Con la sua Bibliographie générale des droites françaises (Dualpha, Coulommiers, 2004-2005) Alain de Benoist invita implicitamente tutti coloro che si dicono “di destra” ad interrogarsi sulla loro identità ideologica. Ma lui si considera ancora “di destra”? Una domanda fra le altre tra quelle che Michel Marmin gli ha posto.
Quattro volumi che contengono in totale quasi tremila pagine, l’opera di una trentina di autori definiti “di destra” passata al setaccio, decine di migliaia di riferimenti: ci si accorge subito dell’immenso lavoro rappresentato dalla tua Bibliographie générale des droites françaises, i cui due ultimi tomi sono da poco usciti. Ma ci si chiede a cosa corrisponda questo lavoro, e per quali ragioni tu lo abbia intrapreso.
Si potrebbe sicuramente parlare di hobby. Per compilare seriamente una bibliografia, bisogna essere minuziosi fino al perfezionismo, fare attenzione ai minimi dettagli, avere una vocazione più o meno “enciclopedica” e, soprattutto, la mentalità del collezionista. Sin dall’infanzia, ho l’impressione di aver collezionato tutto quello che era possibile collezionare. Le cose non sono migliorate quando ho iniziato ad ammassare libri! Ho quindi cominciato a compilare queste bibliografie partendo dalla mia biblioteca personale, dopodiché è arrivato Internet con tutte le sue straordinarie risorse, che mi hanno premesso di accedere ai cataloghi di tutte le biblioteche nazionali e di tutte le biblioteche universitarie del mondo. Io adoro i dizionari, le enciclopedie, i libri di riferimento, le note a piè di pagina (il vecchio sogno “labirintico”, alla Borges, del “libro che contiene tutti i libri”). Ho provato un vero piacere nello scrivere un’altra opera di riferimento. Ciò detto, questo lavoro non ha solo un che di passatempo. Se ci si interessa a un autore, è del tutto naturale volerne possedere la bibliografia. Le bibliografie non si rivolgono soltanto agli studenti o ai ricercatori. A mio parere, sono il complemento naturale di una biblioteca.
Mi sembra che nelle tue bibliografie manchino quattro nomi importanti: Léon Bloy, Paul Valéry, Robert Poulet e Dominique de Roux. Ne aggiungerei un quinto, che oggi non si legge più (forse a torto), ma la cui influenza è stata almeno altrettanto importante quanto quella di Barrès e di Maurras: Paul Bourget. Perché?
La mia bibliografia ha un bell’essere “generale”, ma non ha mai preteso di essere esaustiva! Inoltre, è il riflesso delle mie letture e delle mie scelte. Nella prefazione al terzo volume, del resto, cito i nomi di molti altri autori che avrei potuto studiare, da Rivarol e Chateaubriand fino a Paul Sérant e a suo fratello, Louis Salleron, passando per Léon Bloy, Jacques Maritain, Paul Morand, La Varende o Roger Nimier. Avrei dovuto aggiungervi quelli di cui tu parli, a cominciare da Paul Bourget, la cui influenza è stata in effetti considerevole, ma anche Hippolyte Taine, Fustel de Coulanges, ecc. Robert Poulet è un caso a parte, poiché era di nazionalità belga. Ti ricordo peraltro che la mia bibliografia riguarda unicamente autori deceduti. Per il momento, non prevedo di pubblicare nuovi volumi, ma sono il primo a sapere che cosa vale questo genere di decisioni… Per adesso, lavoro su un’enorme bibliografia di Carl Schmitt che uscirà in Germania. Non è escluso che ritorni in seguito agli autori francesi.
Fra gli autori che hai “bibliografato”, qual è quello (quelli) a cui ti senti più vicino e quali sono quelli a cui ti senti più lontano, o addirittura per i quali senti avversione? Personalmente, ho l’impressione che gli autori con i quali hai più affinità siano i meno “di destra”. Péguy in primo luogo, ovviamente (che a mio parere non lo è affatto).
