima temperato a causa della risalita verso Nord di una corrente calda proveniente da Sud, il Gulf Stream. Questo afflusso di acqua dolce generato dallo scioglimento dei ghiacciai potrebbe, entro un determinato termine, provocare un raffreddamento generale dell’emisfero nord, che si ritroverebbe, dopo un certo tempo, immerso in un clima siberiano. Ricordiamo che quando la temperatura planetaria media era di soltanto del 5-6% più bassa di oggi, una parte dell’Europa (fino alla Germania) e dell’America del Nord era coperta da un ghiacciaio di 3 km. di spessore. Ora, secondo uno studio realizzato da 300 esperti, la calotta glaciale artica potrebbe sparire completamente da qui al 2070.
A partire dal 1969, abbiamo già registrato modificazioni climatiche che un tempo si sviluppavano nell’arco di diversi secoli. Gli anni 1998 e 2002 sono stati i due anni più caldi mai conosciuti. Questo riscaldamento provoca l’aumento della frequenza e dell’intensità delle tempeste, dei cicloni tropicali, dei maremoti, delle canicole, degli incendi di foreste, eccetera. Negli Stati Uniti si sono registrati 562 tornado durante il solo mese di maggio 2003, cifra mai raggiunta fino a quel momento. Nel 2000, 256 milioni di persone sono state colpite da incidenti naturali o industriali, contro una media di 175 milioni di persone negli anni 1990, durante i quali si erano già registrate tre volte più catastrofi naturale che negli anni 1960.
Il riscaldamento del pianeta ha effetti devastanti anche sull’agricoltura, perché intensifica l’erosione dei suoli e aggrava l’effetto delle siccità, il che riduce in proporzione la capacità di produzione agro-alimentare nel mondo, e contemporaneamente estende l’area di certe malattie infettive e tropicali come il paludismo e la malaria. Studi realizzati nelle Filippine hanno mostrato che ogni grado di temperatura supplementare si traduce in un calo del 10% dei rendimenti agricoli.
Parallelamente, la deforestazione mondiale assume ogni giorno proporzioni più inquietanti. Nel corso del XX secolo, la superficie boscosa della terra è passata da 5 miliardi a 2,9 miliardi di ettari. Attualmente, si contano 140.000 km.² (la superficie della Grecia) di superficie di foreste distrutta ogni anno, ossia 28 ettari distrutti al minuto. Nell’ambiente tropicale, la deforestazione è raddoppiata tra il 1979 e il 1989. dopo aver perduto la sua foresta tropicale atlantica, il Brasile ha cominciato a distruggere la sua foresta amazzonica che era ancora intatta nel 1970. La deforestazione avanza in Amazzonia del 6% all’anno. Orbene, le foreste svolgono un ruolo essenziale nella regolazione del clima del pianeta, la conservazione dei suoli, la prevenzione delle inondazioni, lo stoccaggio delle sostanze nutritive, la protezione delle vie d’acqua contro l’interramento. Esse costituiscono il 46% delle riserve di carbonio terrestre e assorbono il diossido di carbonio che nutre l’effetto serra. Si stima in 1,5 miliardi il numero di uomini che ancora oggi dipendono in parte dalla foresta per sopravvivere. Inoltre, le foreste tropicali costituiscono il biotopo naturale di circa il 50% delle specie animali conosciute, ossia la metà della diversità genetica mondiale.
L’aspetto più preoccupante della situazione dipende dal fenomeno degli effetti cumulati. Aumentando lo scioglimento del ghiaccio e della neve, diminuisce l’energia solare rinviata nello spazio, il che accresce l’effetto serra. Ma quest’ultimo provoca un nuovo innalzamento della temperatura, il che fa fondere ancora di più la neve e il ghiaccio. Lo stesso avviene con gli incendi delle foreste: più fa caldo, più ci sono incendi di foreste e più queste diventano vulnerabili. Ma diminuendo le foreste, diminuisce la capacità della terra di assorbire l’ossido di carbonio presente nell’atmosfera, il che causa un nuovo aumento della temperatura, che favorisce a sua volta gli incendi delle foreste. È quella che in cibernetica si chiama retroazione positiva.
