Marco Tarchi – Americanismo

A proposito di pregiudizi
"Quello che mi ha sempre irritato […] è il perenne bambinismo, l’ingenuità degli americani. Pensano che tutti siano come loro, non concepiscono come legittime teste diverse dalle loro, mondi non uguali al loro. […] Gli americani non imparano mai nulla, anche ai più alti livelli esprimono un’incultura disperante, per cui credono che tutti siano simili a loro. 

Che il mondo insomma sia popolato di americani perfetti, loro, e di americani imperfetti, tutti gli altri, ma che comunque si possono intendere. In tutti gli anni che ho vissuto in America, questa è stata la mia esperienza costante. E anche la causa delle loro costanti sconfitte in politica estera".

Chi può aver pronunciato parole così ruvide sulla mentalità diffusa nella popolazione che abita il paese più forte militarmente, più ricco economicamente, più influente politicamente e più progredito tecnologicamente del mondo? C’è da scommettere che almeno nove su dieci fra coloro che hanno letto le righe che precedono si stanno ponendo un solo interrogativo prima di rispondere: la prosa citata appartiene a un intellettuale della sinistra radicale o a un suo omologo di destra? A un redattore di "Le Monde diplomatique" o a un esponente della Nouvelle Droite di Alain de Benoist? Nell’incertezza, a qualcuno verrà la tentazione di cavarsela con un’ipotesi generica, del tipo: da qualunque parte vengano, sono idee che possono espresse soltanto da un antiamericano, uno dei tanti affetti da quel deplorevole vezzo ideologico che consiste nell’attribuire agli Stati Uniti d’America tutte le nefandezze della nostra epoca e nel farli di continuo sedere sul banco degli imputati per invidia, rancore, nostalgia o, comunque, per voluta incomprensione del loro ruolo di difensori della pace, della sicurezza e della prosperità dell’Occidente.

Chi la pensa così, prenda nota che ad emettere i giudizi riportati in apertura è stato Giovanni Sartori, insigne scienziato politico, liberale a pieni carati, da oltre un quarto di secolo di casa più a Central Park che nel natio Oltrarno fiorentino, nell’intervista rilasciata a Ranieri Polese del "Corriere della Sera" sabato 10 novembre 2001, pubblicata sullo sfondo fotografico di un bandierone stars and stripes, nel contesto della campagna di supporto agli Usa avviata dal quotidiano milanese dopo gli attacchi subiti l’11 settembre. A quanto pare, la realtà è spesso più complessa dell’idea che ci se ne fa, e qualche argomento "antiamericano" può sfuggire di bocca anche a personaggi insospettabili, che, semplicemente, non temono di sfidare i tabù quando li reputano infondati.

Questa verità elementare è di difficile comprensione per tutti quegli osservatori, analisti e commentatori – numerosissimi – che da tempo, ma soprattutto negli ultimi mesi, si stracciano le vesti e gridano al delitto di lesa maestà ogniqualvolta compare all’orizzonte un giudizio negativo che abbia ad oggetto gli Stati Uniti d’America, la loro politica, il loro governo, la loro cultura e, peggio che mai, gli stereotipi comportamentali dei loro abitanti, meglio individuati con l’espressione american way of life. Per tutti costoro, ogni presa di posizione che vada in questa direzione è riflesso di un "pregiudizio", preannuncio di sventurate inclinazioni totalitarie, indizio di oscurantismo antimoderno.