Avendo sempre considerato infermi gli uomini di destra che non hanno una cultura di sinistra e gli uomini di sinistra che non hanno una cultura di destra (il che fa ritenere, non fatico a riconoscerlo, a problemi, che esista una grande maggioranza di infermi), il mio gusto mi porta in effetti verso gli autori meno emiplegici: quelli che hanno saputo sostenere nel contempo, o in sequenza, posizioni “di sinistra” e “di destra”, oppure gli autori di sinistra che hanno esercitato un’influenza a destra (o viceversa). Insomma, gli inclassificabili o i difficilmente classificabili. Péguy ne è un esempio tipico, giacché si è convertito al nazionalismo mistico senza mai rinnegare il socialismo dreyfusardo della sua prima Jeanne d’Arc. Amo altresì l’immenso Renan, che la destra ha accusato di essere una sorta di diavolo per la sua Vità di Gesù, prima di incensarlo meno di dieci anni dopo per la sua Riforma intellettuale e morale. Il caso di Georges Sorel è egualmente esemplare, se si considera la sconcertante diversità della sua progenie. Ecco un autore che non è invecchiato! Ma lo stesso accade con Tocqueville, di cui troppo spesso si conosce solo La democrazia in America, quando invece il suo libro più importante è, a mio parere, L’Antico Regime e la Rivoluzione. Ho, ancora, un favore particolare per Georges Valois, un autore certamente meno importante ma altrettanto “trasversale”. Non il Valois che si è creduto “fascista” per tre o quattro anni, ma il Valois del secondo periodo, il teorico della Repubblica sindacale che difese il distributismo fino alla morte in deportazione. Su un piano più letterario, non mi stanco mai di rileggere Montherlant. Quanto al temperamento, le due figure che più mi toccano, per ragioni completamente opposte, sono senza dubbio quelle di Bernanos e di Drieu.
Non provo avversione per nessuno, ma ci sono effettivamente autori che mi sono completamente estranei. Penso ad esempio a Louis de Bonald, che fra i controrivoluzionari è ben lungi dall’avere la profondità di vedute e il lato visionario di un Joseph de Maistre, o ancora ad Henri Massis, l’autore di Défense de l’Occident (1927). Aggiungiamoci Léon Daudet, formidabile polemista dagli slanci truculenti, ma di cui trovo le opere, in particolare i romanzi, tanto deludenti quanto invecchiati.
Nella prefazione al tuo libro, sottolinei che la destra francese non ha mai amato molto gli intellettuali, e che i suoi principali talenti non si sono affatto rinnovati. Ti sei tuttavia sforzato di scartare i romanzieri e i poeti per accogliere soprattutto i teorici e gli ideologi. Orbene, quel che caratterizza più profondamente l’“uomo di destra” – lo hai detto tu, del resto – è piuttosto lo stile, l’etica. E non sono forse i romanzieri e i poeti ad esprimere al meglio l’essenza della destra? Diciamo, per rimanere nella “forchetta” storica che hai scelto, da Baudelaire a Michel Houellebecq, passando attraverso Paul Morand, Jean des Vallières, Roger Nimier e Michel Mourlet? I due “veri” pilastri fondatori della destra francese non sono Stendhal e Balzac (che era altresì un grande ideologo), ben più che de Maistre e de Bonald? Inoltre, Jean Cau, Drieu La Rochelle e Montherlant, che tu hai incluso, non sono più di destra (e in ogni caso più grandi scrittori) per i loro romanzi che per i loro scritti politici?