Nell’ottobre 2003, un rapporto commissionato dal Pentagono (An Abrupt Climate Change and Its Implications for United States Security) considerava come plausibile lo scenario di una catastrofe climatica su scala planetaria nel corso dei prossimi venti anni.
Il problema delle risorse naturali, in particolare delle energie fossili, non è meno drammatico, poiché per definizione esse esistono solo in quantità limitate (e la loro combustione provoca anch’essa inquinamenti). Ora, tutta la civiltà attuale si è fondata sul loro sfruttamento. Più di tre quarti delle risorse energetiche che oggi utilizziamo sono risorse fossili (petrolio, gas, carbone, uranio) che assicurano la copertura del 90% dei fabbisogni mondiali di energia commerciale primaria: trasporti, elettricità, industria. Dopo i due shock petroliferi degli anni Settanta, la dipendenza dei paesi industrializzati nei confronti delle energie fossili non ha smesso di aumentare. La dipendenza da idrocarburi dell’Unione europea, oggi del 50%, dovrebbe raggiungere il 70% nel 2030.
Come si pone il problema del progressivo esaurimento delle risorse naturali? Il caso del petrolio è qui esemplare.
Il petrolio è un’energia dalla forte resa energetica, facile da produrre e da trasportare. Non è utilizzato soltanto nei trasporti, ma è presente nell’agricoltura, le materie prime, l’industria del riscaldamento, l’industria farmaceutica, ecc. Costituisce oggi il 40% del consumo mondiale di energia (il 95% nei trasporti, che rappresentano da soli la metà del consumo petrolifero mondiale). Il primo pozzo di petrolio fu aperto nel 1859 negli Stati Uniti, nello Stato della Pennsylvania. A partire da questa data, l’economia mondiale ha consumato circa 1000 miliardi di barili di petrolio. Oggi ne consuma 85 milioni di barili al giorno, contro 77 milioni nel 2002. Gli Stati Uniti ne utilizzano da soli più di 9 milioni al giorno per le loro automobili, mentre il principale paese esportatore, l’Arabia Saudita, ne produce ogni giorno solo 8 milioni!
Oggi si è avviato un vasto dibattito per sapere di quali riserve disponiamo e a quale ritmo saranno consumate. Secondo le stime più ottimistiche, al ritmo di consumo attuale ci restano tutt’al più 41 anni di riserve accertate di petrolio, 70 anni di gas e 55 anni di uranio. Ma i fabbisogni di petrolio dovrebbero aumentare del 60% da qui al 2020, raddoppiare da qui al 2040 e quadruplicare da qui alla fine del secolo. Anche con una crescita mondiale ridotta a una media di 1,6% all’anno, il consumo di petrolio dovrebbe raggiungere i 120 milioni di barili al giorno nel 2030. La Cina ha rappresentato da sola un terzo dell’aumento della domanda nel 2004. Se in questo paese, che conta oggi 1,2 miliardi di abitanti (e ne conterà 1,4 miliardi fra vent’anni), tutti possedessero una vettura, occorrerebbero più di 80 milioni di barili di petrolio al giorno per farle andare, mentre non se ne producono che 74 milioni al giorno nel mondo intero. La crescita del consumo di petrolio già supera quella del Pil mondiale dal 2002. Stiamo dunque per assistere a una radicale dissociazione tra l’offerta e la domanda.
Gli ultimi, grandi giacimenti petroliferi sono stati scoperti negli anni Sessanta. Quelli dell’Arabia Saudita, primo produttore mondiale, il cui sfruttamento è iniziato sessant’anni fa, dovrebbero cominciare a declinare nei prossimi anni – dato che le sue riserve sono state artificialmente gonfiate negli anni Ottanta, in seguito alla “guerra delle quote” che favoriva i paesi dell’OPEC aventi le riserve più importanti. Dal 1980, nel mondo si consumano quattro barili di petrolio per ogni barile scoperto, il che significa da un quarto di secolo il livello dei consumi supera quello delle riserve scoperte. Il margine di sicurezza, che misura la differenza tra il consumo e la capacità di produzione di petrolio, è oggi appena dell’1%. Si può certo immaginare che saranno scoperti nuovi, grandi giacimenti oggi sconosciuti, in particolare in Canada, se non addirittura in Russia, ma molti specialisti ne dubitano. Il mondo intero è già stato esplorato. Tali prospettive, ad ogni modo, non fanno altro che rinviare la scadenza. È chiaro che, quali che siano le riserve di petrolio disponibili, esse rappresentano una quantità finita e che un giorno saranno dunque totalmente consumate.