Ora, a prescindere dal fatto che il termine "pregiudizio" andrebbe bandito da qualunque dibattito sensato e civile perché da tempo è passato a significare soltanto le idee di un interlocutore con cui non si è d’accordo – i suoi sono pregiudizi, i nostri, invece, giudizi: né più, né meno –, se ci si ostina a servirsi di questa parola, è difficile non accorgersi che in materia di Stati Uniti (o, come si usa dire, annettendo un intero continente allo stato più potente che ne fa parte, di America) di pregiudizi ne circolano, in Italia, in Europa e nell’intero spazio geografico della cosiddetta civiltà occidentale, almeno due, uno sfavorevole ed uno favorevole. E che il secondo è di gran lunga più diffuso del primo. Certo, del pregiudizio filoamericano si parla assai di meno, perché i circuiti della comunicazione di massa, essendone il veicolo privilegiato, tendono sistematicamente a darlo per scontato, a interiorizzarlo e a rifletterlo senza alcuna problematizzazione; ma ciò non cambia la realtà dei fatti: l’americanismo si propaga nel mondo a un ritmo assai più rapido dell’antiamericanismo. E, dato che dovrebbe inquietare chiunque abbia a cuore le sorti del pluralismo democratico, gli anticorpi che secerne sono neutralizzati da una demonizzazione massmediale che li annega nel conformismo e nella mancanza di senso critico.

Un atteggiamento mentale
Ciò accade perché, prima di essere un’istanza politica o culturale, l’americanismo si presenta sotto forma di atteggiamento mentale, di inclinazione psicologica forgiata dall’interpretazione prevalente di certi eventi nel contesto sociale occidentale e, soprattutto, dai meccanismi imitativi che fondano il consenso nelle società di massa. L’americanofilia acritica è infatti ormai diventata la sindrome costitutiva del modo di pensare della "gente comune" in argomento.

Chi nega questo dato di fatto impiega quasi sempre argomenti ideologici, incapaci di resistere ad un riscontro empirico. Così fanno, ad esempio, quella netta maggioranza di componenti dell’establishment intellettuale che dopo l’11 settembre vedono – e denunciano – accessi di anti-americanismo dappertutto e si affannano a sostenere che si tratta di un fenomeno in continua crescita. Non ci vuol molto a dimostrare che le cose non stanno affatto così.

Partiamo dal piano internazionale. Non solo alla fine degli anni Ottanta è venuto a mancare il più forte bastione della critica e dell’opposizione al ruolo egemonico degli Usa nel mondo, cioè la costellazione dei paesi retti da regimi comunisti satellizzati dall’Unione sovietica; c’è da aggiungere che i governi che si sono insediati nell’Est Europa agli Usa hanno spalancato mercati economici e culturali, offerto basi, spazi aerei e alleanze militari, garantito fedeltà, richiesto investimenti, favorendo un’ondata di americanofilia popolare dettata dalla voglia di rivalsa sulle parole d’ordine imposte in passato. L’unico paese refrattario a questa tendenza, la Jugoslavia di Milosevic, ha pagato la testardaggine a suon di bombe e distruzioni in quella che resta l’unica guerra europea dopo il 1945, è stato umiliato davanti a un Tribunale internazionale ideato e gestito dai suoi nemici ed è stato costretto ad allinearsi.

