– Antonio Caronia: Nelle prime pagine di Giustizia senza limiti, leggo: "Le associazioni e le reti che, a torto o a ragione, pretendono di fare da contrappeso alla potenza finanziaria delle aziende transnazionali sono in larga misura strumentalizzate dai giganti dell'economia e della finanza. Una societa' civile mondiale non esiste". Puo' chiarire a chi sono rivolti questi rilievi critici?
– Serge Latouche: Quando scrissi quel passaggio pensavo alle Ong. Pensavo, piu' precisamente, a quello che e' successo a Rio e a Johannesburg.
A Rio [Conferenza dell'Onu sull'ambiente e lo sviluppo, 1992 – ndr] abbiamo visto le grandi imprese internazionali creare delle proprie Ong, per poter partecipare a questo movimento, per poter mettere lo zampino anche nella corrente delle Ong, e portare avanti le loro tesi anche in quest'ambito.
D'altra parte, molte Ong dipendono fondamentalmente dai finanziamenti pubblici e privati, per cui la loro pretesa di rappresentare la societa' civile mondiale va presa con molta cautela. Beninteso, ci sono delle Ong che fanno delle cose egregie, ma molte altre Ong sono fasulle, sono di fatto delle organizzazioni governative o dipendenti dalle aziende, quindi di fatto sono schierate da quella parte. Perche' non bisogna mai sottovalutare la capacita' di reazione dell'avversario. E' una cosa che le aziende hanno capito benissimo: hanno capito che i movimenti ecologisti, i movimenti di contestazione della globalizzazione etc., potrebbero rappresentare una minaccia per il funzionamento del sistema sul quale esse aziende si basano, e quindi bisogna recuperare, lavorare dall'interno, fare in modo che anche in quei movimenti ci sia una voce sostanzialmente favorevole agli interessi delle aziende. Le Ong possono essere un cavallo di Troia per recuperare dei legami con questi movimenti. E' un discorso estremamente complesso.
A Johannesburg [Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile, 2002 – ndr] il World Business Council, che e' l'organizzazione delle imprese per la conservazione dell'ambiente (ma che raggruppa tutti i piu' grandi inquinatori del pianeta, come Esso, Nestle', Total, etc.) ha contattato Greenpeace, dicendo loro: "Guardate, una cosa e' sicura, non saranno certo gli stati a salvare il pianeta". Questo discorso e' interessante. Dice: gli stati non sono capaci di decidere nulla. Dunque se c'e' qualcuno che puo' fare qualcosa siamo noi, o nessun altro. E percio' dovete lavorare con noi, bisogna lavorare insieme. Ora io non nego che ci possano essere dei responsabili di impresa che siano coscienti dei pericoli per l'ambiente rappresentati da un'attivita' industriale sregolata, e che quindi con loro si possano fare dei compromessi. Ma non credo che questi compromessi possano portare molto lontano, non credo che possano riguardare piu' che degli obiettivi limitati: cio' di cui c'e' bisogno qui sono delle regolamentazioni, dei vincoli forti all'attivita' industriale, e una vera regolamentazione non puo' andare nell'interesse delle aziende transnazionali, oggi.
– Antonio Caronia: Criticando l'utilitarismo, lei cita spesso la famosa formula del filosofo scozzese del Settecento Francis Hutcheson: "La maggiore felicita' per il maggior numero di persone possibile", a cui gli utilitaristi come Bentham e Stuart Mill appunto si ispirarono. Vuole tornare sull'argomento, e dirci cosa c'e' di sbagliato in questa formula?
– Serge Latouche: E' una formula un po' assurda. Molto semplicemente, dal punto di vista logico, dire "la felicita' maggiore per il numero maggiore" significa massimizzare due cose nello stesso tempo. O si ha la maggior felicita' per un numero ristretto di persone, o c'e' una certa felicita' per la maggioranza – ma non si possono avere entrambe le cose. Se abbiamo due cose che crescono contemporaneamente, possiamo dare la stessa felicita' a un numero sempre piu' grande di persone, e cosi' avremo massimizzato il numero di coloro che godono di questa "felicita'", oppure possiamo dare la piu' grande felicita', ma soltanto a qualcuno. In ogni modo, con il sistema attuale, in cui si realizzano profitti giganteschi, si puo' dare "la maggiore felicita'" a un numero maggiore di persone solo perche' si sono massimizzati degli elementi (insomma perche' e' cresciuta la ricchezza). Nel sistema dello Stato sociale, nessuno aveva profitti cosi' giganteschi, ma tutti avevano un aumento misurato del proprio benessere. Insomma, e' un sistema contraddittorio e assurdo.
