Maurizio Pallante – I monasteri del terzo millennio

                                                    I monasteri oggi
Nel corso del XX secolo la vita monastica in occidente ha subìto un declino inarrestabile. La maggior parte dei monasteri non ospitano più tra le loro mura comunità religiose e l’afflusso dei pellegrini è stato sostituito da comitive di turisti che si limitano a visitarne chiese e chiostri, ascoltando più o meno attentamente qualche riassunto storico delle vicende che hanno attraversato, osservando più o meno distrattamente le loro strutture architettoniche e le opere d’arte che contengono. Le uniche funzioni religiose che ancora si celebrano al loro interno sono, di tanto in tanto, matrimoni di coppie attratte più dalla bellezza e dalla suggestione dei luoghi che da una sintonia spirituale con chi vi si rinchiudeva per scelta di vita.

 

Lo stesso impegno delle Amministrazioni pubbliche e delle Sovrintendenze ai beni artistici e culturali a preservarne l’integrità, o a recuperarla nei limiti del possibile quando sia stata intaccata dall’incuria e dalla trascuratezza derivanti dall’abbandono, è motivato nei casi più nobili da ragioni di carattere storico-culturale, più spesso dalla speranza di trasformarli in attrattori di turismo che facciano confluire sulle economie locali flussi di denaro aggiuntivi rispetto a quelli attivati autonomamente. A chi li visiti cercando di ritrovare lo spirito che li animava per ricavarne elementi di riflessione e di meditazione, appaiono come conchiglie fossili, di cui sono sopravvissute le strutture ma non la vita che ospitavano.
Le cause di questo inarrestabile declino sono state ampiamente analizzate, a partire dalle riflessioni svolte da Max Weber sul disincanto del mondo operato dal razionalismo. Dalla seconda metà del Novecento lo sviluppo industriale, la diffusione del benessere e i successi della scienza hanno progressivamente cancellato dalla cultura individuale e collettiva il senso del sacro. La religiosità ha ceduto il posto a un atteggiamento materialistico, i valori della sobrietà e della temperanza sono stati sostituiti dal desiderio di avere sempre di più e sempre più in fretta. E non si è trattato semplicemente di un fenomeno culturale indotto, ma di una necessità intrinseca del modo di produzione industriale. La crescita della produttività e della produzione conseguenti allo sviluppo scientifico e tecnologico richiedevano infatti necessariamente una crescita della domanda di beni di consumo. L’identificazione del benessere sociale con la crescita del prodotto interno lordo non poteva non comportare la diffusione di una cultura edonistica. I fasci di luce gettati dal razionalismo non potevano che ridurre gli ambiti del mistero. Sotto la spinta esercitata da questi fenomeni l’influenza delle religioni si è progressivamente ridotta e, insieme al declino della fede, ha comportato anche un declino dei valori e dei modelli di comportamento che ad esse si ispiravano.
Ma davvero i monasteri del secondo millennio non hanno più nulla da insegnare agli uomini del terzo? Davvero possono essere tutt’al più recuperati in un’ottica museale semplicemente come testimonianza di un’epoca passata e ormai conclusa, di un modo di vivere superato dai progressi scientifici e tecnologici avvenuti negli ultimi tre secoli? Una visione della realtà improntata ai principi del realismo imporrebbe di crederlo. Tuttavia, prima di cedere a questa interpretazione che in base ai dati di fatto sembrerebbe ovvia, può essere utile analizzare i principi di fondo della vita monastica, per vedere se davvero non offrano nessuna indicazione alle generazioni presenti che, sotto la guida dell’occidente industrializzato e della sua irresistibile forza di attrazione nei confronti del resto del mondo, hanno appena varcato la soglia del terzo millennio con un fardello di problemi sempre più gravi a cui la cultura dominante non sa dare risposta. Tre sono i punti su cui sarebbe utile riflettere e da cui si potrebbero trarre utili indicazioni: il rapporto dei monaci con il territorio (il lavoro), con gli altri (l’economia e la socialità) e con se stessi (il senso della vita).


