Alain De Benoist – Pensiero unico e censura

Se si dovesse descrivere l'attuale situazione politico-intellettuale in termini metereologici, si direbbe che il tempo é uggioso. Nel campo delle idee, il clima si fa anzi francamente irrespirabile. L'assenza di dibattito é oggi la regola, e si assiste alla moltiplicazione, nella sfera giuridica come in quella del costume, di atteggiamenti e prassi di esclusione ogni giorno più pesanti e insopportabili.

 

 Per descrivere questo clima1, hanno fatto la loro comparsa espressioni nuove. Adesso si parla correntemente di "pensiero unico", di "nuova Inquisizione", di "politicamente corretto", o anche di "polizia del pensiero". Bastano queste espressioni a rivelare il ritorno in forze della censura, cosa che ovviamente non si può non deplorare. In questo campo, però, la semplice deplorazione non può bastare. Bisogna anche studiare i meccanismi di questa nuova intolleranza, analizzarne le molle esatte, metterne in luce le finalità profonde.
Parliamo dal pensiero unico, che é un fenomeno piuttosto diverso da quello della nuova Inquisizione. Il pensiero unico si crea evidentemente quando tutti pensano la stessa cosa – o, per essere più precisi, quando le èlites politiche e massmediali parlano grosso modo la stessa lingua. Ma perché parlano la stessa lingua? E qual é la fonte di questo straordinario conformismo, che oggi viene distillato identicamente da tutti I grandi mezzi di informazione?

                                              Origini del pensiero unico.
Per rispondere a questa domanda occorre risalire parecchio all'indietro nel tempo. Per cogliere appieno la natura del pensiero unico, non si deve esitare a risalire alla fine del XVII secolo, al momento in cui, sotto il duplice patrocinio di Cartesio e di Francis Bacon, iniziano a farsi strada teorie che reinterpretano la politica alla luce dello spirito tecnico. Frèdèric Rouviliois ha potuto affermare che la modernità "si caratterizza fondamentalmente per la pretesa di agire con le modalità dell'agire tecnico". A partire dalla fine del XVII secolo, lo spirito tecnico si sviluppa infatti assieme ad una nuova rappresentazione del mondo, che fa del cosmo un immenso meccanismo. Il cosmo viene percepito come una realtà geometrica, uniforme e infinita, e il modello che consente di interpretarlo é quello dell'orologio: "La macchina dell'universo é simile a un orologio", dirà Fontenelle. Parallelamente, anche il tema eminentemente tecnico e mercantile dell'utilità si impone come un Leitmotiv dell'esistenza. Bacone, ad esempio, proclama l'intenzione di " gettare le basi di un tempio consacrato all'utilità comune ". Quello " spirito geometrico ", quella concezione meccanicista dell'universo, quell'utilitarismo generalizzato ben presto verranno trasposti all'interno della società, con l'effetto di collocare la politica nel solco della tecnica, a sua volta pensata attraverso il proprio processo di dispiegamento nel tempo, ovvero come progresso.
L'abbè de Saint Pierre, che, ricordiamolo en passant, fu l'inventore della parola " uniformare ", afferma ad esempio che " la macchina politica, ben costruita, una volta che abbia il suo movimento, agisce da sola [… ] e si dirige da sola verso la più grande utilità pubblica ". Egli aggiunge che il comportamento che si accorda meglio con tale utilità pubblica é il comportamento razionale. La politica non deve più, dunque, essere problema di volontà o di decisione, bensì di azione conforme alla ragione. L'azione politica deve mirare a diventare "trasparente", cioè a dissipare l' "opacità" che consegue dall'intervento di fattori non riducibili alla pura ragione. In questa visione meccanicistica del sociale, il sovrano svolge il ruolo di capo meccanico.
