Manifesto

1- NO ALLA GLOBALIZZAZIONE.

1 – Perché la globalizzazione significa omologazione, standardizzazione, appiattimento di tutte le culture e all’interno di esse di tutti gli individui ad un unico modello. Ed è quindi contraria a quel prepotente bisogno di identità che oggi anche proprio in ragione della globalizzazione sale dalle comunità e dai singoli individui.

2 – La globalizzazione, in estrema sintesi, è la competizione mondiale di tutti contro tutti. Questo  comporta due conseguenze. Che se in Cina pagano la gente un piatto di riso anche da noi bisognerà fare più o meno lo stesso; che se gli Stati Uniti non hanno welfare anche gli stati europei dovranno smantellare il loro; che se in Giappone per loro cultura samurai applicata alla fabbrica, gli viene voglia di lavorare 20 ore al giorno, anche in Italia – che nonostante tutto è un paese un po’ più gradevole del Giappone- bisognerà fare lo stesso. Inoltre la globalizzazione se arricchisce le Nazioni impoverisce i suoi abitanti. Prendiamo l’Italia.

L’Italia di oggi è complessivamente molto più ricca di quella degli anni ‘50 (il PIL non ha fatto altro che aumentare, la produzione idem, etc.) ma noi presi come singoli individui non siamo più ricchi, se va bene manteniamo le posizioni, spesso siamo più poveri. Come mai? Perché, essendo appunto la Globalizzazione competizione,

mentre noi corriamo e ci affanniamo anche gli altri paesi corrono e si affannano, per cui è come se stessimo tutti fermi. E’ come correre su un tapis-roulant alla rovescia. E’ come nel ciclismo: se un corridore si dopa, debbono drogarsi anche tutti gli altri rovinandosi la salute. Il concetto quindi è quello di frenare, di competere di meno, in un ambito più limitato (ecco qui il riferimento alla piccole patrie e all’Europa che svilupperemo in seguito) e di ricordarci che per molte centinaia di anni il concetto che ha prevalso nell’Europa preindustriale, grazie anche alla grande influenza del pensiero di San Tommaso d’A. e della sua scuola, non è stato quello della competizione ma quello della cooperazione. Nel Medioevo europeo ad ogni uomo o meglio ad ogni famiglia, artigiana o contadina che fosse, doveva essere garantito il proprio spazio vitale, anche a scapito dell’efficienza produttiva collettiva.

3 – La globalizzazione esaspera tutti gli aspetti negativi degenerativi e drammatici di quello che ho chiamato il “modello paranoico”: subordinazione dell’uomo al  meccanismo produttivo, ritmi sempre più incalzanti e insostenibili, omologazione degli stili di vita e degli stessi individui in ragione delle esigenze razionalizzatrici dell’economia e della tecnologia di mercato, perdita di identità, impossibilità di trovare un punto di equilibrio e di armonia, con i loro corollari,  sul piano

esistenziale, di angoscia, nevrosi, depressione, anomia, frustrazione, sentimento di scacco esistenziale e smarrimento del senso.

4 – La globalizzazione distrugge letteralmente le realtà e le popolazioni del Terzo Mondo, costringendole ad uscire dalle economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo, sostanzialmente) su cui avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, per inserirsi nel mercato mondiale dove, mentre perdono a loro volta, omologandosi, la propria identità collettiva così come l’uomo occidentale perde quella individuale e sono inevitabilmente soccombenti e da povere che erano (secondo i nostri metri quantitativi naturalmente) diventano miserabili e vengono spesso portati alla fame innescando quelle migrazioni bibliche che tanto ci spaventano e che non sono che un pallido fantasma di ciò che ci aspetta se la mondializzazione economica continuerà imperterrita la sua marcia trionfale. Come si combatte realisticamente e politicamente la globalizzazione? La risposta la daremo quando parleremo dei concetti di autarchia, piccole Patrie ed Europa.

 

2- NO AL CAPITALISMO ED AL MARXISMO, DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA: L’INDUSTRIALISMO.

Figli entrambi della Rivoluzione industriale, liberalismo e marxismo, nelle loro varie declinazioni, sono in realtà due facce della stessa medaglia. Sono entrambi  modernisti, illuministi, progressisti, ottimisti, razionalisti, materialisti, economicisti, entrambi hanno il mito del lavoro. Sono due industrialismi convinti che scienza e tecnica produrranno una tale cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini o quasi. Ed è ovvio che destra e sinistra, liberali e marxisti, concordino e siano irriducibili su questo punto fondante, che legittima l’intera modernità insieme alle sue dottrine politiche. Questa utopia bifronte ha fallito. Noi siamo su un treno che va ad 800 all’ora e certamente dare una più equa sistemazione ai viaggiatori sballottati dalla velocità del treno ha ancora un qualche senso e quindi un qualche senso conservano le antiche categorie di destra e sinistra. Ma le domande di fondo sono diventate altre.

1 Dove sta andando il treno ?

2 I viaggiatori e coloro che stanno sulla locomotiva hanno una qualche possibilità di dirigerlo o il treno è incardinato inesorabilmente sui binari su cui è stato messo 2 secoli e mezzo fa?