Qui tocchi un argomento vasto. È vero che, per temperamento, mi sono interessato più ai teorici che agli scrittori puri, il che ovviamente non toglie nulla all’importanza che attribuisco alla letteratura. D’altro canto, è egualmente vero che l’“essenza della destra”, ammesso che ne esista una, si è spesso espressa meglio in opere letterarie che in lavori strettamente teorici. Tuttavia, constatiamo un contrasto che colpisce tra la fine del XIX secolo, epoca privilegiata in cui i teorici di destra sono una legione ed era possibile leggere quasi contemporaneamente Taine e Renan, Gobineau e Tocqueville, Barrès e Rochefort, Sorel e Proudhon, e l’epoca successiva. Nel XX secolo, la destra francese diviene essenzialmente letteraria. Maurras e Barrès, ai quali si pensa spontaneamente quando si tratta di evocare dei “teorici di destra”, furono anche, se non principalmente, uomini di lettere. Lo stesso fascismo francese fu soprattutto un fascismo letterario. Vi furono, certo, alcune belle eccezioni (penso in particolare alla galassia dei “non conformisti degli anni Trenta”), ma niente di comparabile a ciò che si era conosciuto nel secolo precedente. Ebbene: quel che è interessante, è il fatto che le cose non vanno allo stesso modo nella destra italiana, spagnola o tedesca, come testimoniano gli esempi di un Giovanni Gentile, di un Ortega y Gasset, di un Ugo Spirito, di un Vilfredo Pareto, di un Oswald Spengler, di un Max Weber, di un Othmar Spann o di un Carl Schmitt. Sembra quindi che in ciò vi sia qualcosa di specificamente francese, che meriterebbe senz’altro di essere analizzato.
Va inoltre detto che, a partire dal caso Dreyfus, la destra francese non ha di fatto mai troppo amato gli intellettuali. Non è un caso se l’espressione “intellettuale di sinistra” è stata a lungo un pleonasma! Per molte persone di destra, gli intellettuali, sempre “in sedia a sdraio”, beninteso, non sono altro che insopportabili “datori di lezioni” che martirizzano le mosche, spaccano il capello in quattro e pubblicano opere inevitabilmente descritte come “indigeste” e “noiose”.
Questa vulgata la si ritrova negli ambienti più diversi. Per i liberali, gli intellettuali sono per forza di cose “sconnessi dalla realtà”. Per gli attivisti, essi dissertano del senso degli angeli mentre ci si trova in uno stato di “urgenza”. Ho sentito questi discorsi durante tutta la mia vita. Va da sé che questo atteggiamento ha anche un versante positivo: una certa preoccupazione per la concretezza, una certa diffidenza nei confronti delle astrazioni inutili o del puro intelletto, il desiderio di affermare le prerogative dell’anima su quelle della mente, di far prevalere l’organico sulla “carestia” teorica, la speranza (sempre delusa) di ritornare a una vita non problematica, eccetera. La destra è più sensibile alle qualità umane che alle capacità intellettuali. Le piace ammirare più che capire, attende esempi più che lezioni. Ama lo stile, il gesto, gli atteggiamenti cavallereschi. Non ha torto. Una società composta interamente da intellettuali sarebbe invivibile. Il problema è che un atteggiamento di questo genere, quando diventa sistematico, finisce nel fare a meno di ogni dottrina, nel rifiutare ogni sforzo del pensiero.
L’intellettuale può essere definito come colui che cerca di capire e di far capire. La destra, molto spesso, non cerca più di capire. Addirittura ignora ciò che può essere il lavoro del pensiero. Il risultato è che la cultura di destra oggi è praticamente scomparsa. Sopravvive unicamente in cenacoli confidenziali, nell’editoria marginale, in giornali di cui è l’unica a credere che siano dei veri giornali. L’ostracismo di cui ha potuto essere oggetto non spiega tutto. Non solo Julien Freund, Jules Monnerot, Thierry Maulnier, Stéphane Lupasco, François Perroux, Louis Rougier, Raymond Ruyer e tanti altri sono morti senza essere stati rimpiazzati, ma la maggior parte degli autori di destra sono già stati dimenticati da coloro che dovrebbero o potrebbero richiamarvisi. Sembra che oggi ci siano ancora dei maurrassiani in Francia, ma non se n’è trovato un modesto centinaio disposto ad abbonarsi al Bulletin Charles Maurras, di cui Yves Chiron ha appena annunciato la scomparsa. Joseph de Maistre o Gustave Le Bon attirano l’attenzione dei ricercatori, più che quella degli uomini di destra. Louis Pauwels e Jean Cau, scomparsi in epoca recente, non sono neppure più citati o letti.