Le cose non sono andate diversamente ad altre latitudini. In America Latina, ogni velleità di terzaforzismo è affondata, con l’eccezione precaria del Venezuela di Hugo Chavez che è già minacciato da aspiranti golpisti "buoni" benedetti dal Pentagono, e la metamorfosi iperliberista del peronismo sotto la guida di Menem ha dato sanzione formale alla resa. La resistenza di Cuba è ormai poco più che folklore da attrattiva turistica per rivoluzionari in pensione. Nel mondo arabo, da cui proviene il pericolo fondamentalista enfatizzato dai teorici dell’inevitabile scontro di civiltà, la guerra del Golfo ha messo sulla difensiva, prostrandolo in attesa della prossima ulteriore punizione, l’Iraq di Saddam Hussein, ha allineato ai voleri di Washington sauditi ed emiri e ha isolato Libia e Siria. In Asia, l’Iran è passato dagli anatemi e dalle ostilità di Khomeyni verso il "grande Satana" ai mezzi sorrisi di Khatami; il pericoloso Pakistan è stato agganciato al carro grazie al pugno di ferro di uno dei tanti dittatori di cui la Cia si serve al momento giusto; l’India non dà segni di ostilità; l’Afghanistan ha adesso al vertice un consulente dell’Unocal, guardacaso proprio la ditta californiana che da anni prepara il locale gasdotto di vitale importanza per gli Usa. E anche la Turchia e l’Algeria sono state riportate sotto controllo geopolitico dopo che i loro imprevidenti elettorati le avevano affidate a governi eletti sì con ampio consenso popolare ma rei o sospetti di integralismo islamico. L’Africa, almeno per ora, non fa gioco, ma è difficile vedere in Mandela un nemico degli Usa, e della categoria dei fomentatori di rivoluzioni marxiste di cui egli era un tempo esponente si è quasi persa traccia; i pochi che restano si sono imborghesiti e con i nordamericani fanno affari, non guerriglie. Senza contare che, se ci sono interessi economici consistenti a repentaglio in qualche zona del Continente nero, un intervento militare diretto di Washington è tutt’altro che da escludere, come il caso congolese di Kabila ha insegnato. Si profila, è vero, la Cina come rivale potenziale non da poco: ma chi potrebbe seriamente sostenere che lì l’antiamericanismo è cresciuto negli ultimi anni? Non certo i proprietari di Pizza Hut, della Pepsi Cola o delle tante altre società a capitale statunitense che a Pechino hanno impinguato i bilanci. E se si eccettua l’ovvia reazione alla bombe che devastarono l’ambasciata cinese a Belgrado, forse non per caso, di pubbliche manifestazioni di ribellione all’egemonia americana, nell’ex Celeste Impero non si è vista l’ombra. Restano poi gli "stati-canaglia", dalla Somalia allo Yemen, ottimi per fornire al gendarme planetario pretesti utili a svuotare gli arsenali, rilanciare il ruolo trainante dell’industria bellica, sperimentare i prodotti più recenti della tecnologia militare e mostrare muscoli e bandiera con consenso unanime degli alleati. Sarebbe questa la ripulsa della potenza Usa che, secondo gli intellettuali occidentalisti, starebbe dispiegandosi con crescente intensità nel mondo?

La tesi non ha del resto fondamento neppure se la si esamina partendo da altri punti di osservazione.

Per rimanere sul terreno internazionale, la minaccia del terrorismo islamico – che qualche zelante costruttore di pubblica opinione, come Walter Laqueur, si è già affrettato a battezzare "fascismo verde" (etichetta già disponibile anche nella versione "nazismo", che è più trendy) – non ha attivato, malgrado le allarmistiche ed interessate previsioni, alcun movimento di massa a proprio favore nel Terzo mondo, paesi arabi inclusi. Presso le plebi di fede musulmana, ed ancor più nei ceti medi dei paesi che le albergano, l’America del successo e del consumo, di Hollywood, dei loghi delle multinazionali del consumo e del (poco) denaro da esse elargito per ripagare le ore di lavoro minorile e così sfamare bocche bisognose, suscita una dose di rassegnazione, se non di simpatia, capace quantomeno di pareggiare l’ira sollevata dall’America dei bombardamenti a tappeto su Baghdad o Kandahar. Fa eccezione l’esasperata popolazione palestinese, ma anche in questo caso è tutt’altro che improbabile che, se Bush un giorno decidesse di ritirare il sostegno incondizionato a Sharon e si adoperasse per far nascere un vero, ancorché minuscolo, stato palestinese indipendente e autosufficiente, le stesse torme di donne e bambini scese in piazza a Ramallah ad urlare la propria gioia all’annuncio del crollo delle Twin Towers ci ritornerebbero per festeggiare il dietrofront dell’ex nemico e sventolarne il vessillo.