                                         Valori d'uso e valori di scambio
Dal punto di vista economico e produttivo i monasteri erano strutture tendenzialmente autosufficienti. Le competenze professionali dei frati e dei loro coadiutori laici erano variegate e in grado non solo di assicurare la soddisfazione dei bisogni interni, ma anche di offrire beni e servizi a una popolazione esterna limitrofa, di soddisfare le necessità contingenti di alimentazione e ricovero di viandanti e pellegrini, di provvedere all’ospitalità e alla cura di alcuni tipi di malati che vi si recavano appositamente (ad esempio gli afflitti dal fuoco di sant’Antonio nell’Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, in Valsusa, lungo la via francigena). La base della loro autosufficienza economica e produttiva era costituita dall’agricoltura praticata nei terreni circostanti di loro proprietà, dalla trasformazione dei prodotti agricoli sia per uso alimentare sia per uso terapeutico (erboristeria), dalle attività artigianali connesse. Si trattava in sostanza di strutture economiche finalizzate fondamentalmente alla produzione di valori d’uso per i propri aderenti, ma non chiuse nei confronti dell’esterno: accanto alla centralità della produzione dei valori d’uso vi era anche una produzione di valori di scambio che fornivano alle Abbazie e ai Monasteri il reddito monetario con cui potevano acquistare beni e servizi non altrimenti ottenibili (particolarmente rilevanti, da questo punto di vista, sono stati gli investimenti in edifici di particolare pregio architettonico e nelle opere d’arte che ancor oggi si possono ammirare).Il modo di produzione industriale e l’economia mercantile hanno rovesciato questo rapporto tra produzione di valori d’uso e valori di scambio, ponendo la centralità sulla produzione dei valori di scambio e marginalizzando progressivamente la produzione di valori d’uso, fino a farla sparire quasi del tutto. L’unico residuo significativo che oggi permane è il lavoro femminile all’interno delle famiglie nucleari. Questo capovolgimento ha favorito lo sviluppo delle specializzazioni professionali e delle tecnologie determinando forti accrescimenti di produttività e produzione, ma in cambio ha ridotto l’autonomia delle persone nella soddisfazione dei loro bisogni vitali. Oggi, nelle società industriali, in particolar modo nelle città che ne sono il cuore, nessuno produce nulla di ciò che gli serve per vivere e tutti dipendono da altri per tutto. Il corrispettivo a livello culturale di questa situazione di assoluta interdipendenza reciproca è l’esasperazione crescente delle specializzazioni, che riduce sempre di più l’area di conoscenza di ogni individuo creando barriere insormontabili a ricostruire una visione d’insieme anche all’interno di ogni singola branca del sapere.

                                       Dono e scambio mercantile
La centralità della produzione di valori d’uso in una struttura economica limitata territorialmente e finalizzata all’autosufficienza, richiede agli individui la capacità di svolgere, accanto al proprio lavoro principale, differenti mansioni, a volte in forma di collaborazione subordinata, e di costruire una rete di scambi fondati sul dono e sulla reciprocità. Ognuno mette a disposizione degli altri la propria competenza specifica e riceve in cambio le competenze specifiche altrui. In questo tipo di struttura economico-produttiva il dono non è il regalo rituale della società consumistica, né l’atto caritatevole che le religioni raccomandano ai fedeli per alleviare le condizioni di miseria in cui vivono i poveri: è uno scambio reciproco con alcune caratteristiche non scritte, ma ben definite: l’obbligo di dare, l’obbligo di ricevere, l’obbligo di restituire più di quanto si è ricevuto. Con queste caratteristiche il dono è una forma di scambio che crea legame sociale tra le persone coinvolte: io ho ricevuto da te e ti restituisco più di quanto mi hai dato; quando tu mi restituirai quanto ti ho dato in più, mi darai più di quanto hai ricevuto da me in modo che io sia nuovamente obbligato nei tuoi confronti e così via.
Senza andare tanto lontano nel tempo né presupporre la necessità di strutture comunitarie, in Italia questo tipo di scambi ha sostanziato la vita delle campagne fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando l’agricoltura è stata investita e trasformata dalla logica industriale e mercantile. Prima di allora le attività svolte dalle famiglie contadine non erano finalizzate principalmente a vendere ma a consumare quanto veniva prodotto, l’agricoltura non era separata dall’allevamento e in ogni podere familiare si coltivava un po’ di tutto, non solo in forme intensive il prodotto più facilmente commerciabile e redditizio. Nelle borgate e nelle frazioni rurali tutti gli uomini adulti attivi collaboravano nei lavori più impegnativi e faticosi che scandivano nel corso dell’anno l’attività agricola: mietitura e trebbiatura del grano, vendemmia, raccolta e scartocciatura del mais, preparazione della legna per l’inverno ecc.. Le prestazioni che gli artigiani locali – fabbro, falegname, cestaio, bottaio, impagliatore di sedie – svolgevano per i contadini venivano spesso scambiate con i prodotti agricoli. Tutti i capifamiglia destinavano una quota di tempo concordata per eseguire lavori di utilità pubblica: manutenzione delle strade e dei fossi, realizzazione di canali di deflusso dell’acqua piovana, sgombero e apertura di sentieri, gestione e uso comune degli stagni e degli acquitrini in cui veniva messa a macerare la canapa ecc.. Accanto a queste forme regolari di scambio non mercantile, particolarmente importante per i legami sociali della comunità contadina tradizionale era la norma non scritta, ma rigorosamente rispettata, che obbligava tutti i membri a prestare ogni forma di aiuto e assistenza alle famiglie che per svariate ragioni – morte o malattia di un componente, gravi danneggiamenti alla cascina, perdita del raccolto ecc.- non riuscivano temporaneamente sostenere la mole di lavoro richiesta dall’ordinaria conduzione del podere.
Nella società industriale e mercantile, in cui la centralità è stata assunta dalla produzione di valori di scambio, i rapporti di scambio tra le persone sono mediati dal mercato e, pertanto, diventano impersonali. Chiunque può comprare da chiunque e vendere a chiunque beni e servizi analoghi offerti da più produttori. La scelta avviene in base alla disponibilità economica degli acquirenti e alla convenienza dell’offerta (il rapporto prezzo-qualità). Mentre lo scambio fondato sul dono e sulla reciprocità crea legami sociali, lo scambio mercantile li distrugge. Toglie la rete di protezione della solidarietà mentre accresce la dipendenza di ogni individuo da altri per la soddisfazione dei propri bisogni vitali. Riduce l’autonomia degli individui inserendoli in un meccanismo di cui costituiscono semplici ingranaggi intercambiabili. Alla collaborazione sostituisce la concorrenza e la rivalità tra produttori, alla reciprocità l’indifferenza, alla centralità del rapporto interpersonale la centralità della merce.