Non si può non essere colpiti dal modo in cui la destra ha perso l’abitudine di intervenire nei dibattiti di idee. Se si prendono i 100 libri di idee di cui si è più parlato da mezzo secolo a questa parte, ci si accorge che essa non ha praticamente pubblicato una riga in proposito. La cosa non la interessa, non la riguarda. Un solo esempio: non ho mai visto un giornale di destra discutere le tesi di John Rawls, che è senza dubbio l’autore di scienza politica sul quale si è scritto di più durante la seconda parte del XX secolo. Lo stesso è accaduto con Habermas, Bourdieu, Foucault, Norberto Bobbio e tanti altri. La destra non si interessa ad alcun autore estraneo ai suoi riferimenti-feticcio, non ne discute o non ne confuta nessuno. Non trae neppure profitto da coloro che potrebbero fornirle argomenti, da Louis Dumont a Serge Latouche o a Peter Sloterdijk. Sulla dialettica della modernità, sull’evoluzione del campo sociale, sulle molle della logica del mercato, sull’immaginario simbolico, questa destra non ha niente da dire. Come stupirsi, in queste condizioni, che non sia stata capace di formulare una critica della tecnoscienza, una teoria del localismo o del legame sociale, una filosofia dell’ecologia, un’antropologia originale? Semplicemente, non dispone più degli strumenti per farlo. Vi sono sempre stati centinaia di dibattiti teorici – gli uni risibili, gli altri viceversa assai profondi – negli ambienti di sinistra. Chi può citare un esempio di dibattito di idee che abbia segnato la storia della destra francese da mezzo secolo in qua? Mi ricordo di aver sentito Louis Pauwels parlare di “deserto intellettuale”. Siamo sempre allo stesso punto: a destra, in materia di lavoro del pensiero, siamo generalmente al deserto dei Tartari, all’encefalogramma piatto.
Intendi dire che la destra non “pensa” più?
La maggior parte delle persone di destra non ha idee ma convinzioni. Le idee, naturalmente, possono far nascere convinzioni, e le convinzioni possono basarsi su delle idee; ma i due termini sono diversi. Le convinzioni sono cose nelle quali si crede e che, dal momento che sono oggetto di una credenza, non possono essere oggetto di qualsivoglia esame critico. Le convinzioni sono un sostituto esistenziale della fede. Aiutano a vivere, senza che si senta il bisogno di interrogarsi sulla loro articolazione logica, sul loro valore in rapporto a questo o quel contesto o sui loro limiti. Ci si fa un punto d’onore del difenderle come se fossero un piccolo catechismo. La destra ama le risposte più delle domande, soprattutto se sono risposte già belle pronte; per questo raramente ha una testa filosofica: non si può filosofare quando la risposta è data preventivamente. Il lavoro del pensiero implica l’imparare dai propri errori. L’atteggiamento di destra consiste piuttosto nel non riconoscerli mai, e quindi nel non cercare di correggersi per andare più lontano: Da ciò l’assenza di autocritica e di dibattito. L’autocritica è considerata una debolezza, un’inutile concessione, se non un tradimento. A destra ci si compiace di non “rimpiangere niente” (“Non, rien de rien… [non, je ne reggette rien”, cantava Edith Piaf, ndt]), e soprattutto non gli errori che si sono commessi. Il dibattito, dal momento che implica una contraddizione, uno scambio di argomenti, viene in genere vissuto come un’aggressione, come qualcosa che non si fa.
Di recente è stata riedita l’Histoire de dix ans di Jean-Pierre Maxence, la cui prima edizione data dalla fine degli anni Trenta. L’autore vi si interroga sul fallimento di tutti quei raggruppamenti “di destra” che ha visto agitarsi attorno a sé per anni. Constata già allora un “fallimento totale della destra”: fallimento personale, fallimento morale, fallimento politico, fallimento umano. Scrive: “Come spiegare questa carenza? In primo luogo per l’assenza di dottrina. Ho conosciuto, salvo de La Nocque, i principali capi delle leghe. Nessuno aveva l’aspetto di un politico. Erano capaci di avere riflessi piuttosto che pensieri”.