Se lo sguardo si sposta alle opinioni pubbliche nazionali dei paesi europei, e dell’Italia, il panorama non muta. Anzi. I patiti dell’american dream, che vedono nel movimento antiglobalizzazione l’avanguardia di una nuova crociata contro gli Usa, o esagerano per partito preso oppure hanno cattiva memoria. Chi ricorda i furori degli anni Sessanta e Settanta sa quanto livore antiamericano promanasse dai cortei che sfilavano di continuo per strade e piazze denunciando la guerra del Vietnam, esaltando la rivoluzione culturale maoista o i movimenti di liberazione nazionale ispirati al castrismo. Dietro quegli sfoghi moltitudinari, estesi a moltissimi paesi e certo non meno numericamente consistenti delle manifestazioni no global, non c’era soltanto spontaneismo. C’era anche il consenso, molto spesso espresso sotto forma di sostegno organizzato, di forze politiche e sindacali importanti, che rappresentavano cospicue fette di elettorato. C’erano le petizioni irte di firme dei grandi nomi dell’intelligencija progressista delle più varie nazionalità, spesso in posizione dominante nelle università, nella stampa, nell’editoria, nel cinema, nel teatro. Di quel clima, di quella forza d’urto, nel presunto antiamericanismo odierno della generazione di Seattle non restano che residui.

Il grosso delle forze politiche un tempo sovversive e antisistemiche, pronte a scagliarsi contro le politiche di Washington ad ogni occasione propizia, si è dileguato o convertito alle idee che invitava a combattere. Una nutrita componente delle classi dirigenti della sinistra di ascendenza comunista oggi rivaleggia nel prendere le distanze dalle "ingenuità" giovanili e nell’atteggiarsi a partner credibile di un atlantismo rinnovato, irrobustito e sempre più dipendente dagli interessi geostrategici americani. Gli Joshka Fisher, gli Adriano Sofri e centinaia di altri ex contestatori folgorati sulla via di Damasco testimoniano che questa tendenza non risparmia chi aveva scavalcato i comunisti, decenni addietro, sul versante della radicalità e dell’estremismo. Gli eredi del fascismo si sono proiettati ancora più avanti e hanno ormai inserito l’America di Bush nella lista dei nuovi modelli con cui sostituire il guardaroba anni Trenta, andato finalmente in disuso. Quanto ai nuovi populisti, oscillano fra l’ammirazione incondizionata per gli States – illustrata dallo Jörg Haider che esibisce nel suo ufficio lo stemma della California e da tanti altri suoi imitatori orfani di Reagan – e complicate forme di odio/amore, esemplificate dagli andirivieni di Bossi, Le Pen, Mégret tra le denunce del "mondialismo" e le professioni di fede atlantista.

Se si passa ad esaminare l’atteggiamento delle altre famiglie politiche, il discorso non varia. I socialisti italiani non sembrano esattamente gli eredi del Craxi di Sigonella, che all’arroganza americana oppose il piglio deciso dell’autonomia di giudizio e di azione: non si ricorda una sola occasione in cui, negli ultimi dieci anni, abbiano messo in dubbio la bontà delle scelte statunitensi nemmeno quando cozzavano contro la linea del loro storico leader – a cominciare dalle vicende mediorientali. Quelli degli altri paesi, se si esula da Chevènement, si limitano a sperare in un nuovo Clinton che li tolga dall’imbarazzo di dover sorridere ad ogni incontro a un personaggio come George W. Bush, che è la smentita vivente di tutte le loro ragioni e aspirazioni. I partiti di matrice cattolica, sebbene alcuni commentatori ritengano la loro cultura un veicolo di forte critica allo stile di vita americano, o forse proprio per questo, rivaleggiano nell’adeguarsi all’andazzo generale, e a toglierli dalle peste c’è sempre pronto un Galli della Loggia che, ribaltando decenni di accorate perorazioni contro il materialismo consumista celebrato nel "regno di Mammona", battezza gli Stati Uniti "paese più cristiano del mondo", facendolo per giunta dalle colonne del quotidiano episcopale "Avvenire". Dei liberali di vecchio e nuovo conio, a questo proposito non mette nemmeno conto parlare: da sempre, per loro, sull’altra sponda dell’Atlantico splende il modello ideale, un’utopia su cui soffia giorno e notte il vento benefico dei Federalist Papers, garrisce il vessillo di tutte le libertà e brillano le stelle dell’Individuo, del Mercato, dell’Utilità, della Razionalità calcolante. Come questi grandi principi siano stati tradotti in pratica, e con quali costi sociali e culturali, a partire dal genocidio delle popolazioni indigene, non li ha mai granché interessati.