3 E, soprattutto, abbiamo preso il treno giusto o la missilistica locomotiva che tanto affascinò, anche giustamente, i nostri progenitori nel Settecento e Ottocento ci sta portando alla catastrofe oltre a farci vivere già ora un’esistenza disumana in cui l’uomo è  subordinato alle sue esigenze invece che essere il guidatore del treno ?

4 Siamo dunque destinati a morire nella fogna del ‘migliore dei mondi possibili’ e a crederci liberi solo perché possiamo scegliere fra diverse marche di frigorifero?

Movimentozero si pone al centro di queste domande.

 

3- NO ALLA MISTICA DEL LAVORO, DI DERIVAZIONE TANTO CAPITALISTA CHE MARXISTA.

Il lavoro come valore nasce con la Rivoluzione industriale ed è assunto come tale sia dai capitalisti che dai marxisti. In precedenza il lavoro non è un valore, tanto è vero che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano solo per quanto gli basta. Il resto è vita. Manca quasi completamente nell’Europa preindustriale il concetto di profitto, nel senso che non si è disposti a sacrificare il proprio tempo per accumulare ricchezza. Perché il vero valore è il tempo e come diceva Benjamin Franklin “il tempo è il vero tessuto della vita”. Quello che si propone Movimentozero è di restituire all’uomo buona parte del suo tempo perché ne faccia ciò che desidera, tempo che oggi gli è quasi totalmente sottratto dal meccanismo produzione-consumo, sia quando è nella condizione di produttore che di consumatore. Detto con uno slogan quello che ci proponiamo come linea di tendenza è: meno lavoro, più tempo. Non è una operazione utopistica ed impossibile, si può sperimentare concretamente anche oggi. Si tratta di fare una inversione concettuale. Facciamo un esempio estremo. In tutte le società sviluppate i disoccupati possono vivere, sia pur modestamente, avendo di che cibarsi di che vestire di che abitare. La loro frustrazione è dovuta al fatto che non possono attingere ai beni della società opulenta. Ma se invece di nuotare contro la corrente la seguissero, se cioè invertissero psicologicamente il loro rapporto con ciò che li circonda, si accorgerebbero che hanno in gran quantità proprio quel bene prezioso del tempo che manca a tutti coloro che sono coinvolti nei ritmi frenetici del lavoro. Poter vivere senza lavorare è stata sempre l’aspirazione dell’uomo, finché ha avuto una testa per pensare.

Siccome la globalizzazione porterà ad un indebolimento economico di buona parte della popolazione, mettersi in questa predisposizione d’animo è, in un certo senso, un ‘portarsi avanti’, cioè un assumere come scelta quella che altrimenti sarebbe sentita come una dura e insopportabile necessità.

 

4- NO ALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

La democrazia rappresentativa non è la democrazia. In quanto in virtù del meccanismo della delega costituisce un sistema di minoranze organizzate, di oligarchie, di partiti e dei loro apparati che opprimono l’individuo singolo, libero, che rifiuta queste appartenenze, questi umilianti infeudamenti e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia se esistesse davvero e che ne diventa invece la vittima designata. I partiti, che non erano contemplati nelle concezioni dei teorici della democrazia (Locke, Stuart Mill) e che fino al 1920 non apparivano in nessuna costituzione liberaldemocratica, non sono, come si suole dire, l’essenza della democrazia, ma la sua fine. Sono essi che decidono non solo i candidati ma anche gli eletti. Nel sistema proporzionale facendo blocco su questo o quel nome, mentre il voto del cittadino libero, proprio perché tale, si disperde. Nel maggioritario perché gli eletti vengono direttamente calati dall’alto.

Al cittadino non resta che la scelta dell’oligarchia dalla quale preferisce essere dominato e represso. Gli stessi teorici moderni della democrazia, da Bobbio a Sartori, ammettono che si tratta in realtà di aristocrazie mascherate. Solo che rispetto alle aristocrazie storiche non ne hanno né le qualità né gli obblighi, ma solo i privilegi. Si potrebbe anche dire che la sua sola qualità è di non averne alcuna. Ma aldilà di queste considerazioni teoriche lo vediamo e lo sentiamo tutti che noi cittadini non contiamo assolutamente nulla. E’ venuta l’ora di smascherare questa finzione e, possibilmente, di abbatterla.

Come dice Voltaire non esiste unicamente la tirannide di uno solo ma anche, come egli la chiama, “la tirannide dei parecchi”. Noi viviamo in una “tirannide dei parecchi”. E fin dai tempi più antichi (il monumento ai tirannicidi è del 480 a. C.) è considerato moralmente lecito uccidere il tiranno.

 

5- NO ALLE OLIGARCHIE POLITICHE ED ECONOMICHE.

Ormai è divenuta consuetudine associare la democrazia alla libertà, ma non è così. La democrazia rappresentativa è, in realtà, un sistema di minoranze organizzate, di oligarchie politiche ed economiche strettamente intrecciate tra di loro e anche, eventualmente, con quelle criminali. Anche se quasi tutti i regimi sono stati oligarchici, un sistema oligarchico che si presenta sotto le forme della democrazia non è la stessa cosa di un sistema dichiaratamente aristocratico e ha pesanti

conseguenze sul tessuto sociale, sul nostro modo di essere, sulla nostra vita.