                                                  Legame con territorio
La prevalenza della produzione di valori di scambio oltre a distruggere i legami sociali, modifica anche radicalmente il rapporto degli uomini con il mondo perché scioglie i legami col territorio. Se il fine dei produttori non è la soddisfazione dei propri bisogni vitali, ma vendere ciò che producono, il loro obiettivo di fondo è estendere il cerchio della propria potenziale clientela, da una parte riducendo i costi di produzione per battere i concorrenti, dall’altra allargando l’area territoriale in cui vendono ciò che producono. Pertanto il legame con il territorio in cui si svolgono l’attività produttiva diventa un limite. Devono andare oltre, sia per acquistare i fattori della produzione dove sono più convenienti economicamente, sia per trovare altri mercati. Gli aspetti positivi di questa evoluzione non si possono sottovalutare. L’allargamento della sfera mercantile ha consentito in primo luogo di accrescere la disponibilità di beni e servizi per quantità crescenti di popolazioni. Inoltre ha comportato una estensione degli orizzonti culturali di comunità e gruppi sociali precedentemente chiusi in una rete immutabile di relazioni soffocanti e nella rigida conservazione delle proprie tradizioni. Non bisogna però sottovalutare neanche l’altro lato della medaglia. Lo scioglimento dei legami delle attività produttive col territorio ha deresponsabilizzato gli uomini nei confronti degli ambienti. Se la maggior parte dei mezzi di sussistenza si ricavano dal territorio in cui si vive, non ci si può non sentire responsabili nei suoi confronti perché se ne dipende. Non si sfrutta intensivamente perché produrre più di quanto si consuma non ha senso. Non si pensa solo al presente e per non avere carenze in futuro si evita di danneggiarlo. Per accrescere la produttività e diminuire la fatica del lavoro non si usano sostanze nocive perché ciò che si produce si consuma. Non si deturpa il paesaggio perché costituisce la propria nicchia esistenziale. Il suo rispetto e la sua protezione non sono affidati all’etica o ai buoni sentimenti, che sono una merce rara, ma all’interesse.
Se invece i produttori non hanno un legame diretto con il territorio in cui svolgono la loro attività produttiva e questa attività non è finalizzata principalmente a produrre valori d’uso per soddisfare i loro bisogni; se, in una logica economica mercantile, il loro fine è produrre valori di scambio e sono sottoposti alle leggi della concorrenza, per loro il territorio diventa una risorsa da sfruttare in modi intensivi per ricavarne il più possibile e gli unici limiti che si pongono sono motivati dall’esigenza di non esaurire la fonte della loro ricchezza fino al momento in cui non ne abbiano trovata una nuova. In un sistema economico finalizzato alla produzione di valori di scambio l’indice del benessere non può che essere la crescita del prodotto interno lordo (il valore monetario dei beni e dei servizi venduti, ovvero la somma dei valori di scambio) e la crescita del prodotto interno lordo non può che avere effetti distruttivi nei confronti degli ambienti, perché da una parte richiede quantità crescenti di risorse naturali da trasformare in merci, dall’altra l’adozione di tecnologie finalizzate alla crescita della produttività anche se, come è successo negli ultimi tre secoli, generano forme di inquinamento sempre più devastanti.

