Il G8, il vertice degli otto Paesi più industrializzati del mondo che si è tenuto in questi giorni a Trieste, si è concluso con un nulla di fatto. Anzi si sono registrati dei passi indietro perché gli Stati Uniti vorrebbero mettere in discussione il pur modestissimo accordo di Kyoto del 1996 che prevede una riduzione del 5% della produzione di anidride carbonica quando sarebbe necessario abbatterla dell'80% per avere qualche risultato tangibile, e non subito ma in un secolo.
L'inerzia dei governi e delle classi politiche continua ad essere totale. Eppure che la situazione sia al limite, se già non l'ha superato, non è solo la convinzione di ecologisti un po' snob come quelli del WWF o di ambientalisti improvvisati ed incoerenti come i ragazzotti dei cosiddetti Centri sociali, ma di buona parte di quegli stessi scienziati cui si deve, attraverso l'applicazione tecnologica di massa delle loro invenzioni, l'attuale modello di sviluppo industriale.
I dati forniti dalle varie organizzazioni scientifiche, anche le più prudenti, sono eloquenti. Dal 1750 – inizio dell'era industriale – a oggi il carbonio presente nell'atmosfera è aumentato di 270 miliardi di tonnellate; dal 1950 al 2050 l'ammontare dell'acqua potabile a disposizione di ogni abitante della Terra scenderà del 73% (dati Fao); ogni anno 140 mila chilometri quadrati di foresta vengono distrutti, nel 1995 avevamo a disposizione 0,59 ettari di foresta a testa, nel 2050 ne avremo poco più della metà; nei prossimi cinquant'anni il fabbisogno di petrolio dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo passerà dagli attuali 3,5 miliardi di tonnellate a 15 miliardi, cioè se questi Paesi si svilupperanno sul serio, se mai dovessero raggiungere i nostri livelli di produzione e di consumo, il pianeta crollerebbe sotto il suo stesso peso (oggi un americano inquina e pesa sull'ambiente 24 volte di più di un etiope). E così via.
Ma ciò che è ancor più preoccupante della miope indifferenza dei governi è che anche gli scienziati più sensibili a questa catastrofe annunciata e già in atto, e gli ecologisti (che non appartengano alle esigue minoranze radicali americane e scandinave) hanno una visione utopica del modo di affrontare la questione ambientale. Essi cioè pensano di risolverla tecnologicamente, sostituendo le attuali fonti di energia inquinanti con altre non inquinanti, come quella eolica, solare e via dicendo. È pura illusione. In una certa regione agricola ai confini fra Olanda e Belgio hanno costruito trecento enormi mulini a vento, alti centinaia di metri, per sfruttare l'energia eolica. Il risultato è che l'inquinamento acustico provocato da questi mulini è più fastidioso e dannoso di quello atmosferico, a parte il fatto, non secondario, che gli abitanti di quella regione non si riconoscono più nella propria terra, prima liscia e piatta e ora ridotta a un incubo di torri gigantesche ed incombenti.
Il fatto è che non esistono fonti di energia non inquinanti. Tutte le fonti di energia usate a livello di massa sono, per ciò stesso, inquinanti. Se io ho in casa un foglio di carta non è certo un problema, se ho in casa dieci tonnellate di carta muoio soffocato. In realtà gli scienziati e i tecnoecologisti non fanno che girare intorno al problema. Perché affrontarlo per le corna è pressoché impossibile, concettualmente ed emotivamente, per chi è imbevuto del mito della modernità. L'unico modo per arginare la devastazione ambientale (ed esistenziale, ma questo è un discorso ancora più profondo) è infatti quello di ridurre la produzione e quindi i consumi. Non c'è altra via. Dovremmo rinunciare a tanti di quei meravigliosi oggettini di cui oggi ci circondiamo. Sarebbe, tra l'altro, l'unico modo, forse, per indurre gli attuali Paesi del Terzo Mondo a non seguire la nostra strada.
Il problema che abbiamo davanti, se davvero vogliamo affrontarlo, non è produrre di più e ancora di più e con tecnologie sempre più sofisticate, ma caso mai ridistribuire meglio, globalmente e localmente, la ricchezza già esistente. Ma voi ve lo immaginate un Rutelli, un D'Alema, un Berlusconi, di qualsiasi Paese, che nel suo programma dica: «Ragazzi, quest'anno non vogliamo aumentare il Pil ma diminuirlo, non vogliamo produrre di più ma di meno e voi dovete consumare di meno»? Nessun uomo politico lo farà mai. E se anche ce ne fosse uno così lungimirante da fare questo discorso e cercare di dargli un'applicazione pratica non servirebbe a niente perché o la riduzione della produzione industriale è globale o non è dato che l'inquinamento non riconosce le frontiere e i confini. E così continueremo ad andare avanti come abbiamo fatto finora, gattini ciechi in preda ad un'ansia bulimica e autodistruttiva; ragni prigionieri della stessa tela che abbiamo tessuto, stritolati già ora da un meccanismo che noi abbiamo avviato ma che non siamo, da tempo, più in grado di controllare. Finché un giorno il fragile castello di carte che abbiamo messo in piedi ci crollerà addosso mentre il terreno, che come talpe impazzite abbiamo sforacchiato per ogni dove, ci franerà sotto i piedi. E sarà, con buona pace dei G8 e di tutti noi, l'ora del non ritorno. Amen.
Da "Il Tempo" del 04/03/2001