Le cose stanno esattamente così. L’uomo di destra procede per entusiasmo o per indignazione, per ammirazione o per disgusto, non per riflessione. Non è riflessivo ma reattivo. Da ciò le sue reazioni quasi sempre emotive di fronte all’evento. Quel che colpisce è il suo modo ingenuo, se non puerile, di limitarsi sempre alla superficie delle cose, all’aneddoto di attualità, di fare di una mosca un elefante, senza mai risalire alle vere cause. Quando si mostra loro la luna, molte persone di destra guardano il dito. La storia accaduta diventa allora incomprensibile – che cosa fa la Provvidenza? –, anche se si insiste nel farvi riferimento. Ne discende un complottismo semplicistico, che può arrivare fino al delirio interpretativo. La negatività sociale viene spiegata facendo ricorso alle losche manipolazioni di una “cospirazione invisibile”, di una “tenebrosa alleanza” e così via.
Dato che si interessa poco alle idee, la destra tende a ricondurre tutto alle persone. I movimenti politici di destra sono prima di tutto legati ai loro fondatori, e raramente sopravvivono ad essi. Le diatribe di destra sono diatribe personali, con alla base sempre gli stessi pettegolezzi, le stesse dicerie, le stesse imputazioni calunniose – ciò che proprio Maxence chiamava il “flagello degli intrighi e delle scissioni”. Così come i suoi nemici non sono mai sistemi e neppure veramente idee, ma categorie di uomini trasformate in altrettanti capri espiatori (gli ebrei, i “meteci”, i “banchieri”, i massoni, gli stranieri, i “trotzkysti”, gli immigrati e via dicendo). La destra fa un’enorme fatica a capire un sistema globale sprovvisto di soggetto: gli effetti sistemici della logica del capitale, i vincoli strutturali, la genesi dell’individualismo, l’importanza vitale delle minacce ecologiche, la spinta interna della tecnica, ecc. Non vede che gli uomini debbono essere combattuti non per quel che sono ma solo nella misura in cui incarnano e difendono sistemi di pensieri o di valori nefasti. Se la prende con gli uomini che non le piacciono per quel che sono, il che la conduce alla xenofobia o a qualcosa di ancora peggiore.
Nel tuo libro, sottolinei la straordinaria diversità delle destre francesi, affermando che, contrariamente a quanto molti immaginano, non esiste senz’altro alcun criterio che possa servire loro da denominatore comune. Si può immaginare nondimeno che un lavoro di questo tipo ti abbia condotto a rileggere molti testi e che tu ne abbia tratto qualche insegnamento su ciò che caratterizza “la destra”.
Quando si studiano gli autori di destra, si osservano in effetti alcune convergenze che vanno al di là di quel che le distingue, anche se quel che le distingue rimane il dato più forte. È ciò che consente di fare un discorso globale su di essa. Non esiste un criterio concettuale che possa servire da denominatore comune a tutte queste destre, salvo forse, quantomeno in Francia, un fattore psicologico. Esiste, credo, una mentalità di destra, che avrebbe bisogno di una psicanalisi.
Ma è necessario ritornare al punto di partenza. La destra è stata la grande vinta della storia, dal momento che ha praticamente perso tutte le battaglie nelle quali si è impegnata. La storia degli ultimi due secoli è quella delle sue sconfitte successive. Un simile succedersi di fallimenti fa pensare che la superiorità dei suoi avversari si sia nutrita soprattutto delle sue debolezze. In origine, che cosa possedeva specificamente la destra di migliore? Per farla breve, direi un sistema di pensiero anti-individualistico e anti-utilitaristico, a cui si affiancava un’etica dell’onore, ereditata dall’Ancien Régime.
Per queste sue caratteristiche, essa si contrapponeva frontalmente all’ideologia dei Lumi, il cui motore era costituito dall’individualismo, dal razionalismo, dall’assiomatica dell’interesse e dalla fede nel progresso. I valori cui essa si richiamava erano nel contempo valori aristocratici e valori popolari. La sua missione storica consisteva quindi nel realizzare l’unione naturale fra l’aristocrazia e il popolo contro il loro nemico comune, la borghesia, i cui valori di classe trovavano appunto la loro legittimazione nel pensiero illuminista. Ma tale unione si è realizzata solo in brevissimi periodi, ad esempio all’indomani della Comune di Parigi, fino al momento in cui i deliri antidreyfusardi intervennero a porre fine alle speranze che il boulangismo aveva fatto nascere all’inizio.