                                                       Urbanizzazione
Una delle conseguenze più macroscopiche dell’estensione dell’economia di mercato fondata sulla produzione di valori di scambio è la crescita tumorale delle aree urbane. Le città sono luoghi in cui la produzione di valori di scambio non ha alternative perché non può averne. Nessuno nelle città produce valori d’uso perché non è possibile farlo (anche se c’è chi cerca una parziale compensazione a questa carenza facendo del bricolage o coltivando orticelli in alcune aree provvisoriamente non edificate delle periferie). Nel corso del Novecento lo sviluppo dell’economia mercantile ha fatto crescere la percentuale della popolazione mondiale urbanizzata dal 3 al 30 per cento. Negli ultimi decenni questa tendenza ha avuto una forte accelerazione e nei prossimi si prevede che farà registrare ulteriori incrementi. Nel 1976 le città con più di un milione di abitanti erano 190, oggi sono molte di più e una ventina di megalopoli hanno raggiunto una popolazione tra i 10 e i 25 milioni. Alcune di esse nel giro di pochi decenni supereranno i 30.
Il corrispettivo della crescente concentrazione nelle aree urbane è l’abbandono di territori sempre più vasti precedentemente abitati per secoli. Pieni di strutture e di storia. In Italia un esempio emblematico di questa evoluzione è rappresentato dallo spostamento della popolazione dai paesi interni degli Appennini alle fasce costiere. Nelle Marche la costruzione dell’autostrada adriatica lungo la costa ha svuotato i paesi dell’interno e trasformato la stretta fascia pianeggiante tra le pendici delle ultime colline e il mare in un’unica area urbana senza soluzioni di continuità. Tutte le attività economiche e produttive si sono insediate lungo l’asse di sviluppo delineato dalla direttrice autostradale trascinando con sé le sovrastrutture culturali, sociali e religiose. L’antica diocesi di Ripatransone, un paese del vicino entroterra ricco di storia e di monumenti architettonici, è stata trasferita nella cittadina portuale di San Benedetto del Tronto, che in pochissimi anni ha allungato tentacoli di palazzine in tutte le aree disponibili a nord e sud del suo nucleo originario. Nella stretta fascia costiera la densità della popolazione è diventata altissima, i prezzi di terreni e case sono lievitati rapidamente, il traffico caotico e gli imbottigliamenti allungano sempre di più i tempi di spostamento, il rumore non conosce soste nemmeno di notte. Nell’interno, a pochi chilometri di distanza, paesini bellissimi, silenziosi e semivuoti, traffico inesistente, grandi spazi visivi, prezzi di case e terreni molto più bassi. Altrettanto è avvenuto in una regione caratterizzata da un’analoga struttura morfologica, come la Liguria, e in tutte le aree montuose e collinari che non abbiano avuto uno sviluppo turistico. (È ancora il sonno della ragione, o la sua veglia febbrile, oggi, a generare mostri?).