E poi la formula e' criticabile anche perche' e' un effetto della hybris, l'orgoglio smisurato che gli antichi greci criticavano appunto perche' rappresenta l'eccessivo, cio' che non ha misura ne' limite. Ma che cosa significa poi "la maggiore felicita'"? Io non ho bisogno della maggiore felicita', ho bisogno della felicita' e basta. Essere felici e' gia' sufficiente. Al limite, se anche volessimo parlare di dimensione, si potrebbe dire che non e' male neanche una "piccola felicita'".
Ma in realta' quantificare la felicita' e' stupido. E' evidente che questo atteggiamento apre la porta all'economicizzazione del mondo e all'economicizzazione dello spirito. Per poterla quantificare, la felicita' deve essere ridotta al prodotto nazionale lordo, e questo e' assurdo, stupido e pericoloso, anche perche' gli effetti sono sotto gli occhi ti tutti. Io credo che quando Beccaria utilizzo' anche lui questa formula non fosse del tutto cosciente dei suoi effetti, dell'ipertrofia dell'economia che si andava preparando e che si sta realizzando pienamente oggi. Adesso nel dibattito, evidentemente, c'e' una consapevolezza maggiore, ma le radici di questo atteggiamento risalgono ai tempi di Francesco Bacone. La colonizzazione dell'immaginario e' un processo che ha ormai una certa storia, in fondo segna gia' l'inizio della modernita'.
– Antonio Caronia: Lei critica la prospettiva universalista, cioe' la pretesa della civilta' occidentale di imporre a tutto il mondo una serie di valori considerati validi per tutto il genere umano. Ma criticando l'universalismo, non c'e' il rischio di cadere in un eccessivo relativismo? La difesa a oltranza delle culture particolari (come abbiamo gia' visto) non crea lacerazioni e conflitti in nome di una visione ristretta dell'identita'?
– Serge Latouche: Sono contro l'universalismo perche' e' una creazione dell'occidente, perche' e' un'ideologia occidentale, e una forma di imperialismo culturale: in fondo, e' l'identita' della "tribu' occidentale" (per riprendere il termine di Rino Genovese). Io credo invece che dobbiamo valorizzare l'aspirazione a un dialogo fra le culture, a una coesistenza delle culture. Per questo alla prospettiva dell'universalismo opporrei piuttosto un "universalismo plurale", che consiste nel riconoscimento e nella coesistenza di una diversita', e nel dialogo fra queste diversita'.
Dietro a tutto cio' sta una questione filosofica molto importante, perche' l'universalismo si e' fondato sulla credenza in valori "naturali": si pensa che i valori occidentali siano degni di essere diffusi ovunque, che siano migliori dei valori di altre culture, perche' li si considera insiti nella natura dell'uomo, si pensa che l'occidente abbia espresso meglio di altre culture cio' che accomuna tutti gli esseri umani.
Naturalmente le cose non stanno affatto cosi': non ci sono e non ci sono mai stati "valori naturali", i valori sono tutti culturali, quindi semmai c'e' una diversita', che bisogna sostenere con il dialogo. Pensiamo alla cultura indiana. Per un indiano la vita di una mucca e' fondamentale. Non si puo' uccidere una mucca. Noi invece, tanto per fare un esempio, a causa della mucca pazza abbiamo massacrato milioni di mucche. Ora, se vogliamo coesistere con gli indiani e rispettare i loro valori, dobbiamo capire che bisogna dialogare anche con le cose che non ci piacciono. Ci sono delle cose che fanno gli indiani e che a noi sembrano orribili, come ci sono cose che noi facciamo e che sembrano orribili agli indiani. Allora, dobbiamo accettare questa situazione, poi, una volta accettata la diversita' possiamo anche negoziare, ma da uguale a uguale.
