Non è un caso che il centro focale della nostra società dello spettacolo sia il talk show. Questo è infatti un mondo, come scriveva già a metà dell'800 Edgar Quinet, «che ha messo le parole al posto delle cose» e che ha una fede pressoché cieca nel loro valore taumaturgico. Hai un cancro, un dolore irrimediabile, ti hanno ucciso il figlio prediletto, la sposa amata, ti han tolto la luce degli occhi, il ben dell'intelletto, il piacere dei sensi? Non importa. «L'importante è parlarne» esulta, tutto giulivo, Maurizio Costanzo.
E convinto non è lui solo, perché ciò porta fiato al suo mulino d'aria fritta, ma anche i ciechi, i sordi, gli storpi, gli sciancati, i nani, i moribondi, i disgraziati che sul suo palcoscenico, o su altri, rovesciano le proprie budella e si raccontano fin nei più minuti ed intimi dettagli con un piacere – proprio e altrui – morboso e impudico, credendo di essere rispettati perché vengon chiamati non vedenti, audiolesi, motulesi. Questa società infatti, rispetto ai tempi di Quinet, ha fatto un passo ulteriore: non solo ha sostituito le parole alle cose ma crede che le parole possano cambiare la realtà delle cose. E l'orgia dell'eufemismo. Gli unspeakable, che in epoca vittoriana attenevano alle funzioni e agli organi sessuali e agli indumenti ad essi pericolosamente vicini come le mutande e addirittura i calzoni (che ancora oggi nel francese familiare vengono chiamati gli inexpressibles), oggi riguardano i difetti fisici e le disuguaglianze sociali (i meno abbienti, i Paesi in via di sviluppo). Si spaccia tutto ciò per una forma di delicatezza. Balle.
E' che in una cultura che ha fatto dell'uguaglianza un mito e su di esso ha rovesciato tonnellate di aspettative il diseguale appare inaccettabile, intollerabile, osceno più di una figa spalancata. Quindi se non proprio uguale bisogna renderlo almeno quasi uguale. Ma i non vedenti, gli audiolesi, i motulesi non son per questo meno ciechi, sordi e storpi. E l'eufemismo non lenisce affatto le loro ferite ma al contrario, come tutte le forme di ipocrisia e di retorica, contribuisce ad esacerbarle esattamente come il velo sulle cose del sesso esalta l'erotismo.
Anni fa frequentavo un bar di periferia, luogo in cui resiste ancora un po' di cultura popolare, dove c' era un ragazzo zoppo che gli avventori chiamavano familiarmente Mennea. Lì per lì mi parve crudele, e in seguito mi resi conto che non era così. Pantografato in modo inequivocabile nella sua malformazione Mennea era infatti perfettamente integrato nel gruppo e giocava a biliardo, a ramino e, nel retrobottega, a poker come tutti. Ma nessuno fingeva che potesse fare il centometrista. Il modo migliore di trattare il diverso è di accettarlo nella sua diversità, non di tentarne un'ipocrita e impossibile omologazione facendogli fare grottesche Olimpiadi, dove i monchi giocano a basket, le carrozzelle corrono i cento metri e i ciechi gareggiano nel tiro a segno. Ad ogni buon conto l'eufemismo è oggi uno dei grimaldelli di cui la società del talk show si serve per poter più tranquillamente ravanare nelle pieghe più riposte del corpo e dell'animo umano, per rovistare nelle lenzuola e fra le mutande sporche. Nella civiltà del talk show noi non facciamo altro che avvoltolarci nella nostra merda.
Perché la società delle parole non è che un portato di secondo grado di un altro mito, di derivazione illuminista, ancor più pernicioso: il mito della conoscenza. «Importante è sapere». Ma dove? Ma quando? Forse che se so di avere il cancro sto meglio di quando non lo so? E la zuffa intorno a Di Bella è indecorosa perché la chemioterapia (chiamata affettuosamente la chemio) non ha mai salvato nessuno (come del resto il metodo del guru di Modena che però, perlomeno, non è pervasivo ), ciò che è riuscita a fare la medicina è solo di anticipare di qualche anno la diagnosi, guastando così prima del tempo la vita dei malati ancora sani. È la tendenza della medicina moderna: farci sapere tutto prima, compresa, se possibile, la data esatta della nostra morte.
Certo l'esigenza della conoscenza è antica quanto l'uomo. Ma per i greci e i latini era principalmente ricerca di sé («conosci te stesso») o era volta a trovare le risposte alle grandi e tormentose domande che da sempre affascinano e angosciano l'uomo: «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?». Ma ora che la filosofia, esausta, ha rinunciato a queste risposte, a che serve la conoscenza? «A descrivere l'arredo dell'Universo» mi ha detto una volta il filosofo Salvatore Veca. Ma che m'importa dell'«arredo dell'Universo» se non ne posso conoscere le ragioni? Nel frattempo la conoscenza, applicata sistematicamente e scientificamente ad ogni angolo del micro e del macrocosmo, ad ogni anfratto dell'animo umano, ci ha tolto la fantasia, il sogno, il mistero. E, ciò di cui abbiamo oggi bisogno, oltre che di un po' di silenzio, è proprio del mistero. E appaiono fulminanti e preveggenti le parole che Dostoevskij nei Fratelli Karamazov mette in bocca al Grande Inquisitore, il cardinale novantenne che nella Spagna del '500 ha fatto arrestare Cristo tornato sulla terra per rivendicare la libertà dell'uomo: «Oh, ne passeranno ancora dei secoli nel bailamme della libera intelligenza, della scienza umana…. Ma verrà pure un giorno in cui la fiera si appresserà a noi, e si metterà a leccare i nostri piedi, e ad annaffiarli con le lacrime di sangue dei suoi occhi. E noi monteremo sulla fiera e innalzeremo la coppa e su questa coppa sarà scritto: MISTERO».
Da "Il Borghese" del 05/04/1998