Secondo l'abbè de Saint-Pierre, "un grande Stato può essere considerato una grande macchina che il re deve far muovere da diverse molle di diversa natura ". A lungo andare, tuttavia, quel sovrano diventerà a sua volta inutile, dal momento che l'obiettivo perseguito é l'ordine automatizzato. La macchina sociale, scrive ancora l'abbè de Saint Pierre, " si ricaricherà eternamente, sarà un movimento perpetuo, che tramite il succedersi, degli uomini si trasforma In una macchina eterna, che funziona sempre fino a che le ruote sono ben ingranate le une nelle altre ".
All'epoca, altri due fenomeni spingono nella medesima direzione. Da un lato la crescita d'influenza della sfera economica, che, dopo aver affermato la propria autonomia nel confronti del politico, comincia ad impregnare le menti dei suoi elementi caratteristici: il calcolo razionale in termini di costi e benefici, la riduzione di tutto ciò che vale ai soli valori calcolabili. Dall'altro l'idea liberale di uno Stato neutrale dal punto di vista dei valori, che si pone come regola fissa l'impegno a non porre mai il problema della vita buona o del bene comune, cioè il problema delle finalità. Questi vari fattori si coniugano nella prospettiva di sottrarre la vita politica alla influenza perturbante del caso e delle passioni, onde giungere a una società razionale, nella quale l'individuo abbia lo status di un atomo o di un ingranaggio e l'armonia generale risulti dalla volontà di ciascuno di perseguire il suo miglior interesse, ovvero di massimizzare l'utilità individuale.
Nel XIX secolo ritroviamo questo schema non solo nei grandi utopisti, i quali propongono regolarmente come città ideali costruzioni puramente razionali, ma anche in Auguste Comte e soprattutto in Saint-Simon, che é generalmente considerato il fondatore della tecnocrazia. L'idea fondamentale della tecnocrazia, come ha scritto Claudio Finzi, é infatti " la convinzione radicale che sia necessario, per il bene dell'umanità, apportare nel mondo confuso e variabile della politica la precisione metodologica delle scienze positive e naturali.
Conviene, in altri termini, sostituire il mondo dell'incertezza politica con l'universo della certezza scientifica e tecnica. Per effettuare questa sostituzione, é indispensabile affermare preventivamente che per l'intera umanità esiste un unico scopo, noto a tutti e insostituibile. Mentre uno dei fondamenti della politica consiste per l'appunto nella scelta dei fini, la pretesa tecnocratica elimina questa scelta grazie all'unicità di un fine predeterminato e noto a tutti, fine che sino ad ora é stato esclusivamente identificato con il progresso economico continuo, sempre più nazionalizzato e meglio organizzato.

                                     Obbligati, costretti verso un'unica direzione.
Qui si vedono nitidamente disegnarsi i fondamenti del pensiero unico. Nella prospettiva che abbiamo or ora indicato, la società non deve infatti tanto essere governata o diretta, quanto piuttosto amministrata e gestita.
Si tratta, come dice Saint-Simon, di sostituire il governo degli uomini con l'amministrazione delle cose. Ma sin dal momento in cui il benessere materiale, lo sviluppo economico e l'ossessione produttivista vengono ad essere identificati con la realizzazione dell'uomo, non vi é più bisogno di immaginare altre finalità. Da allora in poi, la politica non consiste più nel decidere tra finalità, ma nel sentenziare fra mezzi: gli stessi partiti si scontrano ormai solo sulla definizione dei mezzi migliori per giungere ai medesimi scopi.
" Le soluzioni ai problemi dell'uomo ", scrive ancora Claudio Finzi, " saranno determinate in maniera univoca in riferimento a un fine unico e seguendo criteri tecnico-scientifici. E nella maggior parte dei casi non vi sarà che un'unica soluzione ottimale al problema, e di conseguenza un unico modo ottimale per arrivare alla soluzione così delimitata" . Se infatti la politica non é che questione di expertise amministrativa, allora ogni problema politico non é altro che un problema tecnico, che può essere risolto con le sole risorse del calcolo razionale, il quale deve consentire di individuare una soluzione unica, che si impone logicamente alla ragione di tutti.
