Enrico Caprara – L’ innovazione tecnologica: è più quello che dà o quello che toglie?

C’ è una domanda, in modo particolare, che sembra accompagni costantemente l’ uomo contemporaneo:  – “ Che cosa mi manca, dunque?” Orientato da una “mitologia” culturale ormai assestatasi nei decenni, l’ uomo della nostra civiltà è tenuto a non avere dubbi: il motivo di un’ insoddisfazione è sempre in una carenza.Di fronte alle “novità” che il sistema produttivo e culturale regolarmente propone, l’ atteggiamento è perciò in generale di favore, anche entusiastico : – “Ecco dunque cosa mi mancava!”

 

Ma bisognerà dire, d’ altra parte, come le disillusioni per questi mutamenti siano ormai così ripetute, cocenti, come i disastri provocati dall’ attuale sistema produttivo, dal suo funzionamento a livello parossistico, siano a volte così tangibili – specie quando si concentrano in determinate situazioni locali – che qualche dubbio sulla limpidezza e sulla bontà della “cultura dell’ innovazione” va facendosi sempre più sentire.
Potrebbe risultare forse utile, perciò, qualche riflessione, qualche approfondimento, sulle caratteristiche – e sull’ incidenza nella vita delle persone – della prospettiva di “innovazione tecnologica”, o se vogliamo di “innovazione tecnica”, intendendo con ciò sia nuovi dispositivi che vengono nella disponibilità, sia nuovi atteggiamenti e organizzazioni dell’ esistenza.
Il primo aspetto che potrebbe rilevarsi, la prima conseguenza esistenziale di questa cultura, è allora qualcosa di molto semplice, addirittura banale, ma che non ha in genere l’ attenzione che meriterebbe: l’ innovazione comporta una perdita di abitudinarietà.L’ abitudinarietà è un elemento fondamentale nell’ esistenza umana, la cui importanza pare invece dimenticata o rimossa. Con l’ abitudinarietà, molte risposte comportamentali si producono a livello subcosciente, e questo permette un minor dispendio di energie.
Un problema che, nell’ ambito della salute e della medicina, negli ultimi tempi si è posto in evidenza, riguarda una condizione di stanchezza psico-fisica, che tende alla permanenza, in cui si ritrova un numero crescente di persone. Per questo fenomeno possono ipotizzarsi, naturalmente, una serie di cause “materiali”: il degrado dell’ aria che si respira, dell’ acqua e dei cibi, o la semplice quantità temporale di attività; ma sarebbe bene tener presente quanto pesa, nel dispendio di energia psico-fisica, uno stile di vita che si basa non più sull’ abitudinarietà, ma invece sul mutamento continuo del proprio ambiente esistenziale, e su una continua riconsiderazione dei propri modi di comportamento.
L’ esistenza di abitudinarietà – quindi la  non necessità di concentrarsi continuamente sul da fare, la non necessità di riprendere in esame, familiarizzarsi, con gli aspetti mutati del proprio ambito (come potrebbe essere per un’ alterazione del paesaggio che si ha intorno) – è ciò che permette un approfondimento del livello di coscienza, una capacità di raffinatezza nelle proprie percezioni e nei propri sentimenti; ciò significa, ad esempio, poter sentire la positività, il benessere, la felicità di situazioni esistenziali molto semplici, come una passeggiata nei propri soliti luoghi. La presenza cioè di abitudinarietà, e con essa di maggior profondità di coscienza, può portare a quel “contentarsi con poco” che ci è testimoniato come condizione umana di favore, massimamente desiderabile, da tutta una serie di saggezze del passato. Inutile aggiungere che invece, questo “contentarsi con poco”, è come fumo negli occhi per una cultura e una civiltà fondata sul produttivismo e sul consumismo.
L’ innovazione è quindi sostenuta e voluta, per motivazioni generali ed interessi particolari, dal sistema culturale nel suo complesso e da vari attori sociali.Si può notare, riguardo ai nuovi prodotti industriali, come essi vadano generalmente nel senso di un miglioramento dell’ appariscenza, ma degrado qualitativo. Il fatto è che l’ appariscenza incide al momento dell’acquisto, mentre la qualità si mostra nel tempo. Con ciò si realizza una “spinta innovativa” sia perché il nuovo prodotto, appariscente, induce alla sostituzione del vecchio, sia perché essendo meno qualitativo e durevole avrà necessità di essere sostituito prima, da un ulteriore nuovo prodotto. Siamo nel senso di quella “obsolescenza programmata” che è stata messa in evidenza per esempio da Massimo Fini.
Ci si può anche imbattere in situazioni dove, essendo probabilmente il “nuovo prodotto” non sufficientemente splendido ed ingannevole per il “consumatore”, si verifica una improvvisa sparizione dal mercato della vecchia tipologia, che per un motivo od un altro risultava ancora reperibile.