                                                    Dove ritirarsi
Tutto lascia supporre che al meccanismo dell’economia mercantile e alla sua implacabile estensione tra l’umanità (la globalizzazione e l’occidentalizzazione del mondo) non sia possibile contrapporsi. La forza del Leviatano è completamente sfuggita al controllo degli uomini e continua a crescere per spinta endogena. Si possono però ricavare nicchie di autonomia in cui sottrarsi alla sua accettazione passiva o rassegnata. A chi si proponga di fare questa scelta, i monasteri del secondo millennio offrono indicazioni indispensabili, da reinterpretare e adeguare ai tempi attuali, per costruire nel terzo millennio monasteri in cui, poiché una salvezza collettiva appare impossibile, tentare almeno una salvezza individuale (che non è un’operazione egoistica come la crudezza dell’affermazione potrebbe indurre a credere, ma culturale e, quindi, profondamente sociale).
A differenza dei monasteri del secondo millennio, che venivano costruiti lungo le strade di transito percorse da pellegrini e mercanti, i monasteri del terzo millennio sorgeranno nelle aree marginalizzate dalle direttrici di sviluppo dell’economia mercantile. I loro luoghi di elezione saranno i paesi e le frazioni abbandonate, dove le strade di scorrimento veloce non hanno rettificato e allargato le antiche vie di comunicazione, le reti commerciali non hanno esteso le loro maglie per mancanza di una domanda adeguata, l’industria non ha creato le infrastrutture che le necessitano, la speculazione edilizia non ha allungato i suoi tentacoli. In molti di essi ancora si legge l’antica trama intessuta dal lavoro degli uomini nel corso dei secoli e dei millenni adeguando alla morfologia del suolo l’edificazione delle case, la distribuzione degli appezzamenti agricoli, i tracciati della viabilità. Spopolati da un ininterrotto processo migratorio verso le aree urbane, non ritenuti interessanti come luoghi di villeggiatura in cui ristrutturare le case esistenti e insediare strutture d’intrattenimento e divertimento di massa, li avvolge una sorta di sospensione del tempo in cui a poco a poco i boschi riprendono il sopravvento sui terreni dissodati e gli edifici vanno lentamente in rovina. Anche quando la loro bellezza paesaggistica non sia eccezionale, nessun quartiere cittadino di pregio può reggere al loro confronto e l’emarginazione stessa dallo sviluppo conferisce ad essi una qualità ambientale e una vivibilità superiori. L’aria non è attossicata da gas di scarico, non ci sono rumori né intasamenti, di notte vi persiste il buio, le connotazioni delle stagioni sono più nette. Segni di arretratezza che il progresso si premurato di eliminare dovunque è arrivato. Persistenze del passato a cui non viene conferito alcun valore e, quindi, non incidono sui prezzi di vendita.

                                                Ausilio della tecnologia
L’antica sapienza di cui sono intessute queste realtà privilegiate non è stata cancellata, ma è rimasta custodita proprio dall’abbandono e persiste come una potenzialità inespressa. Non appena se ne vadano a cercare gli indizi riaffiora ed è in grado di offrire forme interessanti di “collaborazione” con il sapere e il saper fare elaborati successivamente per risolvere gli stessi problemi. Il recupero di questi luoghi sarà dunque anche un recupero della sapienza che li ha modellati. La ristrutturazione delle case per farne celle dei monasteri del terzo millennio non ne rispetterà soltanto forme, misure e tipologie costruttive, ma ne valorizzerà, potenziandola al massimo, la capacità intrinseca di costituire un riparo dagli effetti indesiderati del clima col minimo apporto energetico. Le conoscenze antiche, che le collocavano in luoghi riparati morfologicamente dagli agenti atmosferici indesiderati e le orientavano in modo di poter beneficiare appieno degli apporti climatici favorevoli, che usavano lo spessore dei muri perimetrali per coibentarle e avevano elaborato una serie di metodologie per conservare il caldo e il freddo nei periodi in cui non erano forniti direttamente dai fattori climatici, saranno integrate dalle più avanzate tecnologie elaborate per ricavare dal clima più di quanto possa offrire di per sé e annullare del tutto in modi passivi i suoi effetti indesiderati (dai collettori solari termici ai pannelli fotovoltaici, dagli impianti eolici agli standard di coibentazione che rendono superflui gli impianti di riscaldamento e di raffrescamento). Il recupero delle tecniche agricole tradizionali sarà integrato con le più avanzate conoscenze biochimiche per potenziare i meccanismi di difesa naturali delle piante coltivate e accrescere i loro rendimenti senza stravolgerne la fisiologia. La più approfondita conoscenza del ciclo dell’acqua sarà utilizzata per effettuarne prelievi senza sprechi, gestioni consapevoli e restituzioni pulite con processi di depurazione biologica. Il recupero degli insediamenti umani emarginati dallo sviluppo si prefiggerà una conservazione intelligente del passato arricchita da innovazioni qualitative, invertendo il degrado causato dall’abbandono dell’ultimo cinquantennio senza introdurre i nuovi elementi di degrado apportati dalla estensione della logica mercantile a tutte le attività umane.