Se dunque resta ancora qualcuno che maledice l’America come Impero del Male, magari scagliando i suoi slogans in cortei affollati di simboli del Nemico indossati incoscientemente su jeans, t-shirts e berretti da baseball, è in sparuta compagnia. E per giunta è posseduto dal morbo di cui denuncia l’infezione, giacché "Impero del Male" è un’espressione a pieno diritto yankee: la coniò Ronald Reagan per prendere di mira l’Urss e reca in sé tutta quella carica di integralismo, fondamentalismo pseudo-religioso e scarso senso della misura di cui la cultura nordamericana è, per molti versi, impregnata.

Americanismi per tutti i gusti
Ovviamente, la capacità del pregiudizio filoamericano di propagarsi a macchia d’olio all’interno della mentalità collettiva è strettamente legata alla sua elasticità, che gli consente di assumere forme assai diverse a seconda della platea a cui i suoi sostenitori si rivolgono. C’è un americanismo "di destra", uno "di sinistra", uno ideologicamente neutrale. È il loro effetto sinergico a garantire l’egemonia di questo modo di vedere ed interpretare le cose.

L’americanismo di destra

Al sottofondo antropologico idealtipico delle varie destre gli Stati Uniti d’America offrono oggi una serie molto differenziata di stimoli.

In taluni "uomini di destra", la dominante di questo rapporto di sudditanza psicologica è il culto della forza, della potenza, dell’azione militare. L’ammirazione per lo strapotere bellico americano tocca le corde di un tipo umano piuttosto diffuso nell’elettorato della destra più estrema – il militarista, il cultore della gerarchia, l’amante del beau geste, il machista, ma anche il teorizzatore di una "morale dei signori" che da Nietzsche, sul filo delle colonne sonore wagneriane, è trasmigrata nel colonnello Kurz di Apocalypse now, continuando a fustigare i deboli e i perdenti – e lo libera dalle inibizioni e dai sensi di colpa a cui per lunghi anni lo hanno costretto le (non sempre confessate) simpatie per regimi travolti dalla seconda guerra mondiale. Chi vorrebbe a tutti i costi addebitare all’antiamericanismo, per squalificarlo, una matrice di destra radicale ignora o finge di ignorare che già al tempo della guerra in Vietnam negli ambienti neofascisti di vari paesi, Italia e Francia in primis, si affacciarono progetti di organizzare corpi di volontari per affiancare i soldati americani, ai quali si affidava l’ideale compito di vendicare l’umiliazione europea a Dien-Bien-Phu. Erano i tempi in cui Pino Rauti, sulle colonne di "Noi Europa", organo di Ordine Nuovo, teorizzava la nascita nelle giungle del Sud Est asiatico di un’élite di "nuovi centurioni" che, forte dell’esperienza di guerra, avrebbe al suo ritorno raddrizzato la schiena al proprio paese, secondo il collaudato schema ex combattentistico che aveva fatto la fortuna del fascismo in Italia mezzo secolo prima e alimentato il culto dei "proscritti". A quell’America ipotetica il neofascismo più radicale non aveva nulla da obiettare; anzi, ne avrebbe fatto ben volentieri il faro delle "forze sane" nella cui capacità di reazione alla decadenza sperava Julius Evola. Inoltre, in quegli stessi ambienti attecchiva, assai più dell’antisemitismo, l’ammirazione per l’eroica e guerriera Israele, sentinella dell’Occidente assediata dagli arabi, già allora ritenuti infidi e poco amati, ancor prima che cominciassero a migrare verso le nostre coste.