La capacità di lusinga della “novità”, in ogni modo, è senza dubbio fortissima. Essa si presenta come solutrice di problemi, e fornitrice di opportunità. Il nuovo prodotto sembra dirci, di sé, che diminuirà il tempo necessario ad una certa operazione, e quindi porterà tempo libero e disponibile al suo compratore. Il che, ad un certo livello, è pur vero. Il tempo necessario all’ operazione in sé viene diminuito dal nuovo prodotto. Bisognerebbe considerare, tuttavia, diversi altri fattori.
Intanto, l’ acquisizione di un nuovo dispositivo-oggetto impone il disfarsi di quello vecchio – il che spesso è problematico. Dopo aver impiegato tempo ed energie nella ricerca della soluzione, si può decidere per esempio di riporlo nella propria cantina, o nel proprio solaio. Questi ricoveri rimangono oramai strapieni di oggetti sostituiti; non possono più facilmente servire per ciò cui erano originariamente destinati: bottiglie di vino, biciclette, strumenti da utilizzare saltuariamente. Questo ingombro dovuto alle innovazioni comporterà, come minimo, un impegno di maggior tempo quando sia necessario un accesso o una ricerca.
Il nuovo prodotto richiede poi che si “impari ad usarlo”: sia perché è nuovo, sia perché è generalmente più complesso del predecessore. L’ utilizzo potrà avvenire, almeno per un determinato periodo, con una certa lentezza. (E magari, non appena si arriva ad usarlo con facilità è già ora di un’ altra innovazione…).
Questo nuovo prodotto – come si diceva – è generalmente più complesso di quello che si utilizzava prima. E’ più sofisticato, il che può anche voler dire più vulnerabile – potrebbe essere soggetto a guasti più frequenti. In ogni modo, un dispositivo più complesso necessiterà per la riparazione di tecnici specializzati, da ricercare e valutare accuratamente. I costi delle riparazioni specialistiche sono alti: bisognerà pensar bene se valga la pena di far riparare l’ oggetto, o se non sia il caso di comperarne un altro…Ma, a proposito della crescente complessità degli oggetti con cui realizziamo l’ esistenza, si potrebbe fare una considerazione più generale: viene a determinarsi, per via di questa complessità, una condizione di dipendenza dell’ individuo. Nessuno di noi conosce più veramente le cose con cui ha a che fare; esse ci provengono da un “esterno” che è in grado di produrle ed eventualmente rimetterle in funzione. Ciò crea, inevitabilmente, una certa ansietà nel rapporto con queste cose. Anche se non ce ne rendiamo conto in modo esplicito.
Quella condizione, invece assai più serena e pacificante, che riguardava gli uomini – in verità, di tempi anche non lontani dal nostro – i quali conoscevano i propri oggetti, e “sapevano davvero ciò che stavano facendo”, è per noi qualche cosa di molto difficile anche solo da immaginare.Con queste ultime considerazioni, peraltro, non si intende certo negare il fatto che la “questione della tecnica” sia inevitabilmente connessa all’ esistere umano. Chi pure conducesse una vita assolutamente essenziale, primaria, non potrebbe fare a meno di organizzare comportamenti, situazioni, oggetti, che siano strumentalmente finalizzati a soddisfare dei bisogni.
E tanto più si è relazionati, inevitabilmente, con la tecnica, quando ci si trova a vivere nell’ attuale civiltà occidentale, in tutta una serie di contesti già determinati, secondo modalità spesso indipendenti dalla nostra propria volontà; resta così inevitabile l’ utilizzo, almeno per una certa parte, della tecnologia “vigente”, in diversi ambiti e per diverse finalità – dalle necessità del proprio sussistere al tentativo di contrastare, e prospettare un’ alternativa, alla stessa “civiltà della tecnica”.
Ma si può arrivare anche all’ affermazione che, dato il contesto reale, si può pur riconoscere una positività a certe innovazioni tecniche, per una questione di mera contingenza, ossia in quanto una “nuova tecnica” comporti una limitazione o diminuzione del danno che la “prospettiva tecnica” generale abbia prodotto. Ed infine, è pure vero che si può delimitare un ambito dove, anche in termini generali, l’ idea di “progresso tecnico” abbia una valenza positiva. Come detto, anche un modo di esistere non artificiosamente ed inutilmente complicato necessita modalità tecniche (organizzazioni, dispositivi…) Si può riconoscere buona cosa che in quella situazione, di “genuinità”, le tecniche progrediscano, se ciò è dovuto ad un adeguamento – cioè al prendere atto di nuove necessità che naturalmente ed effettivamente si pongono – o a un raffinamento, cioè ad una miglior padronanza che la pratica da sé comporta, senza neppure intenzionalità.Ben diversa è, chiaramente, la prospettiva della nostra cultura attuale: qui la tensione innovativa è un presupposto, e si potrebbe anche dire un pregiudizio. Per cui, basta il frettoloso riconoscimento di un qualche elemento di positività, comportato sperabilmente da una certa innovazione, per assumere questa come necessaria ed avviarla; in effetti, questi elementi di positività sono spesso del tutto ipotetici, illusori. Oppure anche reali, ma inevitabilmente concomitanti rispetto ad una serie di negatività, il che renderà la situazione “innovata” una situazione di minor benessere.