Questo approccio tecnocratico estromette con ogni evidenza l'uomo dalla propria storia e sfocia da un lato in una fondamentale neutralizzazione di tutti i sistemi di pensiero o di credenza con esso incompatibile e dall'altro in una deconflittualizzazione di fatto dell'azione politica. Se infatti l'azione politica non deve più pronunciarsi sulla scelta dei fini, la lotta per il potere e la competizione democratica non hanno più ragion d'essere, giacchè é inutile lottare per qualcosa che é preventivamente definito. I partiti possono ancora affrontarsi sui mezzi mettendo a confronto le rispettive "soluzioni", ma in ultima analisi quelli che detengono il potere alla fine non potranno far altro che agire secondo le regole della scienza e della tecnica, cioè rimettendosi agli esperti.
Il pensiero unico, preso nei suoi fondamenti, rappresenta quindi in primo luogo la conseguenza dell'invasione del politico da parte della mentalità economica e tecnica, che riduce i problemi sociali a problemi tecnici per i quali, per definizione, non può esistere che un'unica soluzione. Il progresso tecnico viene nel contempo concepito come il metro della storia, il mercato diviene il modello di tutti gli scambi sociali e la legittimità si riduce progressivamente alla sola legalità.
Nel XX secolo, questa aspirazione é stata a lungo mascherata da tutta una serie di tensioni, fra le quali la lotta di classe, lo scatenarsi delle ideologie in concorrenza e lo svolgimento delle due guerre mondiali.
Oggi ricompare con forza, in un momento nel quale le vecchie ideologie sembrano registrare il fallimento, i modelli alternativi sono crollati, il discorso dei partiti politici si condensa a tal punto da diventare inafferrabile, la stampa di opinione scompare di fronte a mezzi d'informazione sempre più numerosi ma che, fra una pubblicità e l'altra, veicolano fondamentalmente lo stesso messaggio.
L'idea-chiave é che ormai viviamo in un orizzonte di fatalità, di una fatalità rappresentata da costrizioni oggettive che il "realismo" deve condurci ad accettare l'idea che il presidente Kennedy esprimeva già oltre trent'anni fa, quando diceva che " le etichette e le posizioni ideologiche non hanno alcun rapporto con le soluzioni". Essa sottintende anche la fede in una "fine della storia " o in una " fine delle ideologie "  -credenza di cui pure é stato numerose volte dimostrato il carattere profondamente ideologico", chi ha quale corollario l'affermazione secondo cui solo degli imbecilli o dei perversi possono ostinarsi a rifiutare il consenso generale che si é oggigiorno creato attorno al modello di società dominante. Nel contempo, si sostiene anche l'idea dell'ineluttabile convergenza dei sistemi e dei programmi, che sarebbero tutti desti nati a fondersi in un identico discorso di legittimazione della tecnostruttura. La conclusione che se ne trae é la scomparsa di fatto di ogni possibilità di contestazione radicale del sistema mercantile di sfruttamento capitalistico. In questo modo, si mira ad annientare ogni speranza e a disarmare ogni volontà di cambiare la società. Si mira altresì a legittimare, una nuova forma di fatalità, ancor più alienante e disperante dei determinismi di un tempo. L'urbanizzazione e l'esodo dalle campagne, la generalizzazione del sistema salariale, l'onnipresenza della tecnica, il primato dei valori mercantili, la crescita dell'individualismo, le modalità di costruzione dell'Europa di Maastricht, per citare solo alcuni esempi, sono stati pertanto presentati come fenomeni inevitabili, come processi di cui non avrebbe senso discutere il valore, il significato, l'opportunità o la finalità.