                                               Integrazione col mercato
I monasteri del terzo millennio non richiederanno necessariamente voti di obbedienza a regole, né comunioni di beni mobili e immobili. Saranno strutture leggere, o meglio ancora non strutture, semplici luoghi d’incontro in cui si ritroveranno per elezione e affinità, persone e famiglie che avvertono in modo particolarmente acuto il disagio, la sofferenza e i limiti di una vita fondata sulla produzione di valori di scambio e vogliono riscoprire la dimensione di una vita fondata principalmente, ma non esclusivamente, sulla produzione di valori d’uso, sul dono e la reciprocità, sul legame con il territorio da cui ricavano i propri valori d’uso. In alcuni di questi luoghi stanno già confluendo e confluiranno in misura sempre maggiore, ma in ogni caso statisticamente irrilevante, gruppi di persone che vi abiteranno per scelta, o confermando con un atto di volontà una collocazione avuta per caso (e, quindi, non vivendo come emarginazione la marginalità), o arrivandoci dopo aver abbandonato le aree urbane in cui vivevano, precedenti ruoli di produttori di valori di scambio e l’economia mercantile.Le celle di questi monasteri saranno case autonome e indipendenti (ciò non esclude che alcune di esse possano essere strutture comunitarie) i cui abitanti valorizzeranno al massimo la produzione di valori d’uso, l’agricoltura e il lavoro manuale. Naturalmente nessuno sarà in grado di produrre da sé tutto ciò che gli serve per vivere, né del resto sarebbe auspicabile che la maggior parte del tempo della vita venisse speso in attività finalizzate alla semplice sopravvivenza fisica. La produzione di valori d’uso dovrà dunque essere integrata in parte da scambi non mercantili di beni e servizi ottenibili sulla base del dono e della reciprocità, in parte da scambi mercantili. Gli scambi basati sul dono e sulla reciprocità avverranno tra coloro che avranno fatto la stessa scelta esistenziale e, anche quando non siano legati da nessun vincolo formalizzato, sentiranno un forte senso di appartenenza a una cerchia di affini. I beni e i servizi che non potranno essere né autoprodotti, né scambiati in forma non mercantile (beni non producibili con tecnologie artigianali e servizi ad alta specializzazione), verranno acquistati sul mercato. Ciò implica che ogni individuo o nucleo familiare abbia la possibilità di accedervi, possa cioè disporre di redditi monetari derivanti dallo svolgimento di attività artigianali o professionali complementari alla produzione di valori d’uso, e/o dalla vendita di eccedenze della propria produzione di valori d’uso. Per evitare i disagi individuali e l’impatto ambientale del pendolarismo, le attività professionali verranno svolte utilizzando al massimo le opportunità offerte dal telelavoro. I monasteri del terzo millennio non saranno quindi luoghi in cui ritirarsi in isolamento dal mondo tagliando ogni rapporto con l’economia industriale e mercantile, ma in cui la vita verrà impostata sulla base di una diversa gerarchia di priorità.

                                      Riduzione dell’impatto ambientale
La rivalutazione del lavoro manuale nei monasteri del terzo millennio non sarà motivata da spirito di automortificazione o desiderio di un romantico regresso nei bei tempi andati, ma sarà una conseguenza della centralità assegnata alla produzione di valori d’uso e una scelta finalizzata a ridurre al minimo l’impronta ecologica individuale. Si tratterà di un lavoro manuale colto, di un saper fare nutrito di un sapere più vasto, che non si limita alla conoscenza dei materiali utilizzati, delle loro potenzialità e dei loro limiti. A questi elementi tipici della cultura specifica di ogni bravo artigiano, si aggiungerà la conoscenza del ciclo completo della loro vita, dall’estrazione alle possibilità di riuso e riciclaggio, al fine di eliminare il concetto stesso di rifiuto, che non ha nessun fondamento logico e genera soltanto problemi di carattere operativo. Analogamente la conoscenza delle tecniche sarà sostanziata dalla consapevolezza del loro impatto ambientale. La finalità ultima di questo saper fare colto sarà la produzione di beni per destinatari noti (fatti cioè per rispondere a un’esigenza e non per essere venduti), concepiti per durare il più a lungo possibile nel tempo e poter essere completamente riciclati al termine della loro vita. Questi parametri di riferimento consentiranno di definire il fare in termini qualitativi e non quantitativi, come un fare bene e non un fare fine a se stesso. Ne risulterà rivalutato il valore della lentezza come presupposto del fare bene e il lavoro sarà guidato dal motto: se hai fretta rallenta.
In relazione alla produzione di valori di scambio la riduzione dell’impatto ambientale passa attraverso l’acquisto di merci prodotte con le tecnologie meno inquinanti e meno energivore che, a parità di servizi, siano le meno inquinanti e le meno energivore nel corso della loro vita e quan

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