Bisogna peraltro sapere che il petrolio non lo si estrae in maniera continua, a prezzo costante, dalla prima all’ultima goccia. La produzione di un campo petrolifero segue una curva al vertice della quale si trova un picco (peak oil) che si chiama “picco di Hubbert” – dal nome del geologo King Hubbert che lo ha calcolato per primo – il quale corrisponde approssimativamente al momento in cui, essendo stata estratta circa la metà del petrolio disponibile, la produzione petrolifera comincia a operarsi a rendimento decrescente. Oltre questo picco, divenendo le quantità disponibili più rare e diminuendo l’efficacia energetica, si assiste a un aumento regolare dei prezzi.
Nel 1956, Hubbert aveva predetto, fra l’incredulità generale, che negli Stati Uniti il peak oil sarebbe stato raggiunto nel 1970. Il picco fu raggiunto nel 1971: dopo questa data, la produzione di petrolio greggio nell’America del Nord non ha smesso di calare, il che aumenta la vulnerabilità degli americani in materia di approvvigionamento energetico. Orbene, i carburanti bruciati negli Stati Uniti, mediamente cresciuti del 2,3% all’anno dal 1986, rappresentano da soli il 14% del consumo petrolifero mondiale. È questa, evidentemente, la ragione per cui gli Stati Uniti si danno da fare per controllare il più possibile le regioni del mondo (Vicino Oriente, Asia centrale) produttrici di petrolio e quelle che costituiscono le sue principali vie di instradamento. Di qui le guerre in Iraq e Afghanistan.
Su scala planetaria, il peak oil segna la soglia a partire dalla quale non si può più compensare il declino della produzione dei campi esistenti con nuovi giacimenti. Di conseguenza, un aumento dell’investimento non si traduce più in un correlativo aumento della produzione. È il fenomeno della “deplezione”. In quale momento il picco di Hubbert sarà raggiunto per l’insieme della produzione petrolifera mondiale? Alcuni esperti pensano che questo potrebbe accadere di qui a una ventina, se non addirittura una trentina d’anni. Altri, come i geologi Jean Laherrère, Alain Perrodon e Colin Campbell, fondatori dell’Associazione per lo studio del picco di petrolio e del gas (ASPO), ritengono che il picco sarà raggiunto fin dal 2008-2010, cioè quasi domani. I fatti sembrano dar loro ragione. Ma ad ogni modo, se la differenza tra le previsioni degli “ottimisti” e quelle dei “pessimisti” è solo di circa 30 anni, è evidente che la prospettiva è comunque inquietante.
Il barile di petrolio, che nell’agosto 2005 ha superato la soglia dei 65 dollari, dovrebbe fra non molto raggiungere il prezzo di 100 dollari. Se le ipotesi pessimistiche fossero confermate, sarà solo l’inizio di un volo. L’economista Patrick Artus pensa che nel 2015 il corso del greggio potrebbe sfiorare i 400 dollari al barile! A partire dal momento in cui il picco di Hubbert sarà stato raggiunto, i costi di estrazione e sfruttamento del petrolio non cesseranno di aumentare. Continuando a crescere la domanda, mentre l’offerta continuerà a decrescere, le conseguenze saranno esplosive. Il petrolio, come si è già detto, non è utilizzato infatti soltanto per i trasporti, ma rientra nella composizione di una quantità di prodotti di cui ci serviamo quotidianamente: materie plastiche, concimi, insetticidi, computers, giochi di costruzione, rivestimenti stradali, sedili di automobile, calze di nylon, ecc. Il rincaro dei prezzi porterà a concentrare l’utilizzazione del petrolio sugli usi a più forte valore aggiunto, come i settori dei trasporti e della chimica. L’industria aeronautica ne sarà colpita in pieno, come pure l’agricoltura (l’utilizzazione di concimi nel mondo è passata da 14 milioni di tonnellate nel 1850 a 141 milioni di tonnellate nel 2000). Anche il commercio internazionale sarà colpito: si cesserà di esportare o di far trattare di nuovo all’altro capo del mondo dei prodotti che possono essere consumati sul posto. Non avremo più pesci pescati in Scandinavia che partono per il Marocco per esservi svuotati, né consumeremo in Europa frutti provenienti per via aerea dal Cile o dall’Africa del Sud. Certi prodotti che hanno finora beneficiato del basso livello delle tariffe di trasporto, ridiventeranno dunque dei prodotti di lusso. Le delocalizzazioni perderanno una parte del loro interesse. Le grandi città, concepite a partire dal trasporto automobilistico, ne saranno a loro volta trasformate.