Questi aspetti possono vedersi, ad esempio, nell’ ambito delle attività lavorative.
Per quanto riguarda il lavoro subordinato, si potrebbe magari pensare – e qualcuno si illude realmente di ciò – che mediante l’ introduzione di nuovi processi, macchinari, automazioni, resti alleggerito il compito del lavoratore. Ma dal momento che, in effetti, ciò che il datore di lavoro acquista e retribuisce è il tempo del lavoratore, una sua generica attività, questo lavoratore, liberato da una incombenza per via di una innovazione, verrà subito gravato da un’ altra; gli rimarrà insomma il medesimo impegno, con il peggioramento di aver perso l’ abitudinarietà, che rendeva l’ impegno precedente più sopportabile. (Ma può accadere certamente che, non essendoci altre mansioni da affidare al lavoratore, questo venga licenziato.)
D’ altra parte anche il datore di lavoro, l’ imprenditore, il professionista, subiscono l’ illusorietà del “progresso tecnico”, specialmente nei termini della innovazione competitiva.Nuove tecniche o prodotti tecnici si presentano come migliorativi della performance, e quindi capaci di far vincere la concorrenza; ma poiché, evidentemente, tutti ricorreranno a quella innovazione, le posizioni relative tra i concorrenti rimarranno, sostanzialmente, le stesse, solo con un aumento dei costi e dell’ impegno nella gestione.Si potrebbe, per fare un esempio concreto di queste situazioni, considerare un ambito “lavorativo” molto sui generis, ma che mostra forse efficacemente come stiano le cose. Assistiamo, nella nostra società, ad una continua innovazione dei sistemi anti-furto di cui fanno uso i privati cittadini, nonché dei metodi di prevenzione e repressione del crimine di cui si dotano le forze dell’ ordine – i “malviventi”, dal canto loro, non stanno certo a guardare, e dispongono di strumenti sempre più sofisticati con cui compiere le loro imprese. La percentuale dei furti rispetto alla popolazione non cala con l’ innalzarsi del livello tecnologico. Guardie, ladri e derubati, continuano a sostenere i propri ruoli come nei tempi che furono; solo, con un dispendio di energie enormemente superiore per realizzare nuove tecniche, praticarle, aver a che fare con ulteriori marchingegni che impongono ulteriori spese…L’ innovazione tecnica, come si diceva, spesso comporta sì un certo aspetto di positività, ma la concomitanza di effetti negativi preponderanti. Per esempio, di certe innovazioni si potrebbe anche dire, considerandone l’ uso singolare, che apportino un beneficio; ma già solo il considerarne un uso da parte di tutti, o di molti, rivela l’illusorietà del vantaggio.
E’ ciò che abbiamo oramai ben sperimentato con l’ automobile. La singola automobile permetterebbe in effetti uno spostamento rapido; la congestione di automobili circolanti fa sì che, realmente, sia un mezzo di spostamento più rapido la bicicletta.Probabilmente – riguardo a un’ altra innovazione – ci avviamo a sperimentare l’ illusorietà dei “condizionatori d’ aria”: il condizionatore rinfresca l’ ambiente singolo, ma rigetta aria calda nell’ ambiente complessivo, e consuma energia la cui produzione determina ancora riscaldamento; l’ utilizzo massivo di condizionatori, pertanto, comporterà una maggior necessità di raffreddamento all’ ambiente singolo, per cui ci vorrà un condizionatore ancora più potente, che provocherà un riscaldamento ancora maggiore all’ ambiente complessivo, per cui…Ma veniamo, brevemente, ad un’ ultima questione riguardante il progresso tecnologico, quella che si potrebbe definire la “questione della bruttezza”.
Il prodotto innovativo è più funzionale (almeno apparentemente) quanto però sempre più brutto. Nel che, almeno di fatto, potrebbe ravvisarsi non una semplice trascuratezza ma bensì un intento ideologico: una cosa di bell’ aspetto dà soddisfacimento al semplice contemplarla; la cosa brutta determina già un’ insoddisfazione, che induce a fare qualcosa, a procurarsi ancora qualcosa…Oltre che di “obsolescenza programmata” si potrebbe forse parlare di “intenzionale bruttezza”? (Intenzionalità “ambientale” se non propriamente “personale”.)
In caso affermativo, la Civiltà dell’ Innovazione rivelerebbe già solo con ciò la propria natura. 

Redazione