Sul piano mondiale, la spettacolare estirpazione, sotto l'effetto dell'ordine neoliberale, di tutte le identità collettive, di tutte le sovranità locali, di tutte le specificità politico-culturali, viene a sua volta presentata come il risultato di un fatale processo di mondializzazione. La regolamentazione attraverso il mercato é vista come l'unico mezzo per aver ragione della crisi che sta colpendo in pieno il mondo capitalista. La guerra concorrenziale e la fuga in avanti in una crescita cieca si trasformano in altrettante fatalità che si possono eventualmente correggere, ma non possono essere seriamente rifiutate. Il mercato é presentato come un fatto "naturale", un arbitro infallibile dell'interesse economico che sarebbe irrealistico voler controllare, cosicchè l'unico criterio di decisione sarebbe ormai la ricerca del massimo profitto per il capitale investito.
Come ha detto Alain Minc: " Il capitalismo non può crollare, é lo stato naturale della società. La democrazia non é lo stato naturale della società. Il mercato, sì".
L'intero discorso politico odierno si fonda dunque su presunte "costrizioni" inaggirabili, che in realtà non sono altro che credenze ideologiche sistematicamente presentate come fatti oggettivi che dovrebbero imporsi a tutti. Con un gioco di prestigio intellettuale, quello che é solo un giudizio di valore, un'ipotesi azzardata o una scelta surrettizia, viene presentato come un fatto. Il senso delle realtà é perciò commutato in sottomissione ai diktat della ragione mercantile, secondo i quali il sociale dovrebbe essere confuso con il mercato e l'efficacia dovrebbe fungere da criterio della propria valutazione. Ogni altro valore é respinto perché reputato non pertinente, ogni altra prospettiva é tacciata di utopismo. Per il pensiero unico, mettere in dubbio una delle affermazioni dell'ideologia dominante significa già uscire dal dibattito.
Il discorso del pensiero unico ci assicura che le odierne società industriali non hanno altra soluzione se non incamminarsi sulla via del libero scambio generalizzato e della concorrenza deregolamentata su un mercato che é diventato mondiale. Il fatto che questa evoluzione abbia quali conseguenze l'aumento della disoccupazione, la stagnazione o il calo dei salari, la precarizzazione dei posti di lavoro, l'emarginazione di strati di popolazione sempre più ampi, la distruzione dell'ambiente naturale, la disorganizzazione delle culture tradizionali e l'implosione del legame sociale, non impedisce al pensiero unico di ripetere non solo che la via che esso propone é la migliore, ma anche che é l'unica possibile, e che essa ci condurrà all'opulenza. "è una delle situazioni più bizzarre ", ha commentato di recente William Pfaff". Il neoliberalismo sta distruggendo la prosperità o i mezzi di sostentamento di centinaia di migliaia di persone in nome del benessere delle generazioni future. L'ideologia economica regnante, il ' "pensiero unico", ha generato un nuovo capitalismo: da macchina per creare ricchezze e migliorare le condizioni di vita, quale era stato dal 1940 al 1980, esso si é trasformato in una macchina per impoverire ampi gruppi sociali e distruggere posti di lavoro, il tutto ad esclusivo beneficio, almeno per il momento, di una ristretta classe di managers e di una classe più estesa di azionisti".
Ecco dunque l'origine e il punto d'arrivo del pensiero unico. Esso crea oggi uno straordinario conformismo, che rende realmente insopportabile qualunque idea dissidente. In un momento in cui la latitanza del pensiero critico é più sbalorditiva che mai, il pensiero unico appare prima di tutto come un prodigioso dispositivo di normalizzazione mirante ad escludere il pensiero non in conformità. " Homo economicus cammina sopra gli ultimi uomini ", scriveva a suo tempo Paul Nizan. "E' contro gli ultimi esseri viventi e vuole convertirli alla sua morte ".

                                       Le nuove censure: libri e autori scomodi
Non spenderemo molte parole sul " PC ", sigla che, come tutti sanno, oggi non indica più il partito comunista anch'esso in via di rapida normalizzazione, bensì il " politicamente corretto ", dal momento che questo sistema, che ci é stato trasmesso dagli Stati Uniti, rimane, se lo si osserva da vicino, largamente tributario di taluni tratti specifici della società americana, in particolare il puritanesimo. Ci limitiamo a ricordare che esso colpisce in primo luogo i codici linguistici. Mirando a far scomparire ogni termine o espressione che potrebbe essere giudicato offensivo da un determinato gruppo o da una certa comunità, lo si può considerare, come ha suggerito Pierre-Andrè Taguieff, alla stregua di una sorta di "eugenetica lessicale negativa", nella quale si esprime una specie di impulso alla rifinitura del vocabolario.