L’americanismo oggi più in voga a destra, tuttavia, non è quello riservato alle frange attivistiche estreme. Nel mainstream sta un’altra idea degli Usa, come patria del successo individuale, della meritocrazia, della libertà di arricchimento. Questa terra promessa del darwinismo sociale, in cui l’aborrito egualitarismo ha subìto le più dure sconfitte, ha ormai preso il posto, nell’immaginario di molti uomini e donne di destra, dell’America multirazziale, pullulante di delinquenza e intrisa di pacifismo che li inquietava vent’anni orsono. Da Reagan in poi, con qualche lieve oscillazione, ai loro occhi gli Stati Uniti sono passati a significare il luogo in cui è possibile esternare sentimenti che altrove godeno di cattiva fama. Sono il paese in cui il nazionalismo può raggiungere punte di isteria collettiva senza riscuotere il minimo biasimo, riservato invece a chi non lo manifesta. Dove, oltre che farle, per la guerra e per le esibizioni di forza militare si può apertamente tifare. Dove il culto del binomio "legge e ordine", invece di suscitare sospetti di nostalgie autoritarie, può portare al ruolo di star, come il caso di Rudolph Giuliani insegna, e le misure dure contro la criminalità, a partire dalla pena di morte, sono approvate dalla maggioranza dei cittadini. Dove si possono respingere fuori dalle frontiere gli immigranti clandestini con l’ausilio di sceriffi dal grilletto facile, reti elettrificate e cani feroci senza esporsi alla riprovazione della Caritas e la xenofobia può trovare sfogo nell’odio per il nemico giallo o arabo, compensando l’obbligata tolleranza per il melting pot interno. Dove i licenziamenti si possono effettuare senza trovarsi fra i piedi i sindacati e dove la ricchezza determina distanze sociali nette, pressoché universalmente riconosciute e approvate.

Va detto poi che, per una bizzarra nemesi, quel che dell’America non piaceva a certa destra europea degli anni fra le due guerre è divenuto parte integrante del culto che un’altra destra, quella del nuovo millennio, tributa agli States. I balzi da gigante delle tecnoscienze made in Usa ne vezzeggiano talune mai sopite inclinazioni prometeiche. Il dominio del mercato ne rassicura l’aspirazione alla creazione di ben definite gerarchie sociali. La cultura di massa importata attraverso i telefilm e i romanzi, con il suo incessante elogio dell’individualismo e il suo semplicistico manicheismo, le consente di riconoscersi in valori che da sempre ha coltivato. L’identificazione psicologica si trasforma così in un desiderio di imitazione domestica. La manifestazione romana di solidarietà con gli Stati Uniti d’America indetta dal "Foglio" ha dato sfogo ad uno degli aspetti più acuti di questo transfert, consentendo alla destra italiana di sbandierare un patriottismo per procura, in franchising, senza doversi sforzare a cercare ragioni per coltivarne uno proprio. Le parole di Berlusconi sulla superiorità dell’Occidente sulle altre culture hanno segnato un’altra tappa sul percorso: sentendosi e proclamandosi "tutti americani", gli italiani di destra si impossessano infatti di un orgoglio di cui la recente storia nazionale – imponendo lo spartiacque, nel fondo un po’ per tutti loro inaccettabile, della Resistenza come parziale riscatto della guerra perduta – li aveva defraudati.