Le conseguenze per il sistema finanziario mondiale saranno ugualmente enormi. Attualmente, gli Stati Uniti traggono un considerevole profitto dal sistema dei petrodollari. Tutti i paesi che desiderano importare petrolio debbono prendere a prestito dollari per pagarlo, sostenendo così in modo artificiale questa divisa, che è al contempo una moneta nazionale e una unità di conto internazionale. In pratica, questo significa che gli Stati Uniti possono così permettersi un considerevole deficit commerciale senza immediate conseguenze. Se questo sistema si bloccherà, essi saranno i primi a soffrirne.
Anche prima che le riserve siano totalmente esaurite, l’aumento del prezzo del petrolio può dunque pesare in modo drastico sul suo sfruttamento. Per estrarre petrolio, carbone o sabbie bituminose, si ha infatti bisogno di energia, e dunque ancora di petrolio. In altri termini, può arrivare un momento in cui l’estrazione stessa non sarà più redditizia, qualunque sia il prezzo di mercato. Se bisogna bruciare un barile per estrarne uno, non lo si farà, anche se il prezzo del barile è di 10.000 dollari! È ciò che gli economisti classici non riescono a comprendere.
La speranza di molti è evidentemente di poter fare appello a energie sostitutive. Teoricamente, il loro numero è abbastanza grande, ma le possibilità che esse offrono sono tra le più limitate. I petroli non convenzionali, come gli oli pesanti del Venezuela e le sabbie bituminose del Canada, esigono, per essere estratti, quasi tanta energia quanta ne permettono di recuperare. Il gas naturale può servire a migliorare l’estrazione del petrolio o a fabbricare benzina di sintesi, ma, ancora una volta, consumando molta energia. Oltre al fatto che nemmeno le sue riserve sono inesauribili, la sua debole densità ne rende difficile il trasporto (il suo instradamento costa 4/5 volte più di quello del petrolio) e le installazioni per raffreddarlo e rigassificarlo sono costose. Le riserve di carbone sono più importanti, ma è un’energia molto inquinante e che contribuisce doppiamente all’effetto serra, poiché la sua estrazione provoca emissioni di metano (che possiede un effetto serra 23 volte più potente del CO²), mentre la sua combustione libera gas carbonico in grande quantità (1,09 tonnellata di carbone per tonnellata equivalente petrolio di carbone). Il problema essenziale dell’energia nucleare risiede, com’è noto, nello stoccaggio delle scorie radioattive, il cui tempo di vita è lungo (e in una catastrofe sempre possibile). Questa energia non è inoltre sostituibile al complesso petrolchimico e ai prodotti di consumo corrente che ne sono derivati. L’idrogeno è un vettore di energia, ma non una fonte di energia, e la sua produzione commerciale costa da 2 a 5 volte di più degli idrocarburi utilizzati per fabbricarlo. Inoltre, il prezzo del suo stoccaggio è 100 volte più alto di quello dei prodotti petroliferi, e ogni volta che si produce una tonnellata di idrogeno, si producono anche 10 tonnellate di CO²!