Parleremo invece più a lungo della nuova Inquisizione, vale a dire di tutti quei fenomeni d'intolleranza e di censura che vediamo oggi moltiplicarsi in Francia. Sicuramente non si tratta di fenomeni completa mente nuovi. Ma é nondimeno vero che, dai primi anni Ottanta in poi, essi hanno assunto una particolare ampiezza e attualmente rivestono un carattere sistematico. Non passa più una settimana, infatti, senza che scoppi un nuovo caso in cui l'intolleranza si coniuga con l'incultura e la stupidità. Sintomo che non può ingannare: non passa neppure una settimana senza che si vedano circolare di soppiatto scritti più o meno clandestini, perfettamente paragonabili a quelli che nell'Unione Sovietica dell'epoca brezneviana venivano, chiamati samizdats. Dato rivelatore: autori che dieci, venti o trent'anni fa erano correntemente pubblicati dai più grandi editori oggi vengono tagliati fuori dai circuiti editoriali principali. Giornalisti o intellettuali che, ancora dieci anni fa, avevano regolarmente accesso alle tribune libere dei grandi quotidiani, se ne vedono oggi escludere. Lo stesso mondo dell'editoria é cambiato. Alla maggior parte degli editori, quasi tutti acquistati da grandi gruppi finanziari, il contenuto dei libri che pubblicano non importa minimamente.
Il sistema editoriale e massmediale si é trasformato in un'ampia struttura di connivenza, nella quale l'abitudine alle citazioni reciproche consente di chiudere a doppia mandata il sistema, facendone un salotto per pochi intimi. Gli autori vengono reclutati per cooptazione, in funzione della loro appartenenza a questo o a quel clan, a questa o a quella rete di relazioni. La critica sì riduce essenzialmente ad articoli compiacenti che permettono di incensarsi vicendevolmente facendo fronte comune contro i guastafeste. In queste condizioni, é facile vergare liste nere di libri che non si devono più recensire, di giornalisti a cui é il caso di tagliare il microfono. Certe conventicole non si fanno pregare per farlo, e gli editori cedono sempre più arrendevolmente al ricatto, ad esempio quando si astengono dal pubblicare opere che potrebbero causare alla loro produzione il boicottaggio del supplemento letterario di un certo grande quotidiano della sera [il riferimento é a " Le Monde ", ndt].
Comportamenti di questo genere sono diventati oggi usuali. Ci sono editori minacciati di boicottaggio se pubblicano autori non politicamente corretti: minaccia che può venire da un giornale oppure da un centro di potere universitario o da altri autori del loro stesso catalogo. Ci sono librai che si rifiutano di mettere in vendita libri dì cui non apprezzano il contenuto. Ci sono curatori di opere collettanee che rinunciano all'ultimo momento a pubblicare articoli che pure avevano richiesto. Ci sono editori esclusi da un salone del libro con la motivazione che la loro produzione non é conforme alle convinzioni personali degli organizzatori. Ci sono stands saccheggiati al Festival del Libro, mentre gli editori presenti fanno circolare petizioni per condannare non i saccheggiatori ma i saccheggiati. E' dunque evidente che nell'editoria bisogna ormai piegarsi al rito delle scomuniche rituali; altrimenti si viene messi fuori gioco. " L'importanza di un libro fra un po' si misurerà unicamente in base al silenzio che lo circonda ", ha scritto di recente Michel Mourlet.