Il problema e' che l'universalismo e' una trappola, potremmo dire un "errore universale": noi abbiamo preso i nostri valori, considerati espressione di un modo di pensare "naturale", e abbiamo voluto imporli a tutti gli altri.
– Antonio Caronia: Be', e' come dire (e mi sembra che qualcuno l'abbia detto) che tutte le culture sono uguali, ma ce n'e' qualcuna che e' piu' uguale delle altre…
– Serge Latouche: Si', e' quello che diceva il mio amico Castoriadis. Io non ho mai accettato questa formula: ci sono delle culture che sono piu' potenti di altre, che possono imporsi alle altre, che possono anche distruggerle, ma piu' uguali di altre, via… Eppure questa formulazione e' interessante, perche' indica che in certe circostanze alcune culture possono, almeno in parte, prendere le distanze da se stesse.
Il problema e' che la consapevolezza della propria cultura in una certa misura rende piu' difficile porre la questione della diversita' delle culture. Insomma, il dialogo fra culture e' necessario, ma bisogna essere consapevoli che al di la' di un certo limite sara' un dialogo tra sordi. Certo, possiamo capirci perche' condividiamo certe cose, ma questa comprensione non puo' mai essere totale, perche' ognuno di noi e' sempre all'interno di una cultura, e guarda i problemi in funzione della propria cultura. Non c'e' una soluzione definitiva a questo problema: c'e' solo il rispetto della diversita'. Nel momento in cui si ha un minimo di rispetto, di tolleranza per l'altro, allora si puo' fare qualche passo avanti.
– Antonio Caronia: Che cosa pensa dell'elaborazione delle femministe a questo proposito? In fondo, e' stato il femminismo che ha posto con piu' forza (e a volte anche con chiarezza) il problema dei limiti culturali, del "punto di vista" inevitabilmente parziale da cui ognuno di noi parla.
– Serge Latouche: Sono d'accordo, con delle precisazioni. A volte vengo aggredito da qualche femminista, che mi rimprovera di non parlare delle donne. Be', rispondo dicendo che non ne ho parlato perche' non sono una donna, siete voi donne che ne dovete parlare. Si comincia a parlare dall'"io sono", non e' vero?Secondariamente, c'e' un malinteso su questo punto quando si apre un dialogo con altre culture, perche' anche il femminismo e' nato in una societa' occidentale, ed e' nato a partire dalla visione individualista della nostra cultura, che sacralizza l'individuo a scapito delle altre dimensioni, di gruppo o anche personali. Per noi l'individuo e' tutto, ma non e' cosi' per altre societa', per altre culture, che spesso hanno una visione olistica, integrale, del rapporto fra gli esseri umani e il mondo.
Percio' riconosco la legittimita' del movimento femminista all'interno del mondo occidentale, che concepisce la societa' come un'associazione di individui. E' normale che in una situazione come questa le donne, per cosi' dire, rivendichino la loro parte; ma al tempo stesso bisogna comprendere che puo' non essere lo stesso in altre societa', in cui il rapporto fra i sessi, il rapporto fra uomini e donne, e' concepito a partire da una visione globale: in queste societa' non e' detto che le donne stesse maturino un punto di vista "femminista" all'occidentale. Malgrado tutto, siamo sempre alienati. Alienati puo' essere un altro termine per designare una situazione in cui tutto e' formattato, in un modo o in un altro. Se non si e' formattati in un certo modo lo si e' in un altro. Da questo punto di vista l'individualismo e' una forma di alienazione.
– Antonio Caronia: Nel suo intervento, oggi, lei ha detto che "il multiculturalismo e' il cosmetico della mondializzazione". Puo' spiegare questa affermazione?
– Serge Latouche: Mi riferisco a un certo discorso multiculturalista, quello, ad esempio, sviluppato dalle agenzie di viaggio, che promuove la "scoperta di nuove culture" come una cosa fantastica, e parla di una diversita' che non si era mai vista nella storia dell'uomo. Questa e' una forzatura, un errore storico.
