ER CANARO La mattanza della Magliana: terribile è l’ira del mansueto

ER CANARO II lettore conoscerà probabilmente la storia, cui i quotidiani hanno dato ampio risalto, di Piero De Negri, il tosacani della Magliana, da tutti chiamato con malcelato disprezzo «er canaro», che ha torturato nel più orrendo dei modi il giovane Giancarlo Ricci, un ex pugile che da tempo lo angariava.

Incatenata la sua vittima, De Negri, con un tronchesino, gli ha amputato i pollici e gli indici e, cospargendole di benzina, ha dato fuoco alle ferite. Poi con le forbici ha ritagliato la faccia del Ricci, le orecchie, la punta del naso «in modo simmetrico come faccio per i cani, volevo che assomigliasse a un cane».

Prima gli ha mozzato la lingua, il pene, le palle e, disserrando le mascelle della vittima con un pappagallo, glieli ha cacciati in gola. E mentre quello moriva soffocato, «er canaro» ha raccolto i mozziconi delle dita e li ha ficcati uno nell’ano, gli altri negli occhi del morto. Poi gli ha aperto a martellate la calotta cranica e vi ha versato dentro shampoo per cani.

Per comprendere questo massacro si sono tirati in ballo la droga, la follia, i rituali mafiosi, la disgregazione morale e sociale di un quartiere come la Magliana. Può darsi che qualcuna di queste componenti abbia giocato un ruolo. Ma non è questo il nocciolo della questione. Il delitto del «canaro» è molto più vicino a noi, a ognuno di noi, di quanto non si pensi. È la rivolta di «cane di paglia», del debole e del mite che a un certo punto esplode incontrollabile contro i soprusi d’una vita.

Piero De Negri, infatti, prima di essere carnefice era stato vittima.

Quattro anni fa col Ricci compie una rapina. Si fa dieci mesi di carcere, perde, per questo, la moglie e la figlia, che ama, ma non fa il nome del complice. Quando esce va da Ricci per avere la sua parte di bottino, ma quello gli ride in faccia e lo riempie di botte.

E continuerà a dargliele, con quell’arroganza impunita da gradasso, da ex pugile, da uomo grande e forte con la quale del resto terrorizza l’intero quartiere. Di questa prestanza fisica Ricci fa continuo uso sul «canaro» piccolo, mingherlino, docile, rassegnato, irridendolo e umiliandolo in tutti i modi. Quando qualcuno ruba al «canaro» lo stereo, Ricci gli propone di farglielo riavere per 200 mila lire e, intascatele, non gli restituisce nulla, anzi, ghignando gli fa sapere che il ladro è proprio lui. È l’ultimo spregio che fa traboccare un vaso troppo colmo. Anche chi è disposto a riconoscere qualche giustificazione al De Negri non riesce a capacitarsi dell’orrendo rituale della tortura. E invece è proprio questo che occorre al «canaro».

La morte non gli basta, anzi, in un certo senso, lo ostacola. Nell’antico poema indiano Mahabharata, Bhima, dopo aver tagliato il braccio del nemico e averlo con quello stesso braccio schiaffeggiato, dopo avergli sfondato il petto, troncata la testa e bevutone il sangue, ha un ruggito di furore deluso: «Che altro mi resta da fare? La morte ti difende!». Per contraccambiare il suo rivale delle umiliazioni che ha sofferto per anni, per fargliele assaporare fino in fondo, De Negri deve ritardarne il più possibile la morte. E infatti, per il «canaro», più importanti ancora delle mutilazioni fisiche che infligge al «pugile» sono quelle morali, sono le frasi che gli dice per irriderlo, per umiliarlo, per destituirlo come uomo così come l’altro aveva fatto con lui.

Quando gli tronca le dita gli domanda: «Ma che gli hanno fatto ar pugile? Chi è stato? Chi ha osato?». E quando gli taglia i genitali, si china all’orecchio della sua vittima allo stremo e sussurra: «A Giancà, ma quale uomo, ora sei un femminiello!». L’uomo oramai è solo lui, finalmente, «er canaro». E in un certo, tremendo, senso ha ragione. Ho visto due foto di Piero De Negri, prima e dopo il delitto. Prima aveva un aspetto da orfanotrofio, da vittima designata, dopo, per usare un’espressione di Sartre a proposito d’un omicida, «il suo volto splendeva come un incendio».

Attribuire a De Negri l’«infermità mentale», significa rendergli un’ingiustizia, restituirlo al suo ruolo di eterna vittima, di «canaro», togliere al suo atto il profondo senso che ha per lui. E infatti De Negri, interrogato dai giornalisti, a mente lucida e senza cocaina in corpo, ha detto: «Lo rifarei».

Non voglio con ciò giustificare la mattanza della Magliana e togliere orrore a una vicenda che ne è colma. Dico solo che questa storia non è folle.

È umana, molto umana e ha a che fare con quel pendolo fondamentale della nostra vita che è il sadomasochismo, il quale non si esercita solo nelle botteghe per cani ma anche, sia pur in forme meno truculente ed evidenti, più acculturate, negli uffici, nelle fabbriche e nella vita d’ogni giorno. E credo anche che la vicenda della Magliana contenga un suo insegnamento. Ci sono dei limiti oltre i quali anche l’arroganza, la prepotenza, la sopraffazione dei più forti nei confronti dei miti, dei deboli, degli eternamente sconfitti non può andare senza incendiare il «cane di paglia».

E terribile, dice la Bibbia, è l’ira del mansueto.

Redazione