In queste concentrazioni vi si ritrovano i mediocri, i deboli che però uniti avranno sempre la meglio su chi agisce individualmente e liberamente. Nel solco del pensiero liberale si realizza l’estremo paradosso, proprio da chi voleva difendere i “diritti naturali” dell’individuo, valorizzandone capacità, meriti, potenzialità, si finisce invece per mortificare proprio il singolo, l’uomo libero, colui che rifiuta appartenenze e sottomissioni.

 

6- SI ALL’AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI

Alla conferenza di Helsinki del 1975 è stato firmato dalla maggioranza degli Stati del mondo un documento che sancisce il diritto di ogni popolo a separarsi da uno Stato in cui non si riconosce più.

Questo diritto in realtà, mentre è stato giustamente riconosciuto a popoli come quello croato o sloveno, viene negato a tutti quegli altri che non hanno protettori potenti, dai curdi ai ceceni ai tibetani. Ora un diritto è tale se appartiene a tutti, se invece riguarda solo alcuni è soperchieria del potere, che distingue tra figli e figliastri. Noi siamo per il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli.

 

7- SI ALLE PICCOLE PATRIE.

Questo punto si ricollega a quello precedente. I movimenti localisti sono per definizione antitetici a quella globalizzazione che noi combattiamo perché è uno strumento di omologazione, di standardizzazione e di distruzione dell’identità. Inoltre il prevalere delle piccole patrie o, se si preferisce, dei localismi permetterebbe la democrazia diretta che è l’unica forma di democrazia reale dove il cittadino partecipa in prima persona alle decisioni che lo riguardano. L’espropriazione del cittadino nelle democrazie rappresentative non è mitigata dall’istituto del referendum perché in Stati troppo grandi e complessi il voto del cittadino finisce fatalmente per essere manipolato dai media in mano alle oligarchie del potere.

 

8- SI AL RITORNO GRADUALE, LIMITATO, RAGIONATO A FORME DI AUTOPRODUZIONE E AUTOCONSUMO.

La sola possibilità reale di contrastare la globalizzazione è quella di bloccare il libero mercato mondiale che passa sul massacro delle popolazioni del primo e del terzo mondo. Bisogna quindi ritornare in modo graduale, limitato e ragionato, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per un recupero della terra e un ridimensionamento drastico degli apparati industriali, finanziari e virtuali. Ogni forma di localismo che non preveda questo ritorno si riduce a semplici aspetti folklorici (tipo il recupero dei dialetti o il salvataggio di qualche produzione locale). Non possiamo ritrovare né un’identità né un equilibrio né un’armonia perduta se siamo tutti battezzati in un mare di Coca-Cola.

 

9- SI ALLA DEMOCRAZIA DIRETTA IN AMBITI LIMITATI E CONTROLLABILI.

Il seguente punto si lega ai precedenti, in particolare ai punti 4 e 7.

 

10- SI AL DIRITTO DEI POPOLI DI FILARSI DA SE’ LA PROPRIA STORIA, SENZA PELOSE SUPERVISIONI ‘UMANITARIE’.

Ogni popolo ha diritto di decidere da sé il proprio destino nelle forme che più ritiene opportune e, se del caso, anche di farsi la guerra in santa pace. Se, per esempio, in Afghanistan governavano i talebani, questa era una storia afgana che, se non avesse funzionato, sarebbero stati gli stessi afgani a dover eliminare, non truppe straniere che vengono da diecimila chilometri di distanza sulla base di culture, schemi mentali, valori che nulla hanno a che vedere con la storia di quel Paese. Questo vale anche per l’Iraq e per tutti quei Paesi in cui l’Occidente, con la scusa della “cultura superiore” e “diritti umani”, è andato a ficcare il naso con la violenza, imponendo in realtà, oltre che una cultura estranea, i propri interessi materiali.

 

11- SI ALLA DISOBBEDIENZA CIVILE GLOBALE.

Se dall’alto non si riconosce più l’intangibilità della sovranità degli Stati, allora è un diritto di ciascuno di non riconoscersi più in uno Stato.

Con l’attacco alla Jugoslavia ed in seguito all’Iraq si è abbattuto il principio di diritto internazionale, fino ad allora mai messo in discussione da nessuno, della non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Ciò è stato fatto in nome di principi etici che si dichiarano universali, ma se esistono principi etici universali superiori alla sovranità nazionale io non ho più il dovere morale di schierarmi con il mio Paese se ritengo che calpesti questi diritti.

Insomma con l’abbattimento dell’intangibilità della sovranità nazionale è stato abbattuta anche l’appartenenza nazionale. E quindi noi abbiamo il diritto di schierarci con chi ci pare e piace e perciò di innescare forme di lotta, anche violenta, contro il Paese cui formalmente apparteniamo ed eventualmente in favore di altre culture e di altre civiltà.