Il multiculturalismo non e' stato una scoperta della modernita', ne' della postmodernita'. Ci sono gia' state esperienze di convivenza tra culture diverse, e non cosi' livellatrici come quella di oggi. L'antropologo Marco Aime lo dice bene. A Venezia, fra il XIII e il XV secolo, c'erano albanesi, c'erano ottentotti, che vivevano in certi quartieri, gli ebrei vivevano nel ghetto, ma non era una condizione realmente escludente. Nessuno era uguale, e ognuno era differente in rapporto al potere. Non voglio dire che tutto funzionasse, ma c'erano dei meccanismi di bilanciamento e di compensazione.
Quello che va demistificato e' l'uso che si fa del multiculturalismo per nascondere il terribile dramma dell'uniformazione planetaria: la diffusione generalizzata di McDonald's, della Coca-Cola, di un modo di vita occidentale che viene presentato come ideale, e che colonizza le menti delle persone distruggendo al tempo stesso i loro mezzi di sussistenza. Quando si fa bere la Coca-Cola a delle popolazioni africane o latinoamericane, si distruggono le imprese locali, l'artigianato locale, le tradizioni locali, in cui ci sono bevande particolari come succhi di frutta o succo di canna da zucchero, etc. La stessa cosa avviene per l'alimentazione, con McDonald's e il fast food. Questa e' un'uniformazione culturale. E la stessa cosa avviene per la musica: si esalta la musica folk, la musica etnica, ma tutto cio' in realta' passa attraverso una formattazione hollywoodiana, americana…
– Antonio Caronia: Ma allora non e' possibile un multiculturalismo che vada in un'altra direzione, che costruisca un vero dialogo fra le culture?
– Serge Latouche: Bisogna capire che ogni cultura, in se stessa, e' multiculturale. Ma lo e' realmente, autenticamente, non perche' si costruisce un discorso artificiale sulle culture "esotiche", che e' solo uno specchietto per le allodole. Ogni cultura e' multiculturale perche' e' necessariamente aperta agli apporti di altre culture. La sua identita' sta nella pluralita'. Quella che viviamo adesso, invece, e' la distruzione di ogni identita', di ogni capacita' di orientamento. All'interno della propria cultura oggi ognuno sta perdendo i propri punti di riferimento, nessuno sa piu' chi e', nessuno sa piu' a cosa credere: e questa e' la porta aperta al totalitarismo, e' cosi' che si crea il potere totalitario. La gente diventa facile preda di piu' o meno astuti "imprenditori di identita'". La cosa piu' grave e' che tutto questo e' gia' successo, e noi ce ne stiamo dimenticando.
L'analisi che ha fatto Reich dell'ascesa del nazismo (utilizzando strumenti della psicanalisi e del marxismo), mostra bene che una delle cause principali di quel fenomeno fu che la classe media tedesca aveva perso tutti i suoi punti di riferimento, le sue difese. Perche' i punti di riferimento sono anche delle difese immunitarie.
– Antonio Caronia: Lei crede che il movimento antiglobalizzazione sia in grado di cambiare – almeno in parte – questa situazione?
– Serge Latouche: Non so se possa farlo nella sua forma attuale. Ma penso che questo movimento abbia gia' dato dei buoni risultati: e' stato in grado di mettere in crisi alcuni progetti dei governi e delle aziende transnazionali, ha diffuso nell'opinione pubblica un certo numero di temi.
Certo, e' un movimento ben lontano dall'essere monolitico, unificato, e' attraversato da contraddizioni le piu' varie. Ma penso che sia un movimento importante. Ma io confido anche in un altro antidoto, che e' un modo di trasformare in ottimismo il pessimismo, ed e' quello che io chiamo "la pedagogia delle catastrofi".
Io sono sicuro che questo sistema mondiale abbia una indubbia capacita' di autodistruzione. E credo che questa consapevolezza possa essere diffusa. Noi possiamo attrezzarci a vivere questo cambiamento, questa condizione, superando le tendenze alla distruzione, credo che possiamo costruire una sorta di laboratorio del futuro. E credo che questa oggi sia un po' la missione degli intellettuali impegnati.
Da www.socialpress.it, settembre 2004