Nel frattempo, assistiamo al moltiplicarsi di processi, intentati da pubblici ministeri o da gruppi di pressione, il cui obiettivo é di far tacere chi disturba colpendolo nella tasca. Non si condannano più solo gli atti, ma anche le opinioni, anche quelle espresse in maniera indiretta o allusiva. Si adottano leggi ad hoc, cioè leggi di circostanza, esplicitamente dirette contro determinati individui o gruppi, che instaurano certezze storiche obbligatorie per legge, la cui contestazione diventa sanzionabile sul piano giudiziario. La verità storica diventa di competenza del diritto, mentre i giudici vengono trasformati in ausiliari di una "memoria " dichiarata in pericolo. Libri e giornali vengono messi all'indice da un organismo che – o numi di George Orwell! – é denominato " direzione delle libertà pubbliche" . Ci sono professori universitari che, per aver citato Lutero o san Tommaso, si ritrovano dinanzi a tribunali che sono continuamente in seduta. La legislazione sul diritto di replica, definita da una giurisprudenza costante "un diritto generale e assoluto", non viene più rispettata. Pronunciandosi sulle preferenze o sulle esecrazioni, orientando i comportamenti e censurando le idee – insomma, instaurando un vero e proprio codice di comportamento morale -, la legge pretende in tal modo di esercitare la propria giurisdizione sull'esistenza persino nell'ambito privato.
Nelle Università, operazioni costruite ad arte a colpi di petizioni e denunce pubbliche hanno l'effetto di togliere la cattedra a insegnanti sospetti di devianza rispetto all'ideologia dominante. Ci sono ricercatori radiati dalle liste dei candidati ai posti di professore perché non hanno orientato o modificato i loro lavori nel senso opportuno. Ci sono docenti vittime di interdizioni alla professione e costretti alla disoccupazione per aver pubblicato dieci righe ritenute inaccettabili in una rivista a diffusione ristretta. Altri vengono disturbati durante i corsi, aggrediti fisicamente, a volte malmenati. Altri ancora si trovano privati dei diritti civili o familiari. E si arriva al punto di vedere bambini cacciati dal collegio per punire i genitori dei cattivi pensieri manifestati. Scienziati i cui lavori sperimentali smentiscono l'odierna credenza nell'onnipotenza dell'ambiente nella determinazione delle capacità intellettuali vengono pubblicamente accusati di ciarlataneria. Critici d'arte che si lamentano della nullità di talune produzioni plastiche o musicali contemporanee vengono trattati da "nazisti". Avvocati sono minacciati di radiazione dall'ordine. Emittenti radiofoniche vengono chiuse per aver avuto una concezione troppo estensiva della libertà di parola. Ci sono postini che invocano una pretesa – clausola di coscienza " per rifiutarsi di smistare o distribuire giornali o messaggi pubblicitari che non sono di loro gusto.
Si sono visti persino gruppi di pressione reclamare dai pubblici poteri la creazione di commissioni incaricate di – valutare – il contenuto delle pubblicazioni che giudicavano sospette. Si sono viste biblioteche municipali escludere dal propri scaffali libri decretati " nocivi " o – cattivi ". Si é vista l'archivista di un liceo della regione parigina mobilitare con successo la stampa e un rettorato accademico attorno allo scandalo costituito dalla presenza nel suo istituto di libri " o pericolosamente revisionasti e xenofobi, o che sostengono tesi monarchiche, ultranazionaliste e fanno l'apologia dei crimini di guerra" (sic); libri di cui, come é stato poi appurato, i suifurei autori si chiamavano Aleksander Solzenicyn — che in tal modo veniva simbolica mente rispedito nel Gulag -, Jean-Frangois Deniau, Alain Peyrefitte, Jacques Bainvilie, Andrè Castelot, Raymond Cartier, Marc Fumaroli, Jean-Franrois Chiappe, Alain Madelin, Pierre-Andrè Taguieff e Guy Sorman. Infine, si é visto un ministro far appello al pluralismo contro la censura e poi denunciare come "censura" un'applicazione integrale del pluralismo, che rischierebbe di tradursi in "decisioni scandalo se in materia di acquisizione" (sic).