Non va poi trascurato un ulteriore, non ultimo aspetto, di questa disposizione d’animo subalterna verso la superpotenza d’oltreoceano. Da decenni, gli Usa hanno simboleggiato l’alternativa al comunismo, il "mondo libero" eretto a simbolo contro la barbarie orientale sovietica. Che la destra liberale per questo li venerasse e fosse disposta a perdonare loro qualunque difetto, è più che comprensibile. Ma, caduti il muro di Berlino e l’Urss, il loro fascino ha travalicato anche le vecchie diffidenze degli ambienti neofascisti. Per partecipare del trionfo sul nemico storico, gli impacciati eredi dell’"O Roma o Mosca" si sono rassegnati ad ammettere il primato di Washington, cercando di riscuoterne qualche dividendo, a partire dalla legittimazione della loro inclusione nelle combinazioni governative in nome di un nuovo spartiacque storico: non più l’antifascismo ma l’anticomunismo. A Fini, che ha sempre sostenuto di essersi iscritto al Msi alla fine degli anni Sessanta perché irritato da un picchetto di attivisti rossi che gli voleva impedire la visione del film che celebrava l’epopea dei "berretti verdi" in Vietnam, non sarà parso vero di poter riannodare, con il plauso alla Nato o a George W. Bush, il filo di una simpatia che veniva così da lontano.

L’americanismo di sinistra

Se l’americanismo affonda ormai profonde radici a destra, non meno stretto è tuttavia il rapporto che lega agli States larga parte della sinistra italiana ed europea. È, anzi, in quest’area che l’America è – prima e più profondamente – assurta a mito culturale.

Anche negli anni in cui imperversava la Guerra fredda e la lealtà verso la causa della rivoluzione mondiale imponeva di definire gli Usa guerrafondai e nemici del popolo lavoratore, il tarlo di questa attrazione fatale scavava in molte menti che pure avevano sposato la filosofia del marxismo. Non si trattava di una semplice passione letteraria, alla Vittorini, o del moto spontaneo di riconoscenza di chi sapeva che con le sue sole forze mai avrebbe sconfitto il fascismo. C’era di mezzo una complicata forma di odio-amore che portava ad ammirare il continente in cui il culto del Progresso e della modernizzazione prendeva più compiutamente forma e nello stesso tempo a dolersi del fatto che, pur dando un contributo fondamentale alla cancellazione delle tradizioni che puntellavano i residui del vecchio ordine, esso non si risolvesse a imboccare la via del socialismo. In fondo, gli Stati Uniti erano il paese in cui più speditamente "deperiva" lo Stato inteso nella sua forma classica, le differenze etniche iniziavano a cancellarsi, l’economia aveva ormai preso il sopravvento sulla politica e il connubio fra secolarizzazione e materialismo si affermava a scapito delle vecchie "fisime" spiritualiste: tutti elementi che avvicinavano alla realtà il progetto di società ideato da Marx. Non solo: essi erano anche la patria dell’internazionalismo dei "quindici punti" di Wilson e della piena industrializzazione da cui sarebbe dovuta scaturire la coscienza di classe del proletariato, la culla del welfarismo alimentato dal new deal rooseveltiano. Certo, da quelle premesse tardavano a prendere corpo le attese conseguenze, ma niente impediva di immaginare che fosse solo una questione di tempo.