Le energie rinnovabili sono fornite dal vento, l’acqua, i vegetali e il sole. Per ora, rappresentano solo il 5,2% di tutta l’energia consumata nel mondo. Benché siano a priori più promettenti, sarebbe ugualmente illusorio sperarne troppo. I vegetali hanno una debolissima capacità energetica. La legno-energia (valorizzazione dei sottoprodotti della filiera-legno) implica una deforestazione intensa. I biocarburanti elaborati a partire dalla barbabietola, dalla colza o dalla canna da zucchero, come l’etanolo, hanno una resa abbastanza debole. L’energia solare, captata dalle cellule fotovoltaiche, ha anch’essa una resa limitata. Il solare termico è ancora oggetto di uno sfruttamento ridotto. L’energia idraulica è più competitiva, ma esige investimenti molto forti. L’energia eolica è molto conveniente, ma, tenuto conto della variazione dei venti, funziona solo tra il 20 e il 40% del tempo. Altri metodi, come il biogas, la talasso-energia, l’energia delle correnti sottomarine, ecc., hanno i loro limiti.
Restano delle tecniche di cui talvolta si parla, coma la fusione nucleare, la “fusione fredda”, il sequestro del carbonio o le centrali solari spaziali, ma la maggior parte di esse sono oggi allo stato di progetto, e quasi tutte necessitano di un consumo eccessivo di energia che rende incerto il loro prevedibile bilancio netto. D’altronde, la maggior parte delle energie alternative presentano motivi di interesse solo per l’esistenza di un petrolio a buon mercato. Occorre, ad esempio, molta energia per estrarre il carbone e instradare il minerale. Per fabbricare elettricità, occorre ancora energia, oggi fornita dal petrolio, il gas o il carbone. Allo stesso modo, i biocarburanti hanno bisogno di concimi e pesticidi, che furono all’origine della “rivoluzione verde”, ed esigono dunque petrolio per avere una resa sufficiente.
Ancora una volta, si può beninteso immaginare che in futuro saranno scoperte nuove forme di energia. In astratto, è sempre possibile, ma per ora fare una tale scommessa non è altro che un atto di fede. La verità è che, allo stato attuale delle cose, né le energie rinnovabili, né il nucleare classico, né le altre energie sostitutive conosciute dai ricercatori possono sostituirsi al petrolio con la stessa efficacia energetica e costi altrettanto esigui.
L’esaurimento programmato delle energie fossili ha già dato luogo a guerre per il petrolio. Nei prossimi decenni, sono prevedibili anche guerre per l’acqua. Tra il 1950 e il 2000, il consumo di acqua nel mondo è infatti più che triplicato. Nel corso degli ultimi sette decenni, è stato persino moltiplicato per sei. L’uomo consuma oggi circa il 55% dei volumi d’acqua disponibili senza tener conto delle piene e il 65% di questi prelevamenti sono legati ai bisogni d’irrigazione dell’agricoltura. Orbene, anche qui, la domanda non cessa di crescere, anche solo per il fatto della crescita demografica e dell’inquinamento della falde freatiche. L’acqua è dunque destinata a diventare un bene raro. A questo proposito, esistono già larvati conflitti fra la Turchia e i paesi vicini, tra Israele e la Palestina, tra l’India, il Pakistan e il Bangladesh, tra l’Egitto, l’Etiopia e il Sudan, ecc.
Secondo Peter Barrett, direttore del Centro di ricerca per l’Antartico dell’Università di Victoria (Nuova Zelanda), “la prosecuzione della dinamica della crescita attuale ci mette di fronte alla prospettiva di una scomparsa della civiltà quale la conosciamo non tra milioni di anni, e nemmeno tra millenni, ma da qui alla fine di questo secolo”.
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Sulla gravità della situazione, molti sono d’accordo. Ma sulla condotta da tenere i pareri divergono. La teoria oggi alla moda è quella dello “sviluppo durevole” o “sostenibile” (sustainable development), espressione che tende a sostituire, dall’inizio degli anni Ottanta, quella di “ecosviluppo”, lanciata nel 1973 da Maurice Strong, e poi ripresa da Ignacy Sachs, Gunnar Myrdal, Amartya Sen, Colin Clark, ecc., prima di essere progressivamente abbandonata.
Lanciata propriamente nel 1992, in occasione del “vertice della Terra” di Rio de Janeiro”, l’idea di sviluppo durevole è