La destra ritiene che l’uomo sia naturalmente sociale. Tuttavia non ha mai sviluppato una teoria coerente della comunità o del legame sociale. Non ha mai seriamente esplorato la contrapposizione tra gli idealtipi del sé proprietario (l’uomo definito dal diritto di godimento di ciò di cui è proprietario, come lo considera l’individualismo liberale) e del sé legato ad altri. Né è mai stata capace di formulare una dottrina economica veramente alternativa al sistema della merce.
Jean-Pierre Maxence parla anche, con piena ragione, della “mancanza di contatti popolari”: “Ci si proclamava “uomo del popolo” ma si pensava, e in più si sentiva, da piccolo borghese”. Invece di sostenere il movimento operaio e il nascente socialismo, che rappresentava una sana reazione contro l’individualismo che essa stessa criticava, la destra ha troppo spesso difeso i più orrendi sfruttamenti umani e le disuguaglianze più politicamente insopportabili. Si è schierata dalla parte delle classi possidenti, partecipando oggettivamente alla lotta della borghesia contro i “condivisori” e le “classi pericolose”. Vi sono state eccezioni, ma rare. E i teorici troppo spesso sono andati a rimorchio del loro pubblico (si pensi agli scritti del giovane Maurras a favore del socialismo e del federalismo e alla deriva conservatrice dell’Action Française). Difendendo la nazione, la destra ha di rado compreso che la nazione è prima di tutto il popolo. Ha dimenticato la complementarità naturale fra i valori aristocratici e i valori popolari. Ai tempi del Fronte popolare, la si è vista tuonare contro la “cultura delle ferie pagate”. Ha sempre preferito l’ordine alla giustizia, senza capire che l’ingiustizia è un disordine supremo, e che lo stesso ordine assai spesso non è altro che un disordine costituito.
Essa avrebbe potuto sviluppare, come Herder, una filosofia della storia fondata sulla diversità delle culture e sulla necessità di riconoscerne il valore universale, il che l’avrebbe portata a sostenere le lotte a favore dell’autonomia e della libertà dei popoli, cominciando con i popoli del Terzo Mondo, prime vittime dell’ideologia del progresso. Invece di fare questo, ha difeso il colonialismo, che pure in un primo momento aveva a giusto titolo condannato (il che non le impedisce di lamentarsi, di tanto in tanto, di essere a sua volta “invasa” o “colonizzata”).
La destra ha dimenticato che il suo vero nemico è il denaro, e che di conseguenza avrebbe dovuto mettersi alla prova come alleata oggettiva di tutti coloro che contestano il sistema che sul denaro si fonda, e invece è passata per gradi dalla parte di quel sistema. Era attrezzata meglio di chiunque altro per difendere, riformulandoli, valori anti-utilitaristici di gratuità e disinteresse, e a poco a poco si è convertita all’assiomatica dell’interesse e alla difesa del mercato. Parallelamente, è caduta nel moralismo, nel militarismo, nel nazionalismo, che altro non è se non un individualismo collettivo già condannato, in quanto tale, dai primi controrivoluzionari. Il nazionalismo l’ha fatta cadere nella metafisica della soggettività, malattia dello spirito sistematizzata dai moderni, facendole perdere nel contempo la nozione di verità. Avrebbe dovuto essere il partito della generosità, della “common decency”, delle comunità organiche, e invece troppo spesso è diventata il partito dell’esclusione, dell’egoismo collettivo e del risentimento. Insomma, la destra si è tradita da sola quando ha iniziato ad accettare l’individualismo, il modo di vita borghese, la logica del denaro, il modello del mercato.
Quello che dici vale senza dubbio per la destra versagliese od orleanista. Ma accanto a questa destra orleanista e borghese c’è anche una destra che, in vari momenti della sua storia, si è comunque preoccupata della giustizia sociale. Del resto, esistono ancora oggi cenacoli che hanno la pretesa di incarnare una “vera destra”.