Era la prefigurazione dell’"altra America": una presenza quasi ossessiva nell’immaginario progressista di tutto il secondo dopoguerra, che si è trasmessa sino a noi mutando pelle di continuo e offrendo una chance di accordare il sentimento all’utopia alle generazioni del dopo Stalin, deluse dalla stasi del "socialismo reale". Più che sperare in improbabili mutazioni libertarie dei comunismi esteuropei, le "nuove sinistre" giovanili hanno infatti iniziato precocemente ad attendere la salvezza da Occidente. All’America del maccarthysmo o della condanna a morte dei coniugi Rosenberg, di cui avevano sentito parlare dai padri, sovrapponevano l’America dell’on the road e dei "figli dei fiori", che sottraeva alla società borghese il pilastro dell’autorità familiare: l’America dei campus universitari in rivolta e del rifiuto in massa della coscrizione militare. Già allora, decenni prima dei moti di Seattle, da lì molti giovani che si sentivano radicalmente di sinistra traevano ispirazione e parole d’ordine da trapiantare. Lì si produceva la musica che apprezzavano, lì prosperavano il teatro, il cinema, la letteratura "di protesta" a cui affidavano le proprie emozioni, lì assaporavano il clima culturale del cosmopolitismo, della rivolta nera, delle rivendicazioni femministe, dell’opposizione della filosofia dei diritti a quella dei doveri – insomma, di tutto ciò che contribuiva a minare la tenuta del modello di società contro la quale si sentivano chiamati a combattere. Anche in questo caso, per crearsi un mito bisognava selezionare una realtà controversa: prendere Malcolm X o Martin Luther King e buttare Lyndon Johnson, incorniciare Woodstock e ignorare la Bible belt, enfatizzare l’apertura mentale di Berkeley e tacere il conservatorismo dei villaggi rurali. Ma, usando gli opportuni accorgimenti, il patchwork poteva acquistare una sufficiente coerenza.

Così si è creata l’immagine dell’America di cui, a poco a poco, la sinistra europea ha fatto la sua bandiera, sostituendo, nella famiglia Marx, Groucho a Karl, la Nuova frontiera agli avvizziti Cento fiori, l’humour di Woody Allen alla seriosità dei precedenti testi sacri, la fede nella psicoanalisi a quella nella dittatura del proletariato e giù a seguire in un catalogo sterminato di acquisizioni, fino alle apoteosi veltroniane e alla designazione di Bill Clinton leader e profeta di un Ulivo mondiale. Mentre tutto ciò che sapeva di antipatia per l’America veniva accreditato alla forma mentis fascista – mirabili le ricerche in argomento di Michela Nacci, e l’uso catartico che tutta la stampa di sinistra ne ha fatto – o a nuove incarnazioni della leniniana malattia infantile del movimento operaio. Non stupisce che, forte di questa lettura edificante, la classe dirigente postcomunista abbia impiegato pochissimo, in tutta Europa, a digerire le pretese di egemonia statunitense avanzate dopo il crollo dell’Unione sovietica, avallandone le manifestazioni belliche con una lettura a senso unico dei doveri umanitari imposti dall’ideologia dei diritti dell’Uomo e sfruttando ogni concessione fatta, in perfetta simmetria con i concorrenti postfascisti, per farsi accreditare un "senso di responsabilità" e una "maturità" spendibili in combinazioni di governo.

L’americanismo "bipartisan"

Più delle versioni ideologizzate di diverso colore, a fare del culto acritico degli Stati Uniti d’America, della loro cultura e del loro modello di società il gergo più diffusamente parlato dalle opinioni pubbliche dei paesi europei è stata però quella che, in omaggio allo spirito dei tempi, potremmo chiamare una vulgata bipartisan, il cui cemento è, detta brutalmente, l’eterna vocazione delle masse ad ammirare il più forte. Da quando l’Urss è andata in pezzi, nessuno stato pare possedere la forza necessaria per frenare le ambizioni di dominio planetario di Washington e i più si chiedono, d’altronde, a cosa gioverebbe farlo. Parole come indipendenza e sovranità hanno, in tempi di globalizzazione, un suono falso. La diffusione del benessere fa della tutela dello status quo l’aspirazione più sentita dalla maggioranza degli abitanti del Primo mondo. Espressioni che un tempo fecero la fortuna del socialismo e oggi echeggiano solo nelle parole del Papa, come "non c’è pace senza giustizia", non trovano più orecchie disposte ad ascoltarle. La sola ipotesi che valga la pena difendere i caratteri specifici originari della propria cultura muove al sorriso chi vive in ambienti etnicamente sempre meno omogenei. Le prediche sulla necessità

Redazione