Per screditare degli autori, sono nati ormai gli specialisti delle inchieste sulle loro biografie, come se quel che essi hanno fatto in vita potesse dirci qualcosa sul valore letterario dei loro romanzi o sul valore di verità delle loro teorie. Si estraggono dalle loro opere citazioni distanti trent'anni l'una dall'altra, presentandole come se fossero state scritte nello stesso periodo, e sulla base di esse si estrapola un giudizio d'insieme sulla loro opera. Ci si impadronisce dei loro " peccati di gioventù ", si fruga nel loro passato, come se la vita di un uomo potesse essere ricondotta a un episodio della sua esistenza.
Ma non ci si occupa solamente dei vivi. Si fanno anche processi ai morti. Si rilegge l'intera storia sul registro dell'anacronismo, passando le opere del passato al vaglio delle idee che oggi sono di moda, senza tener conto dell'epoca nè del contesto. Di volta in volta, Georges Bataille, Andrè Gide, George Orwell, Alexis Carrel, Ernest Renan, Georges Burqèzil, Emile Cioran, Mircea Eliade, Jean Genet, Antonin Artaud, Lèo Malet, Ezra Pound, Paul Morand, Colette, Baudelaire, Hemingway, Vladimir Nabokov, Montheriant, Carl Schmitt, Jack London, Marguerite Yourcenar, Heidegger, e persino Shakespeare, Voltaire, Balzac o Dostojevskij, per citarne disordinatamente solo alcuni, si vedono convocare a titolo postumo dinanzi a tribunali di carta che pretendono di operare una revisione della loro posizione nel mondo letterario o nella storia delle idee il che permette di togliere i loro nomi dalle targhe stradali o dalle facciate degli istituti scolastici a loro intitolati.
L'epurazione del 1945 non é stata sufficiente. Le si aggiunge ogni giorno un post scriptum rifacendo il processo a Cèline o trasformando Carrel in "precursore delle camere a gas", mentre ci sono avversari della pena di morte che esprimono pubblicamente il rimpianto di non poter fucilare Brasillach una seconda volta.
Non si é del resto vista di recente la Banca di Francia rinunciare a raffigurare su una banconota l'effigie dei fratelli Lumiére, inventori del cinema, perché costoro avevano sostenuto il governo di Vichy – e questo nello stesso momento in cui all'Eliseo sedeva un uomo [Mitterrand, ndt] a suo tempo decorato dell'ordine della Francisque [istituito da Pètain per ricompensare chi aveva ben meritato ai suoi occhi, ndt]?
La santissima congregazione dell'indice, soppressa a Roma dal 1966, ha rifatto capolino nelle redazioni dei giornali parigini. Partendo dall'idea che non c'é fumo senza fuoco, qua e là si creano " collettivi " o "osservatori " che predicano la " vigilanza " o fanno appello, sulla scia di un grande giornale della sera, a una "costante intolleranza". Da queste fucine escono libri ricolmi di fantasmatici organigrammi e petizioni che si é invitati perentoriamente a firmare, a rischio di essere altrimenti denunciati come complici. Per "smascherare", "confondere", "allarmare", "mobilitare", cioè, detto in chiaro, per denigrare e calunniare, i fatti e le gesta delle personalità sospette vengono passati in rivista in un'ottica veramente poliziesca. Se ne sorvegliano gli spostamenti, ci si informa sulle relazioni che intrattengono, si raccolgono "indizi", si creano schedari, se ne soppesano gli scritti e le parole per trovarvi "prove" di "scostamenti dalla norma" o di "scivoloni". Si fanno inchieste per scoprite fatti che possano essere gonfiati, si procede agli accostamenti più surreali. Si fabbricano di sana pianta "complotti" da usare come spauracchi, portando immediatamente agli estremi il metodo della generalizzazione priva di sfumature e dell'ossessione comparativa.
Questa letteratura delatoria adotta sempre li stessi metodi: la commissione, il processo alle intenzioni, l'estrapolazione abusiva, la petizione di principio, la citazio

Redazione