È esatto, ma quelle preoccupazioni sociali non si sono mai collocate al fondo delle cose. Il cattolicesimo sociale, con La Tour du Pin e qualcun altro, ha potuto svolgere un ruolo utile, ma aveva a che vedere soprattutto con il paternalismo. Le realizzazioni sociali dei “fascismi” sono state screditate dal loro autoritarismo, dal loro militarismo, dal loro nazionalismo aggressivo. Il corporativismo non ha avuto alcun esito. Il sindacalismo rivoluzionario, ereditato da Sorel, è stato ucciso dal compromesso fordista, che ha avuto l’effetto di integrare strati sempre più ampi di lavoratori nella classe media borghese. E, soprattutto, questo tipo di preoccupazioni non si è mai accompagnato a un’analisi in profondità della Forma-Capitale. La denuncia delle “grandi fortune” è risibile quando si astiene dall’analizzare la natura stessa del denaro e le modificazioni antropologiche indotte dalla generalizzazione del sistema del mercato, la reificazione dei rapporti sociali che ne è il risultato, le alienazioni che essa genera, ecc.
Quanto alla “vera destra”, non ha mai smesso di marginalizzarsi e di ritirarsi come una pelle di zigrino. Sempre più dimentica della propria storia, tutto il suo implicito sistema di pensiero si riassume, in fondo, in una frase: “Era meglio prima”, sia che quel “prima” risalga agli anni Trenta, sia che rimandi all’Ancien Régime, al Rinascimento, al Medioevo o all’Antichità. Questa convinzione, anche in quel che può avere di puntualmente esatto, alimenta un atteggiamento o restauratore, che la condanna al fallimento, o puramente nostalgico. In ogni caso, ci si limita a contrapporre al mondo reale un mondo passato vissuto a mo’ di fantasticheria idealizzata. Fantasticheria dell’origine, fantasticheria del passato semplice, nostalgia irreprimibile della matrice originaria che segna l’incapacità di accedere all’età adulta. Lo scopo è tentare di conservare, di preservare, di frenare o di trattenere il corso delle cose (viene da pensare al katechon di cui parlava Carl Schmitt), senza una chiara consapevolezza delle ineluttabili concatenazioni storiche. La grande speranza sarebbe quella di far ricomparire il prima, di ritornare indietro – al tempo in cui tutto era così migliore. Ma dato che, ovviamente, ciò è impossibile, ci si limita a un atteggiamento etico, con lo scopo di “testimoniare”. Politicamente, questa destra non ha più alcun particolare telos da realizzare, giacché i suoi modelli appartengono al passato. Siamo arrivati al punto in cui essa non sa neppure più bene che tipo di regime politico vorrebbe vedere affermarsi.
La storia diventa un rifugio: idealizzata, ricostruita in maniera selettiva e più o meno fantasiosa, conferisce la certezza di avere un’“eredità” stabile, portatrice di esempi significativi, che si possono contrapporre agli orrori del tempo presente.
Si ritiene che la storia dia delle “lezioni”, benché non si sappia mai granché bene quali se ne debbano trarre. La destra non ha mai capito che la storia, a cui fa così tanto caso, può anche paralizzare. Quando Nietzsche dice che “l’uomo del futuro è quello che avrà la memoria più lunga”, vuole dire che la modernità sarà tanto schiacciata dalla memoria che finirà col diventare impotente. Per questo egli richiama all’“innocenza” di un nuovo inizio, che implica un’ampia componente di oblio. Non si ha mai tanto il gusto della storia come quando non si è più capaci di farlo – quando essa si fa al di fuori di noi o contro di noi. Ostile alle novità, la “vera destra” non riesce ad analizzare i tempi che vengono, forieri di inedito, se non con strumenti concettuali obsoleti. Giudica tutto in funzione del mondo che ha conosciuto, mondo familiare e dunque rassicurante.
Confonde la fine di questo mondo con la fine del mondo. Fronteggia il futuro con l’occhio fisso al retrovisore. Incapace di analizzare il momento storico, di risalire dalle conseguenze alle cause lontane, di ricostruire la genealogia dei fenomeni che deplora, di cogliere le linee di forza della postmodernità, non può capire più niente del mondo attuale, di cui si accontenta di registrare l’evoluzione come una “decadenza” senza fine. Il fatto di